sabato 27 Luglio, 2024
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1958

Gli ultimi clienti di Villa Favorita

Sessant'anni fa, nel settembre, chiusero le case di tolleranza
Il 20 settembre 1958, in seguito alla legge voluta dalla senatrice socialista Angelina Merlin, sostenuta dal presidente dell’Assemblea Costituente, il comunista Umberto Terracini, chiudevano anche ad Asti le case chiuse, da molti definite “casini”. Il disegno di legge non ebbe vita facile. Le destre, soprattutto i monarchici e i missini (ma non mancavano perplessità anche da parte di altri parlamentari), si opposero con varie argomentazioni: dal rischio di mancato controllo sanitario a questioni di ordine pubblico. Le prostitute che esercitavano nelle case di tolleranza erano schedate dalla buoncostume e dovevano sottoporsi a regolari visite mediche per tentare di arginare il diffondersi delle malattie veneree. Tra le case chiuse astigiane, erano molto note quelle di via Arò e Villa Favorita.

Il mestiere più antico del mondo tra storia e polemiche

 

Durante la Belle Epoque la prostituzione entra nei tabarin. Nel dipinto “Loge dans la Sofiensaal” di Josef Engelhart, 1903

 

Sono passati sessant’anni dal settembre 1958 che vide la chiusura, per legge, delle case di tolleranza. C’è ancora chi ricorda quel 20 settembre quando i “casini” in ottemperanza alla legge che fu chiamata Merlin, dal nome della senatrice che si batté per farla approvare, furono smantellati. Non si interruppe però l’attività delle “signorine” e delle tenutarie che in poco tempo ripresero in altri luoghi quello che è definito il mestiere più antico del mondo. Secondo le statistiche ufficiali, da considerare al ribasso rispetto alla realtà, le prostitute che nel 1958 risiedevano in queste maisons erano circa 3000 in oltre 700 casini. Asti ne aveva due, uno era attivo anche a Canelli in via Al Belbo. Nelle grandi città erano decine.

Oggi di quella stagione sono rimasti ricordi e polemiche, mai sopite, tanto che c’è chi ancora vorrebbe la riapertura dei bordelli, attivi anche fiscalmente e controllati dal punto di vista sanitario in paesi come la Svizzera, l’Olanda, l’Austria, la Germania, gli Stati Uniti.

Ma torniamo al 1948 quando la senatrice Angelina Merlin detta Lina, prima donna a conquistare lo scranno di senatrice per il Partito Socialista, eletta in Veneto, sostenuta dal presidente dell’Assemblea Costituente, il comunista Umberto Terracini, presentò in Parlamento il suo disegno per l’abolizione delle case chiuse in Italia. La senatrice, oltre che per la dignità delle donne, si batteva perché lo Stato non lucrasse sulla prostituzione, visto che l’attività delle case di tolleranza era tassata.

Il disegno di legge non ebbe vita facile. Le destre, soprattutto i monarchici e i missini – ma non mancavano perplessità anche da parte di altri parlamentari – si opposero con varie argomentazioni: dal rischio di mancato controllo sanitario a questioni di ordine pubblico. Le prostitute che esercitavano nelle case di tolleranza erano schedate dalla Buoncostume e dovevano sottoporsi a regolari visite mediche per tentare di arginare il diffondersi delle malattie veneree.

La legge fu approvata solo dopo dieci anni di aspra lotta politica e dopo essere stata limata da vari emendamenti.

Lo storico Giovanni De Luna ha sottolineato come quella proposta di legge chiedesse al Parlamento di sancire per lo Stato il divieto di inserirsi nella gestione di un fenomeno come la prostituzione, la cui struttura era in palese contrasto con gli articoli della Costituzione repubblicana che tutelano le libertà individuali.

La legge Merlin entrò in vigore alla mezzanotte del 20 settembre 1958. Imponeva la chiusura delle case di tolleranza e considerava reato lo sfruttamento della prostituzione. Su questi temi anche l’opinione pubblica era divisa: da una parte le “case chiuse”, per via delle finestre sempre oscurate, erano viste come ricettacolo di povertà, sporcizia, sfruttamento, scarso controllo igienico sanitario; dall’altra c’era una forte corrente di pensiero, non solo maschilista, che considerava i bordelli come un male necessario. Ad esempio, il famoso giornalista Indro Montanelli che, tra l’altro, aveva ammesso durante la sua partecipazione alla guerra d’Africa di avere avuto una “sposa bambina”, scrisse un libello polemico, Addio Wanda, sostenendo che in Italia era stato dato un colpo di piccone alle case chiuse per far crollare l’intero edificio, basato su tre fondamentali pilastri: la Fede cattolica, la Patria e la Famiglia.

Molti pensavano che fossero un utile servizio pubblico, ammesso – persino caldeggiato – anche dalle mogli per placare gli eccessivi bollori dei mariti, tenere lontano le amanti, preservare l’unità familiare. L’incontro con le prostitute serviva, inoltre, a collaudare la maturità fisica dei figli. Un classico popolare era che alle feste di leva, dopo la visita militare, i coscritti festeggiassero con una capatina al casino.

 

Ogni epoca ha avuto le sue forme di prostituzione femminile e maschile

 

Uno degli affreschi che si riferiscono alla vita nei lupanari presenti nelle case di piacere di Pompei. Alcuni sono molto espliciti e servivano da insegna per attirare clienti

 

Ironicamente lo ricorda da alcuni anni anche la Pro loco di Villafranca, portando questo tableau vivant alla sfilata del Festival delle Sagre.

La notte del 20 settembre fu dunque quella dell’addio, per più d’uno una notte di tristezza. Si levarono voci nostalgiche, che delle case chiuse avevano fatto una sorta di mito, luoghi in cui si celebrava un sapere antico dell’eros. Ancora Montanelli: «All’Igiea, vicino a Piazza Marina, a Palermo, suonarono addirittura i violini per salutare con eleganza le signorine. Addio Wanda, addio Zaira. Addio vestaglie aperte, veli multicolori e trasparenti, calze nere, sopracciglia a virgola, scale a chiocciola, sale d’attesa odorose di essenze, addio maitresse alla cassa. Addio alle eccellenti professioniste in attività, amanti e confidenti delle pene personali maschili. Addio iniziazioni e collaudi della virilità di generazioni di diciottenni. Addio militari affamati di una donna generosa».

Quasi mai le narrazioni consideravano il punto di vista di chi nei casini aveva vissuto, ignorando o facendo finta di non conoscere le condizioni in cui erano tenute le prostitute, che non avevano alcuna possibilità di riscatto sociale. Dal casino non si usciva. La legge le schedava, le notificava alla pubblica sicurezza, la morale ne impediva i matrimoni. L’essere entrate nel casino per bisogno, o per ingenuità, o per costrizione, diventava un marchio d’infamia sociale.

Che la prostituzione abbia una storia antica, è noto. I trattati storici sull’argomento citano addirittura documenti sumerici risalenti al 2400 a.C. In Grecia i bordelli pubblici probabilmente risalgono a Solone che li aprì con l’obiettivo sociale di “democratizzare” il piacere eterosessuale con l’offerta di donne in vendita per evitare ai giovani greci di imboccare “cattive strade”. Le pornè, ossia le schiave in vendita, operavano dentro i bordelli a prezzi molto contenuti. Le case di prostituzione erano indicate spesso da un fallo rosso sulla porta e illuminato nelle ore notturne.

Allora come sempre, i bordelli erano riservati a maschi di bassa estrazione sociale perché i ricchi e i nobili si rivolgevano alle etere, donne più sofisticate ed esclusive. Accanto coesistevano bordelli pubblici destinati alla prostituzione maschile in cui lavoravano ragazzi schiavi. Basti ricordare il Fedone, uno dei dialoghi maggiori di Platone riguardante le ultime ore di vita di Socrate. Fedone era un giovane schiavo vinto dagli ateniesi e prostituito fino al momento in cui Socrate lo conobbe e lo riscattò.

Nella Roma antica il bordello veniva comunemente chiamato lupanarium, casa delle lupe (da lupa, per prostituta) o fornice, termine generico per indicare uno spazio a volta o una cantina. I bordelli regolari più popolari sono descritti come estremamente sporchi, con forti odori persistenti, spazi poco ventilati ripieni del fumo delle lampade, come notato in tono d’accusa da Seneca: «puzzi ancora della fuliggine del bordello».

Altri aspiravano invece a una clientela di più alto livello, con parrucchieri per donna che erano a disposizione per riparare i danni compiuti dai frequenti conflitti amorosi, mentre i ragazzi dell’acqua (acquarioli) attendevano all’ingresso con ciotole rinfrescanti.

Un documento del 1449 cita il palio meretricium

La senatrice socialista Lina Merlin, che ha legato il suo nome alla legge di chiusura delle case di tolleranza dopo dieci anni di battaglie parlamentari

 

Giovenale nelle sue satire racconta come oltre alle schiave, ex schiave o serve, nell’età imperiale anche donne del ceto aristocratico avevano il vezzo di andare a esercitare nei bordelli per soddisfare il proprio piacere. Secondo il poeta, Valeria Messalina, prima moglie di Claudio, esercitava sotto il nome di Licisca (cagnetta, lupetta). Completamente depilata, capezzoli dorati, occhi segnati da antimonio e nerofumo, si offriva a marinai e gladiatori fino a sazietà. Secondo Plinio il Vecchio sfidò anche la più celebre prostituta dell’epoca e la vinse per avere avuto 25 concubitus in 24 ore: «lassata, viris nondum satiata, recessit (stanca, ma non sazia di uomini, smise)». Le rovine di Pompei, poi, hanno svelato l’attività dei lupanari ai piedi del Vesuvio, affrescati da esplicite rappresentazioni.

Con il cristianesimo il bordello pubblico venne osteggiato e anche presso i barbari la prostituzione era mal vista. Teodorico, re degli Ostrogoti, decretò la pena di morte per coloro che accoglievano “donne infami”. Pene severe furono emanate anche da Carlo Magno e dai suoi successori.

Dalla metà del XIII secolo, col fiorire delle attività mercantili, i postriboli ripresero vigore. Molte prostitute si spostavano secondo il calendario di fiere, mercati, pellegrinaggi, concili, oppure accompagnavano gli eserciti, compresi quelli dei Crociati. Questa consuetudine è perdurata fino a epoche recenti: si pensi alle francesi putaines de régiment della Prima guerra mondiale che avevano il loro equivalente nell’esercito italiano con postriboli mobili allestiti nei pressi del fronte, rigidamente divisi tra quelli a disposizione della truppa e quelli per i “signori ufficiali”.

Nelle città della Francia del sud, ad esempio, la costruzione di un prostribulum publicum era affidata alle autorità pubbliche, principesche o municipali. Il postribolo era dato in affitto a una abbesse (badessa), spesso una ex prostituta, che poteva anche essere sposata, oppure a un tenutario. Essi avevano il compito di reclutare le ragazze da sottoporre ai funzionari di giustizia e di far loro rispettare le regole del mestiere. Nelle grandi città non si trovava soltanto il bordello pubblico, ma esistevano altri tipi di case di tolleranza che attestano diversi livelli di prostituzione. I bagni pubblici, le cosiddette étuves, servivano anche come postriboli, nonostante le numerose leggi che vietavano di ricevere in questi luoghi le prostitute. Tutti i bagni erano forniti di cameriere, di camere e di forniture da letto, oltreché delle consuete vasche e caldaie. Le autorità, data l’impossibilità di un’efficace repressione, tentavano di controllare il fenomeno con diverse procedure: le norme igieniche prevedevano, in periodo di pestilenze, la chiusura del prostribulum e delle étuves; limiti religiosi di astinenza erano previsti durante la Settimana Santa e il Natale; erano vietati spettacoli immorali e osceni nei pressi delle chiese; era imposto alle prostitute pubbliche di indossare un segno di riconoscimento. In questo quadro si può inserire la storia locale astigiana che presenta alcune curiosità.

E proprio dalla Francia proviene una ricca documentazione sulla città durante il periodo della dominazione Orleanese, che vide Asti concessa in dote a Valentina Visconti nel contratto di matrimonio con Luigi di Valois stipulato nel 1387. Le carte, o meglio i fondi Orleanesi, offrono notizie inedite sul meretricio in Asti.

C’è traccia di un palio meretricium, ma un documento del 23 aprile 1449 (archiviato con la sigla KK 318E, foglio E) lo descrive come avvenimento evidentemente acquisito nella tradizione astigiana. Che fosse consuetudine far correre le prostitute, in una sorta di gioco, oltre che i cavalli o gli asini, lo attestano le cronache anche di altre città italiane. A Ivrea, ad esempio, tale corsa assegnava alla vincitrice una mezzena di carne del valore di 20 soldi imperiali. Ad Asti, come in tutte le città medioevali, gli Statuti disciplinavano i rapporti dei cittadini con le meretrici: «Nessuna persona della città o dei borghi riceva o faccia ospitare una pubblica meretrice nota per un’attività che va esercitata soltanto in luoghi stabiliti dal podestà. Le prostitute non possono aggirarsi per le vie della città durante il giorno. Chi contravviene a questo divieto è sottoposto al pagamento di 60 soldi astesi». Ancora: «Le meretrici non osino circolare per la città o per i borghi entro le mura, dal sorgere del sole al tramonto, tranne il giorno di sabato. Esse non debbono portare sulle vesti o al collo oggetti d’oro o d’argento, o perle, o panni di seta, o pellicce».

Per tutto il XIII e XIV secolo i luoghi della prostituzione variavano dalle osterie ai bagni, ai vicoli appartati. Per meglio controllare e governare il mondo dell’illecito, anche Asti a metà del ‘400 decise di concentrare i postriboli cittadini in un unico luogo delimitato e controllato.

 

Asti medievale aveva un quartiere a luci rosse. Nel 1469 la protesta dei frati Agostiniani

 

Furono pertanto scelte alcune case contigue che prospettavano sull’attuale piazza Astesano, creando una sorta di antico quartiere a luci rosse, organizzato da un gestore-appaltatore che sfruttava il lavoro delle donne e rendeva conto all’autorità cittadina. Le case erano però accanto alla chiesa e al convento dei frati Agostiniani Eremitani. Nel maggio1469 i religiosi si opposero con forza a tale decisione, denunciandola come scandalosa e blasfema e chiesero di scegliere altri luoghi per non turbare la coscienza dei frati e dei fedeli. La protesta fu inutile e quelle case divennero sede stabile delle meretrici fino almeno alla metà del ‘500. Queste vicende sono state ricordate all’ultima sfilata del Palio del 2 settembre dal Borgo San Paolo. Intanto, sul finire del secolo, tutta l’Europa fu attraversata da due grandi epidemie: la peste e la sifilide. Il problema della difesa igienica si presentò allora in tutta la sua drammaticità e gli uomini cominciarono a temere il contagio. Mal francese, morbo gallico, morbo celtico, furono alcuni tra i tanti modi con cui la fantasia popolare denominò la sifilide. La vulgata vuole che tale malattia venerea sia stata introdotta nel continente europeo dai marinai di Cristoforo Colombo al ritorno dalle Americhe. In Italia la sifilide arrivò e si diffuse qualche anno dopo, nel 1494, quando le armate del re Carlo VIII invasero Napoli per poi risalire la penisola. Da qui il nome di mal napolitain datole dai francesi e di mal franzoso datole dai napoletani. Le meretrici divennero il capro espiatorio della pestilenza e non solo ad Asti furono costrette a girare per la città con un cartello pendente al collo o con un copricapo munito di due corna vistose. Vilipese, percosse, tosate. Le donne colpite da malattie veneree per secoli furono segregate in città al Buon Pastore, obbligate a lavorare secondo le loro capacità e ad ascoltare “istruzioni di sana e cristiana morale”. Prostituzione e malattie veneree spinsero alla regolamentazione del meretricio da parte delle autorità e Cavour, con un decreto del 15 febbraio 1860, introdusse la prima normativa sanitaria, con l’obbligo di due visite settimanali. Riguardava anche le case astigiane, tra cui la Casetta Rossa, nella zona che oggi è in via De Amicis all’angolo con via Testa. Aperta verso il 1860, era gestita da una “madama”, una ex prostituta ritiratasi dall’attività, che stabiliva i turni delle ragazze, provvedeva al cibo e all’abbigliamento e riceveva la metà degli incassi. Risultò attiva fino al 1903.

Una casa fu aperta in vicolo Pittarelli, non lontana dalla chiesa di San Silvestro, e operò fino al 1925. Altre erano in via Aliberti, via Garetti, via San Martino, piazza Cagni. Nel 1908 aprì la nuova casa di tolleranza di via Arò: la più conosciuta in città, svolse la sua attività fino alla chiusura per la legge Merlin nel 1958. Quella casa chiusa lavorò molto anche durante l’ultima guerra e perfino il 25 aprile 1945, giorno della liberazione, come ricorda nel suo libro I banditi di Cisterna il telegrafista inglese William Pickering, che si era unito ai partigiani. (Vedi Astigiani n. 12 del giugno 2015).

 

La casa chiusa più conosciuta in via Arò. Villa Favorita era la più esclusiva

L’ingresso della casa di tolleranza di via Arò

 

Venanzio Malfatto nei suoi scritti così la descrive: «C’era una lunga sala d’attesa. Nel fondo della sala, mescolate, confuse, strette le une alle altre, le donne erano raccolte intorno alla cassa, dove Elda, la cassiera, con monotono e continuo slogan “su belli, andiamo”, invitava a salire in camera. Eravamo stretti verso la grande cavità della sala da una singolare mescolanza di sensualità e di repulsione, dall’atmosfera di serraglio, dalla mercantile facilità del contatto, dal brivido della trasgressione, dalla tacita rivolta nei confronti delle consuetudini lecite che in quella sala pareva consumarsi e che non s’acquiesceva per il fatto che i luoghi potessero sopravvivere grazie alle leggi dello Stato. Sette ragazze in via Arò e in via Pietro Micca, a Villa Favorita, tre salottini accoglienti con tre ragazze “di lusso” accoglievano amabilmente clienti di riguardo, giovani danarosi, personalità autorevoli e anche gerarchi di partito». Subito dopo la guerra d’Abissinia divenne di moda avere tra le prostitute di Villa Favorita, che molti chiamavano Villerina, anche una “faccetta nera” d’origine etiope. Come ricordano oggi due briosi novantenni, la casa di via Arò numero 20 (demolita per costruire l’oratorio parrocchiale di Santa Maria Nuova) era frequentata per lo più da soldati, da persone di un ceto medio-basso e dai giovani che al compimento del 18° anno, dopo la visita di leva, venivano portati a provare le prime esperienze sessuali. Si guardavano le prostitute nella sala d’attesa, si scambiava qualche parola e poi si sceglieva con chi appartarsi. Un altro ottantenne di buona memoria aggiunge: «Se qualcuno faceva cagnara – allora non si diceva “casino” – o semplicemente faceva flanella attardandosi nell’atrio d’ingresso, la maîtresse lo faceva uscire imprecando, con l’aiuto di Mariéta, la portinaia, che brandiva una scopa e a volte irrorava i clienti con la macchina del flit». Al piano superiore, un lungo balcone verso il cortile dava accesso alle stanze, piuttosto spoglie, solo con un letto, un cassettone (in piemontese bürò, com’era anche chiamato il casino), una sedia per i vestiti del cliente, un lavandino e un bidet portatile, mentre il wc era in comune per tutti.

 

La morbosa curiosità al cambio di ogni “quindicina”

L’ironica interpretazione delle “signorine” di una casa di tolleranza portata alla sfilata del Festival delle Sagre dalle ragazze della Pro loco di Villafranca per evocare i riti alla visita di leva dei coscritti

 

C’era un supplemento da pagare per asciugamano e sapone. L’amore mercenario era sbrigativo. Non più di 15 minuti. Erano esclusi i preliminari e se si voleva un bis, con un campanello si avvisava la tenutaria, che all’uscita riscuoteva la “marchetta doppia”. Il casino apriva nel primo pomeriggio e chiudeva a ora tarda. Le donne vivevano tutte lì, mangiavano e dormivano ed erano libere durante la mattinata. C’erano collegamenti con le altre case e ogni 15 giorni venivano sostituite le “signorine”. Le nuove arrivate, prima di prendere servizio, si sottoponevano a visita medica. Il cambiamento della quindicina destava molto interesse tra gli habitués, curiosi di vedere le novità. Le tenutarie a questo scopo portavano le nuove arrivate a fare un giro in città fermandosi in qualche caffè a prendere un vermouth o un rosolio.

Il 20 settembre 1958 chiusero dunque anche i casini astigiani, ma le divergenze di opinione tra i moralisti benpensanti e i frequentatori abituali iniziarono prima ancora della chiusura. Su Il Cittadino in quelle settimane si scriveva: «Parlare di questa legge Merlin è un bene anche per le giovani lettrici, che ricorderanno così come nella vita vi siano donne il cui destino per fortuna non ha in comune nulla con il loro: donne trascinate dalla miseria, dall’ambiente in cui sono nate, dall’educazione che hanno ricevuto, dall’amore verso qualche giovane che le ha abbandonate, e dal vizio al triste mestiere che le ha relegate in ambienti sordidi la cui uscita rappresenta ora un pericolo per la morale e per la salute pubblica».

Era il tema del diffondersi della prostituzione libera con “adescamento per la pubblica via” che in questi decenni è stata rinforzata dall’arrivo di prostitute straniere dai paesi dell’Est, dall’Africa e dall’Asia. Gli annunci a luci rosse e le promesse di massaggi speciali sui siti e sui giornali testimoniano come il fenomeno sia tutt’altro che in regressione, tanto che la proposta di riaprire le case chiuse periodicamente rimbalza nel dibattito politico italiano e trova sui social convinti assertori, con buona pace della memoria della senatrice Merlin.

 

L'AUTORE DELL'ARTICOLO

Astigiani è un'associazione culturale aperta, senza scopo di lucro, che ha bisogno del sostegno di altri "Innamorati dell'Astigiano" per diffondere e divulgare la storia e le storie del territorio.
Tra i suoi obiettivi: la pubblicazione della rivista trimestrale Astigiani, "finalizzata alla raccolta e diffusione di informazioni e ricerche di storia e cultura astigiana dal passato remoto a quello prossimo, con uno sguardo al presente e la visione verso il futuro (dallo statuto), la raccolta di materiale per la creazione di un archivio fotografico, video e documentale collegato al progetto "Granai della memoria", la realizzazione di presentazioni pubbliche e altri eventi legati al recupero della memoria del territorio.

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