Astigiani 24 – giugno 2018
Due novità dell’estate
di Sergio Miravalle
Astigiani annuncia l’estate di questo 2018, carico di novità politiche, con il numero 24 del nostro impegno editoriale. Come sempre il giudizio spetta ai lettori. La rivista spazia tra i secoli: dall’Antico Egitto agli Anni Trenta fino alle opere “incompiute” dei giorni nostri. Ai grandi temi si affianca la carrellata storica dei primi 40 anni di Asti Teatro, arricchita dalle testimonianze di chi creò il festival nel 1979 e di chi lo ha vissuto e gestito in questi decenni. Sono poche le rassegne teatrali italiane che hanno raggiunto il traguardo dei 40 anni ed è un primato che non tutti gli astigiani
conoscono e apprezzano. Il nostro Album di famiglia è dedicato al rapporto d’amore tra noi e gli animali. Sono arrivate decine di foto e le abbiamo corredate di disegni di Ilaria Cannella e racconti di Gian Paolo Squassino, il veterinario scrittore.
La rivista, che si presenta con la consueta veste grafica, contiene due novità all’attenzione dei lettori. Una nuova rubrica intitolata L’ultimo brichet (il riferimento è da cogliere ascoltandone l’eco) è affidata all’arguzia di Pippo Bessone, ben conosciuto anche nell’Astigiano come autore e cantante prima dei Tre Lilu e poi nel ruolo profetico di Padre Filip. Filippo gioca a stimolare la memoria affondando nei luoghi comuni di certi comportamenti sociali che visti oggi possono far sorridere.
Cominciamo dal rito dei regali di nozze.
Altra novità è la pagina “L’Illustrazione astigiana” affidata al disegno del giovane Francesco Migliore che ispirandosi ai grandi come Achille Beltrame sulla
Domenica del Corriere di cento anni fa racconterà ogni volta un avvenimento della vita astigiana con lo stile e i colori di quelle straordinarie tavole. Un modo per far entrare nella nostra storia la nostra vita.
Buona lettura e buona estate.
Rabdomanti della cultura
di Piercarlo Grimaldi
Le stagioni astigiane si arricchiscono sempre più di un cogente e riflessivo ritmo culturale. Astigiani da oltre un lustro è entrata via via a far parte del
filo del tempo e dello spazio delle nostre colline. La rivista affronta, come d’abitudine, la piccola grande storia della nostra comunità di destino. Tracce
folkloriche, analisi storiche, oralità e scrittura dialogano in modo armonico e a volte originale per interpretare l’invisibile e pur solida astigianità di un territorio che sempre più sembra presentare una consistente filigrana di coscienza.
Una ricerca di “storia e storie” che, a volte, non è facile da disvelare, perché occorre ricorrere al documento-monumento così come occorre andare alla ricerca delle più labili tracce di un sapere trasmesso di generazione in generazione che va strappato all’agglutinante rete dell’oblio.
In questo numero Astigiani ci porta alla ricerca di saperi, di conoscenze di tempi lunghi e meno lunghi: dalla preziosa e splendida mummia che narra della vocazione astigiana a osservare e comprendere il mondo e i linguaggi delle nostre origini, ai più recenti quarant’anni trascorsi del teatro astigiano. Quarant’anni di gesti e di parole che hanno nutrito e si sono nutriti dell’ospitante cultura della nostra terra.
Un patrimonio che per l’importante ricorrenza non sembra sempre all’altezza della sua storia. La performance e l’originalità teatrale delle origini hanno lasciato lo spazio a una talvolta timida espressività che non sempre sembra essere interprete dell’orizzonte culturale che il nostro paesaggio narra. Eppure, alla fine della fine, è dell’immaginario rappresentato che abbiamo bisogno così come di un più autorevole e consapevole sostegno ideale e sostanziale delle istituzioni pubbliche e private.
Per queste ragioni auguriamo ad Asti Teatro una lunga vita di innovative radici.
La storia delle “sitibonde” colline astigiane che il fascismo delle grandi opere di regime disseta con la realizzazione dell’acquedotto del Monferrato, costituisce una solida riflessione da cui partire anche per osservare che le Langhe risolvono il problema delle assetate colline solo trent’anni dopo, quando un farmacista amministratore come Giacomo Oddero porterà l’acqua delle montagne cuneesi a spasso per le arse colline sorelle. Quello della sete è un tema che troppo presto abbiamo stoltamente dimenticato e su cui occorre vigilare con l’allertata coscienza di una storia recente che è a fondamento della rinascita delle colline del Piemonte meridionale.
Dimenticati per dimenticati, occorre ritrovare le esauste sorgenti, le tracce dei misterici rabdomanti dai solidi nervi che sentono l’acqua e interpretano il
suo scorrere profondo, i pozzi strappati alla resistenza del tufo più duro e più profondo che si vestono di capelvenere.
Un tema di tradizione che è alle tragiche radici dell’assetata letteratura provenzale di Giono e di Pagnol e che stranamente trascorre quasi trascurato nella grande cultura letteraria del Novecento che su queste colline ha espresso una poetica neorealista che si è fatta mondo, pur dimenticando l’indimenticabile.