sabato 27 Luglio, 2024
1935

Michele Chiarlo

"Sono sempre innamorato della Barbera"
La storia di Michele Chiarlo parte da quella del padre Pietro, fondatore della cantina sociale di Calamandrana e sindaco del paese che manda il figlio a studiare alla scuola enologica di Alba. Michele si diploma nel 1955 e crea un’azienda che chiama “Duca d’Asti”. Con il tempo e il lavoro cresce la consapevolezza che la strada da percorrere è quella della qualità e della territorialità. Oggi l’azienda Chiarlo, che si definisce al cento per cento piemontese, ha vigne per oltre 100 ettari, produce più di un milione di bottiglie ed esporta il 78% della produzione. Barbera, ma anche Barolo sono i prodotti di punta, senza dimenticare il Moscato d’Asti. Sono lontani i tempi di quando in America fu scambiato per un venditore di Lambrusco emiliano. Michele si racconta e racconta i progetti di un uomo che gli anni li conta in vendemmie.

Non si può parlare di Michele Chiarlo senza partire dalla sue radici e dalla storia del padre Pietro, leva del 1898. I Chiarlo erano una famiglia di “s-cianvandé” che passavano a cottimo da una cascina all’altra, come manovali agricoli il cui contratto scadeva ogni anno a San Martino, l’11 di novembre. Li troviamo all’inizio del Novecento alla cascina Pastori a Bubbio. La prima paga del giovane Pietro fu di cento lire all’anno e un paio di zoccoli. Pare di essere in una scena del film di Ermanno Olmi. Michele Chiarlo ricorda bene i racconti del padre: “Le enormi difficoltà della vita quotidiana dell’epoca non lo scoraggiarono rivelando anzi un lavoratore instancabile, giovanissimo soldato di leva valoroso durante la Grande Guerra, grande appassionato di musica e capace di idee del tutto innovatrici in ambito imprenditoriale”.  La storia vede nel 1915 i Chiarlo in una nuova cascina a Canelli, in regione Dota, gravata da una esosa mezzadria che prevedeva la consegna di ben due terzi del prodotto ricavato al proprietario terriero benestante, in luogo della abituale metà. Arrivò la Grande Guerra, che portò il giovanissimo Pietro, alpino, a guadagnarsi al fronte il grado di sergente maggiore. Tornò con un’accresciuta voglia di affermarsi: alla fine del 1918 riuscì a farsi assumere alle cantine Contratto con l’iniziale mansione di lavare i sacchi “olandesi” di juta utilizzati per il filtraggio del moscato. La Contratto era, ed è, tra le più famose case spumantiere canellesi e produceva anche allora con il metodo “champenois”, oggi chiamato metodo classico. Pietro imparò presto le più complesse operazioni di cantina come il remuage e il dégorgement da compiere a mano sulle bottiglie che stavano messe di punta sulle pupitres sistemate nella grande cantina “Sempione”, così chiamata perché scavata nella collina di Canelli lo stesso anno del traforo ferroviario. La sua intraprendenza e curiosità lo portano ad approfondire i processi di spumantizzazione, fino a consentirgli di ottenere il titolo di “champagnista”, una specializzazione ricercata dalle industrie dello spumante. Lavorava da Contratto, ma non dimenticò di mandare avanti la terra e nel 1921 ottenne, a migliori condizioni di mezzadria, un’altra cascina a Calamandrana di proprietà di un maestro di musica cieco: Giuseppe Garino. In quell’anno sposò Agostina e divenne padre di Giuseppina. Fu il musicista a insegnare a Pietro a suonare la fisarmonica animando con una piccola orchestra feste e ricorrenze e, perché no, anche i funerali.

Pietro Chiarlo, padre di Michele, classe 1898. È stato tra i fondatori della Cantina Sociale di Calamandrana nel 1950 e sindaco del paese per due mandati

Pietro era un uomo allegro, forte, generoso. Conobbe anche il dolore della perdita della figlia Valentina, morta a soli sei anni. Nel 1930, causa un’ondata straordinaria di grandine e gelo, che fece perdere i raccolti, decise il gran salto. Il regime fascista cercava coloni da mandare in Africa. Pietro Chiarlo emigrò in Somalia e poi, con un fidato amico di Canelli, acquistò un camion con le cambiali e divenne autotrasportatore tra Eritrea, Somalia e ad Addis Abeba. Ma visti i venti di guerra contro l’Etiopia preferì tornare in Italia. Non aveva l’animo del colonialista e ancora meno condivideva le idee fasciste. Nel maggio del 1935 gli era nato Michele, il figlio maschio tanto atteso e voluto. Trovò lavoro in una squadra di trebbiatori che passavano con una grande macchina Orsi tra Monferrato e Alta Langa a “battere il grano” nell’aia delle cascine. Un lavoro duro, ma redditizio. Mise da parte qualche soldo e scampò per poco il richiamo della nuova guerra dichiarata da Mussolini nel 1940. Servivano braccia nei campi e nelle vigne per sostenere quello che allora era definito “lo sforzo bellico”. Nel 1942 arrivò l’occasione dell’acquisto di una cascina semi abbandonata, la Gatti, alla Garbazzola di Calamandrana: terra finalmente sua dove impiantare vigne di barbera e moscato. Passò la guerra e Pietro divenne tra i maggiori produttori di uva alla Garbazzola. Ma i grappoli andavano venduti in vendemmia e il prezzo lo stabilivano i mediatori che comperavano a nome dei pochi commercianti imbottigliatori. Fu così che anche a Calamandrana un gruppo di contadini decise di dar vita a una cantina sociale. Pietro era tra questi: credeva nell’unione che poteva dare ai viticoltori quella forza che, singolarmente, nei tempi difficili del dopoguerra, non potevano avere. Nel 1950 fu tra i fondatori della cantina sociale, ne divenne consigliere e, dal 1954 fu eletto presidente. Risale al 1956, con il figlio Michele che nel frattempo aveva frequentato la scuola enologica di Alba, l’idea di battezzare la propria cantina “Duca d’Asti”. “Era un modo per darci importanza – ammette Michele – eravamo all’inizio e con un titolo nobiliare in etichetta ci sentivamo… più grandi. Allora si usava così”. La Duca d’Asti si affermò anche nella produzione dei vini speciali in confezioni “souvenir d’Italy”. È un mercato particolare dove Michele mette a frutto le sue capacità commerciali. Ma il tema della qualità non si perde di vista e dopo alcuni anni in etichetta apparirà il nome e cognome del produttore “Michele Chiarlo” “Una cosa più chiara e semplice per tutti”. “Mio padre – racconta ancora Michele – per non farsi mancare niente e per dare comunque una mano alla collettività, si candidò nel 1982 in una lista di sinistra, vicina al Pci, a sindaco del paese, venendo eletto per due mandati e devolvendo peraltro l’indennità in beneficenza. Per questo e per altri meriti ora in paese c’è una piazza a lui intitolata”Pietro morì a 92 anni, nel 1990, lucido e determinato fino all’ultimo. “Per ricordare i suoi esordi da champagnista gli abbiamo voluto dedicare una cuvée, da uve cortese e chardonnay, frutto dell’esperienza aziendale nella produzione di spumanti metodo classico maturata fin dal 1974. Sono 1400 bottiglie l’anno della riserva “Pietro Chiarlo”, con una etichetta nata dalla collaborazione tra la nostra casa vinicola e la Luxoro, specializzata nel vestire le bottiglie. Anche questo ci ha insegnato papà, sposare la tradizione con la modernità”.  

 

Michele Chiarlo dopo il diploma in Enologia nel 1955 avvia l’azienda Duca d’Asti a Calamandrana

 

Facciamo un passo indietro. Si rivede studente alla scuola enologica di Alba ? “Ero a scuola con ragazzi del vino divenuti celebri come Renato Ratti, Giacomo Tachis, Ezio Rivella, Franco Ziliani e altri ancora. Mi sono diplomato nel 1955 dopo i sei anni di corso. Ho iniziato ad impegnarmi in vigna e, con alcuni amici a sperimentare nuove strade al fine di creare un prodotto davvero “per tutti”. Ho sempre creduto nella barbera e nelle sue potenzialità.” 

Che tempi erano quelli sotto l’aspetto della commercializzazione dei vini? “All’epoca c’erano ancora mediatori che acquistavano direttamente le uve in bigoncia per poi vinificarle in proprio. Ma la strada giusta era un’altra. Bisognava controllare l’intera filiera, dall’uva al vino. E non bisognava aver paura di cercare mercati nuovi e più redditizi. A metà degli anni Settanta, decisi di partire per gli Stati Uniti, e a New York mi rivolsi all’ufficio Ice (Istituto nazionale per il Commercio estero) che aveva a capo un funzionario intraprendente di nome Livio Caputo. Mi consegnò la lista degli importatori di vini italiani che si dimostrarono però per nulla interessati a quelli piemontesi. Erano tutti concentrati in quegli anni sul lambrusco che chiamavano “Italian Cola”. Solo un importatore mi telefonò per fissare un appuntamento. Gli presentai le nostre barbera, ma lui insisteva con il lambrusco. Era successo che per lo scambio di una vocale aveva pensato di parlare con Chiarli (famoso produttore di Modena di Lambrusco) e non con Chiarlo. Non si lasciò convincere”. 

Ma non si demoralizzò…Illuminante fu un viaggio in Borgogna, dove la cultura del vino metteva la qualità al primo posto e le bottiglie davano un reddito adeguato ai viticoltori. In Italia si cominciava a discutere di barrique e diradamenti, loro erano più avanti, non bisognava perdere tempo e credere nelle nostre uve a cominciare dalla barbera di cui sono sempre stato innamorato. Giocai a quel punto la carta Germania dove si vendevano prevalentemente vini veneti di basso livello, in bottiglioni, e poi Lambrusco e Chianti, in fiaschi. Alla fiera Anuga di Colonia ero l’unico produttore piemontese presente. Sono arrivati i primi contratti e poco dopo ho iniziato a esportare anche in Svizzera, pur se in quantità limitate”. 

 

Anni Ottanta, Michele Chiarlo con la moglie Pinuccia e i figli Alberto e Stefano che entrano giovanissimi in azienda

 

Poi toccò ai mercati americano, russo, cinese…. “Altra grande sfida, davvero. Nel 1976 la società importatrice Kobrand, mettendoci un anno e mezzo, selezionò alcune ditte vinicole che avessero determinate caratteristiche, partendo proprio dal Piemonte. Tra 16 anche la mia azienda. Fra le caratteristiche richieste, anche quella di avere almeno due figli maschi, a garanzia della continuità dell’impresa. Io con Stefano e Alberto ero a posto. Il rapporto di collaborazione continua ancora oggi. Debbo invece l’espansione sul mercato russo a Italo Zingarelli, che mi portò a Mosca dove aveva organizzato una sorta di joint-venture cinematografica con Roma. A Mosca nel palazzo del cinema vi era un ristorante dal nome italiano, Arlecchino, e per l’occasione veniva consegnato un premio a Ugo Tognazzi. Mi presentai insieme ad alcuni produttori accompagnati anche da Pino Khail, il dinamico direttore della rivista “Civiltà del bere”, e riuscii così ad allacciare i primi rapporti commerciali. Nei primi anni Ottanta debuttammo anche in Cina. Il mondo si stava aprendo al vino italiano. Bisognava far conoscere il Piemonte. A quel tempo per spiegare all’estero dov’era Calamandrana dicevo che si trovata a poco più di due ore d’auto da Montecarlo”. 

Oltre alla barbera ha portato all’estero anche il moscato d’Asti. “Il nostro moscato d’Asti, Nivole, sta andando forte negli Stati Uniti nella ristorazione con una bottiglia da 0,375 della capacità di due coppe… per finire in dolcezza. In Canada vendiamo bene la barbera d’Asti e un rosso del Monferrato. Ultimo mercato aperto è la Corea del Sud, grazie al moscato”. 

Ci sono stati momenti difficili nella sua vita di vignaiolo? “Ero presidente del Consorzio Barbera nel periodo del metanolo, nel 1986, il più buio nella storia del vino piemontese e italiano. È stata un’esperienza molto dura. Uno scandalo che rischiava di azzoppare lo slancio dell’Italia proiettata verso il primo posto nella produzione vitivinicola mondiale, ma che divenne momento di stimolo e di incoraggiamento nel far bene e senza trucchi”. 

 

La vendemmia alla tenuta La Court di Castelnuovo Calcea

 

Quali sono oggi i cardini del marketing enologico? “Bisogna continuare a far capire al mondo che l’Italia (e non solo, per intenderci, la Francia) produce vini di grande pregio. Per trasmettere questa immagine è necessario unirsi per avere più forza. È quanto abbiamo inteso fare con la costituzione dell’Istituto del Vino Italiano di Qualità – Grandi marchi, formato da 19 prestigiosi marchi di diverse regioni italiane, con prodotti caratterizzati da alti livelli qualitativi. Dal punto di vista del marketing aziendale è anche molto importante la presenza personale del produttore. Io e i miei figli giriamo ancora il mondo, bisogna andare di persona, non basta il contatto via internet”.

 

Che cosa ha ispirato la creazione del parco artistico “Orme su la Court”? “Abbiamo voluto integrare armonicamente l’arte con il vigneto attraverso la creazione di un inedito percorso tra i filari che si snodano fra le cascine Castello e La Court, nel nostro podere di Castelnuovo Calcea. Ci sono le vigne e ci sono i cipressi messi a dimora dalla precedente proprietà. Il grande Lele Luzzati e diversi altri artisti hanno dato forma a sculture e ideato scenografie in movimento ispirate al tema dei quattro elementi: aria, acqua, terra e fuoco. Balthasar, Carbone e Roggero Fossati hanno scolpito dal canto loro delle originali “teste segnapalo”, forme-totem collocate a inizio di filare. Ci ha dato una mano importante Giancarlo Ferraris, un canellese con una capacità artistica straordinaria. Il parco, con spazi dedicati a esposizioni e degustazioni, è costantemente sede di eventi culturali che associano il vino all’arte, alla letteratura, alla musica, allo sport, alle tradizioni”. Il patrimonio di vigneti di famiglia oggi è il frutto di un razionale progetto di acquisizioni succedutesi negli anni, con acquisti e contratti di conferimento in zone vocate a cominciare da Gavi e poi a Barolo e La Morra dove in località Cerequio i Chiarlo hanno anche ristrutturato il relais “Palas”: camere con vista sui vigneti divenuto una delle mete più ricercate dagli enoturisti stranieri. Il cuore resta però a Calamandrana, il paese d’origine.

Ha mai pensato di investire anche in altre regioni, come hanno fatto altri suoi colleghi piemontesi? “Ho avuto offerte, ma abbiamo deciso di concentrarci sulle nostre terre. Il nostro slogan è: Chiarlo cento per cento Piemonte”.

 

Due installazioni artistiche al parco Orme su La Court

 

Come ha festeggiato i suoi primi ottant’anni? ”Una bella cena in famiglia con moglie, figli e nipoti e come regalo una serie di riconoscimenti prestigiosi ai nostri vini. Primo fra tutti, i “Tre Bicchieri” aggiudicati alla Barbera Nizza La Court dalla guida del Gambero Rosso 2016. Sono felicissimo che tali risultati abbiano coinciso con una vendemmia “5 stelle super”, nella quale la qualità ha rasentato la perfezione. Forse la migliore stagione degli ultimi 20 anni”.

Il tempo per lei che valore ha? “Conto gli anni a vendemmie che sono più di sessanta e non smetto di coltivare sogni e progetti. Sono orgoglioso, con i miei figli, di essere la prima azienda piemontese vitivinicola completamente certificata dal ministero dell’Ambiente. Abbiamo ridotto al minimo l’impatto ambientale delle nostre produzioni, diminuito il peso medio del vetro delle bottiglie, stiamo progettando un sistema di pannelli solari di ultima generazione che ci darà il 40% del nostro fabbisogno energetico e abbiamo mascherato i capannoni della nostra sede a Calamadrana con uno straordinario giardino verticale”. 

Le Schede

 

L'AUTRICE DELL'ARTICOLO

Astigiani è un'associazione culturale aperta, senza scopo di lucro, che ha bisogno del sostegno di altri "Innamorati dell'Astigiano" per diffondere e divulgare la storia e le storie del territorio.
Tra i suoi obiettivi: la pubblicazione della rivista trimestrale Astigiani, "finalizzata alla raccolta e diffusione di informazioni e ricerche di storia e cultura astigiana dal passato remoto a quello prossimo, con uno sguardo al presente e la visione verso il futuro (dallo statuto), la raccolta di materiale per la creazione di un archivio fotografico, video e documentale collegato al progetto "Granai della memoria", la realizzazione di presentazioni pubbliche e altri eventi legati al recupero della memoria del territorio.

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