Sulla gradinata gremita nel cortile del Collegio
La foto che pubblichiamo in questa pagina racconta un’altra epoca: 1979, prima edizione di Asti Teatro. I seicento posti della gradinata allestita nel cortile del palazzo del Collegio sono gremiti. In scena c’è Flowers del regista Lindsay Kemp, uno dei grandi richiami internazionali del cartellone. Le evoluzioni degli attori acrobati stupiscono e affascinano il pubblico non solo astigiano. Il festival che voleva ricreare le atmosfere di Avignone e cercare di contendere la fama nazionale a Spoleto, mosse così i suoi primi passi, conquistandosi un pubblico, soprattutto fatto di giovani, che aveva la sensazione di essere al centro di un grande evento. Certi spettacoli di quelle prime edizioni sono rimasti nella memoria di tanti. Scorrere i cartelloni, anno per anno, fa scoprire e riscoprire che hanno calcato i palcoscenici di Asti Teatro i grandi nomi della prosa e della ricerca, musicisti, danzatori, giovani semisconosciuti destinati a diventare famosi. Gli amministratori che decisero di far nascere il festival, trovando alleanze e idee allo Stabile di Torino, avevano il progetto di rivitalizzare il centro storico e non sapevano che da lì a pochi mesi il Teatro Alfieri si sarebbe dovuto chiudere per restauri e rimase chiuso per oltre vent’anni. Asti Teatro è continuato, anche quando sono cambiate le amministrazioni e il progetto, nato come parto della sinistra (Laurana Lajolo, Luciano Nattino, Salvatore Leto), è stato mantenuto vivo anche dal centrodestra, superando le voci e le perplessità di chi avrebbe voluto che “quei soldi pubblici si spendessero per asfaltare le strade”. L’assessore alla Cultura Gianfranco Imerito durante la presentazione di quest’anno ha ricordato l’ultimatum ricevuto nel 2010 quando ricopriva la stessa carica dall’allora sindaco Galvagno che a causa delle ristrettezze del bilancio gli impose una scelta: o Asti Teatro o Asti Musica. “Abbiamo fatto i salti mortali e siamo riusciti a salvarli entrambi.
Oggi con la sponsorizzazione triennale della Compagnia di San Paolo possiamo dire che il futuro di Asti Teatro non è più in bilico”. Il festival ha superato anche la stagione della drammaturgia contemporanea che piaceva più ai critici che al pubblico e ha saputo ritrovare negli anni un nuovo legame con la città, aprendosi, scoprendo spazi diversi, offrendo ai giovani attori l’opportunità di farsi conoscere. Con l’edizione numero 40 arriva una mostra a raccontarne gli anni in attesa di poter vedere online il prezioso patrimonio di foto, locandine, recensioni. Il cartellone si annuncia ricco di spunti, con grandi ritorni e stimolanti novità. Il festival ha perduto l’allure di grande evento internazionale, ma ha saputo adattarsi e non morire. La vita, si sa, ricomincia a quarant’anni.
Il nostro modello era Avignone
Di Laurana Lajolo, Assessore alla Cultura del Comune di Asti 1975-1982 e 1995-1998
Asti Teatro, nato come rassegna internazionale di spettacoli, è stato fin dall’inizio, un progetto ambizioso. L’amministrazione comunale di centrosinistra guidata da Giampiero Vigna, al suo insediamento nel 1975 aveva istituito per la prima volta l’assessorato alla Cultura e io ne assunsi la responsabilità con l’idea di valorizzare il patrimonio museale, di riportare alla gestione pubblica il Teatro Alfieri ridotto in cattive condizioni, per metterlo a disposizione di un pubblico “nuovo” al cinema e al teatro, di coinvolgere le periferie con attività educative e ricreative. Il progetto qualificante di tutta l’attività della giunta è stato il recupero del centro storico voluto dall’assessore all’urbanistica Giorgio Platone, un’operazione complessa, fortemente avversata da molti imprenditori edili, ma importantissima per riportare alla sua bellezza storica la città e i cui risultati sono oggi occasione di turismo e di economia. Intorno a quel progetto ha ruotato anche la politica teatrale, quindi, quando nel 1979 si è paventata la chiusura del Teatro Alfieri per inagibilità, abbiamo scelto il teatro in piazza, prendendo come modello il Festival di Avignone, con il supporto della Regione e del Teatro Stabile di Torino. Sono stati scoperti cortili, giardini interni, piazze, tutti spazi che ora sono diventati abituali luoghi di cultura. Lo spettacolo, a volte, usciva per le vie coinvolgendo la gente, che rimaneva attratta anche in modo involontario, perché Asti Teatro non era inteso soltanto come un evento di alto livello, ma anche come occasione di aggregazione della comunità. Il primo logo di Asti Teatro è stato, non a caso, il castello medievale raffigurato nel Codex Astensis, a ricordare la storia della città: un simbolo storico per promuovere la nuova politica culturale. Il palcoscenico all’aperto della rassegna internazionale è stato collocato in spazi anche degradati ma fascinosi, per mostrare ai cittadini e a chi veniva da fuori città il valore del più antico comparto urbanistico di Asti. Allora il centro storico di Asti era in gran parte abitato da immigrati meridionali e i proprietari si erano ritirati nei nuovi palazzi residenziali, evitando di fare manutenzione e miglioramenti. Sono convinta che proprio le famiglie che abitavano case vecchie e a volte fatiscenti hanno “conservato” un bene comune fino a che le norme dell’Amministrazione comunale hanno evitato ulteriori abbattimenti e ristrutturazioni selvagge. Il centro storico “resuscitato” è stato con il tempo nuovamente apprezzato dai proprietari, che sono tornati nelle loro case riqualificate, mentre gli immigrati si trasferivano nelle case popolari o in altre abitazioni nel frattempo acquistate. Se qualcuno mi definisce la madre di Asti Teatro, il padre è stato all’inizio Giorgio Guazzotti, direttore del Teatro Stabile di Torino, che, con la sua esperienza e cultura teatrale e con la sua capacità inventiva, ha insegnato molte cose a me e a Salvatore Leto. Non abbiamo proposto il teatro tradizionale, ma quello di ricerca con temi a volte anche forti e sconvolgenti. Il “nuovo” è entrato nel “cuore antico” della città e lo ha “teatralizzato” con un’ampia partecipazione.
Con l’Amministrazione collaboravano attivamente i gruppi teatrali e culturali locali come il Magopovero e il pubblico del primo Astiteatro era giovane: studenti, operai, docenti, registi e attori, che venivano anche da fuori. Sono arrivati critici, docenti universitari, organizzatori teatrali, che sono diventati consulenti e collaboratori della manifestazione. Asti è diventata così una città teatro, mentre, purtroppo, si chiudeva il Teatro Alfieri nel dicembre 1979 e rimarrà chiuso per oltre vent’anni.
Non sono mancate le polemiche da parte di forze politiche di minoranza, che, però, quando hanno assunto responsabilità amministrative dirette, hanno confermato la manifestazione.
E questo ha avuto un preciso significato di riconoscimento del valore culturale del festival.
Nelle prime edizioni, si sono valorizzate professionalità presenti in città come quella di Antonio Catalano per proporre altre esperienze di mimo. Lo spettacolo “Flowers” di Lindsay Kemp Company ha creato stupore e meraviglia come Bakki di The Japanese Company o il fantasmagorico Le Grand Magic Circus. Sono state ospitate le migliori compagnie italiane dal Gruppo della Rocca al Teatro Filodrammatici di Milano e il lungo elenco è riportato nel volume “Asti teatro 1979. 1980.1981”. Un’altra documentazione importante dei primi quattro festival è stata quella curata da Guido Davico Bonino con le bellissime foto di Maurizio Buscarino. In quel volume Giorgio Guazzotti tracciava un primo bilancio della manifestazione: «Davvero l’idea di Astiteatro è stata una scommessa.
Quando, nella primavera del 1979, due assessori di Asti, Lajolo e Canestri, nell’ufficio del Presidente del teatro Stabile di Torino Egi Volterrani, presentarono l’intenzione e posero il problema, dopo aver ampiamente dibattuto con loro le difficoltà, conclusi con una sola parola: “proviamoci!”. Certo alcuni presupposti c’erano: teorici e pratici. Asti, come alcune altre città piemontesi “storiche”, ha un buon nome antico, di immediate suggestioni e di facile assimilabilità;
dispone di monumenti e di scorci di indubbia bellezza; ed è collocata su un asse geografico che costituisce un perfetto crocevia. Il “miraggio”, subito dichiarato, fu la mitica Avignone. Fu una proiezione indubbiamente fantastica, l’indicazione di un bersaglio lontano, che aveva un’irraggiungibile storia alle spalle e una radiosa aurora in un binomio irripetibile Vilar/Gerard Philippe e il glorioso Theatre Nationale Populaire. Fu così che imbastimmo e realizzammo Astiteatro 1.
[…]. Il simbolo turrito che scovammo in un prezioso codice, forse inconsciamente, voleva dire che sapevamo – ed eravamo orgogliosi – di partire da una posizione arroccata, provinciale: come una lontananza da colmare. Del resto la serietà e il prestigio di un’organizzazione non ha lo stesso fascino immediato, il valore di proclamazione di un regista o di un interprete famoso. Il decollo è avvenuto sicuramente con Astiteatro 3 e alcune importanti coproduzioni internazionali: spettacoli
di grande impegno che hanno aperto per la prima volta il loro ideale sipario ad Asti».
Come Asti diventò città teatrale
Di Salvatore Leto, Direttore del Teatro Alfieri e di Asti Teatro dal 1979 al 1995 e dal 2005 al 2009
«La storia di Asti Teatro è certamente diventata molto più complessa e importante della storia dei suoi spettacoli; anzi la storia dei suoi spettacoli finisce per essere la conseguenza di un’altra storia, mutevole e a volte drammatica, che si sviluppa lontano dagli sguardi. È la storia di rivoluzioni silenziose, dominata dal denaro che scarseggia e guidata dal desiderio di trasformare il teatro in una attività necessaria, certamente necessaria per la salute mentale degli uomini di buona volontà e per dotare la città di un più vasto orizzonte culturale e immaginativo”».
La citazione che il critico de La Stampa Osvaldo Guerrieri aveva scritto nel saggio introduttivo al volume sui primi vent’anni di Asti Teatro racchiude con formidabile sintesi quella che è stata, anche per i successivi vent’anni, la storia del Festival astigiano. Un richiamo alla memoria storica utile a una generazione che sembra vivere un presente permanente senza un rapporto organico col passato, anche per sottolineare con forza che le scelte culturali sono le conseguenti realizzazioni di precise idee progettuali mai nate per caso.
Tanto per smontare un luogo comune va detto che Asti Teatro è nato non per sopperire alla chiusura del Teatro Alfieri, ma come conseguenza complementare alla gestione pubblica, considerata “come una necessità collettiva, come un bisogno dei cittadini, come un pubblico servizio”. Asti Teatro, che programmaticamente si chiamava rassegna, non festival, voleva essere luogo di confronto delle creatività vissuto dai cittadini nella riscoperta di un tessuto urbano ricco di storia e capace di grandi emozioni e suggestioni, occasione dello stare assieme, di fare comunità.
È questa la vera forza dello spettacolo teatrale, questi i motivi che hanno reso memorabili decine di rappresentazioni di Asti Teatro rimasti ancora oggi nell’immaginario collettivo degli spettatori e diventati punto di riferimento per giovani attori e registi. La “rassegna confronto” astigiana sembrava avesse raggiunto il suo obiettivo: non disdegnando, attraverso le sue articolate sezioni, di mescolare il classico con il contemporaneo, la prosa con il balletto, il mimo col teatro popolare, l’Oriente con l’Occidente, aveva portato sul palco e nelle piazze della città forse la parte più viva e creativa di una cultura internazionale che, attraverso la potenza che solo lo spettacolo dal vivo riesce a trasmettere, ha sconvolto-emozionato-fatto piangere, gioire, discuterescoprire
nuovi mondi, migliaia di spettatori. Dopo sei anni ci era sembrato opportuno orientare la rassegna verso una più netta caratterizzazione tematica. I tempi sembravano maturi, i materiali in giro erano tanti, nuovi autori, registi, attori sembravano animati da uno spirito d’intenti che superava l’entità personale e i protagonismi dei singoli, per un fine comune. Perché non provare? La novità che Asti Teatro sarebbe diventata una rassegna monografica di drammaturgia contemporanea (senza però rinunciare alle altre sezioni), suscitava nel teatro italiano interesse e curiosità; in città, invece, soffiavano venti di guerra sulla scelta tematica come sull’intera manifestazione provenienti anche da Via XX Settembre, sede del Pci, come dalla Compagnia del Magopovero, partner essenziale fin dalla nascita della manifestazione, che vedeva nel nuovo corso un suo possibile ridimensionamento che non c’è mai stato.
In città ci si stava quasi rassegnando alla chiusura, mentre a livello nazionale c’erano molte aspettative, Asti Teatro si era già guadagnato, in soli sei anni, un posto di tutto rispetto tra i molti
festival. E poi cosa sarebbe stata la città senza il suo Festival e, per giunta, con il Teatro Alfieri chiuso? Abbiamo allora formalizzato, anche per dare alla scelta quella forza politica che stava venendo meno, un gruppo di lavoro composto da artisti astigiani, critici, organizzatori e ben quattro politici: gli Assessori alla Cultura del Comune e della Regione e i due ex Assessori alla Cultura del Comune, e il coinvolgimento della Commissione di gestione del Teatro Alfieri. È stato così superato lo scoglio politico e il particolare successo di Asti Teatro 7 ha fatto il resto.
Il gruppo di lavoro di Asti Teatro, il cui compito principale consisteva nella lettura di copioni, nel vagliare le proposte e nel proporre e stimolare nuove produzioni, ha rappresentato un qualcosa di nuovo e di diverso nell’ambito dei festival italiani, ma la novità pregnante e assoluta consisteva nel fatto che persone esterne all’Amministrazione diventavano parte integrante della politica culturale del Comune attraverso la loro professionalità ed esperienza: contemporaneamente promotori e ambasciatori delle proposte culturali dell’Amministrazione.
I successi di Asti Teatro, sono dovuti anche a questa sorte di alchimia politico-culturale che trascendeva gli orientamenti politici e le convinzioni personali dei singoli, dove le grandi professionalità culturali hanno inevitabilmente portato idee e fantasie utili alla sopravvivenza individuale e collettiva dei cittadini, così come sa fare il teatro, da sempre veicolo di crescita morale e civile.
Asti Teatro è stato capace di offrire negli anni, al di là del singolo spettacolo, momenti che duravano, e per qualcuno durano ancora, ben oltre la calata del sipario. La rassegna astigiana nata come ipotesi di confronto fra linee espressive internazionali, via via che il campo economico del nostro teatro si depauperava, ha puntato sulle nuove emergenti generazioni di scrittori, di interpreti, di registi, capaci di allestimenti originali, coraggiosi e calmierati nei costi. È questa anche la funzione di un festival, momento creativo unico e irripetibile soprattutto quando è legato, come è successo da noi, alla “teatralizzazione della città”, alla capacità di trasformare una strada- una piazza- un cortile, in un luogo vivo come una chiesa laica o una scuola.
Alla riapertura del Teatro Alfieri nel 2002 si è posta la domanda se continuare o meno il Festival, se avesse ancora un senso, una funzione; Asti Teatro ha continuato con le stesse motivazioni delle origini: nell’era della rivendicazione dei bisogni, il teatro a sua volta rivendica la propria necessità, convinto di avere ancora un ruolo nel soddisfare i bisogni reali o avvertiti come tali, contribuendo allo sviluppo della creatività e dell’arte, puntando sul nuovo e sui giovani, captando tendenze ed esigenze sopite, in una parola puntando al rinnovamento culturale e sociale. Asti Teatro è stato capace di far così diventare Asti una prestigiosa e ambita città teatrale.
Drammaturgia contemporanea, la scelta dell’84
Di Graziella Boat, Assessore alla Cultura del Comune di Asti 1983-1985
Arrivai da “neofita” all’assessorato alla Cultura nel 1983 dopo la precedente esperienza ai Servizi Sociali negli ultimi due anni della giunta Vigna 1975/1980 e dopo gli anni di gestione dell’assessorato da parte di Laurana Lajolo.
L’affidamento, a sorpresa, dell’assessorato alla Cultura a me, avviene a novembre del 1983, dopo la caduta della giunta del sindaco Pasta e il ritorno della giunta con Gian Piero Vigna sindaco e dopo l’indisponibilità di Laurana Lajolo a rientrare nel suo precedente ruolo di assessore. Non fu un “ingresso” facile per me, ma ho trovato nel personale dell’assessorato sostegno e professionalità.
Era in corso la preparazione della rassegna del 1984 (Asti Teatro 6), che era già stata abbozzata dal direttore del teatro, Salvatore Leto con il precedente assessore alla cultura Salva Garipoli. È in coincidenza della preparazione di quella edizione che si riflette e si ripensa il festival per dargli una originalità che ne consentisse la continuazione nel tempo.
All’interno del programma di Asti Teatro 6 e grazie anche al contributo di Gianni Basso, fu possibile inserire un eccezionale concerto jazz con il grande trombettista Dizzy Gillespie con il quartetto di Gianni Basso.
Tra le proposte di prosa, musica e balletto di Asti Teatro 6 ricordo il coinvolgimento del Collettivo del Mago Povero con il “Lancillotto”, su testo di Luciano Nattino e regia di Antonio Catalano e della compagnia “Angelo Brofferio” con il Barbiere di Variglie e sempre su testo di Luciano Nattino.
Quell’anno la media degli spettatori per recita fu di 496 (dato tratto dalla pubblicazione “Drammaturgia contemporanea” pubblicata l’anno successivo).
Con la collaborazione dell’allora direttore, Salvatore Leto, che aveva già in corso contatti con esperti e critici teatrali, proseguì il ripensamento su quale impronta dare al programma di Asti Teatro 7. E così, e in accordo con la Commissione di gestione del Teatro Alfieri, a novembre 1984 fu costituito il gruppo di lavoro per individuare un tema capace di dare una nuova linea alla rassegna, puntando sulla drammaturgia contemporanea per dare spazio a giovani registi. Il gruppo di lavoro era composto dall’allora assessore alla cultura della Regione Piemonte, Giovanni Ferrero, dagli ex assessori comunali Laurana Lajolo e Salvatore Garipoli, dal direttore del teatro Alfieri, Leto, da Eugenio Guglielminetti, Gianni Basso, i critici teatrali Guido Davico Bonino e Maria Grazia Gregori, oltre che da Emilio Pozzi della Rai di Torino, Giorgio Guazzotti del Teatro Stabile di Torino e dalla sottoscritta.
Il gruppo discusse non solo di spettacoli di prosa, ma propose anche sezioni di balletto e musica, soprattutto jazz. La scelta del gruppo di lavoro fu per testi la maggioranza dei quali non era mai stata rappresentata in Italia e costituivano, quindi, prime nazionali assolute, oltre che co-produzioni di Asti Teatro 7.
La sede principale fu il cortile del Palazzo del Collegio ma ci furono spettacoli anche al Politeama e in piazza San Martino e i burattini alla rotonda dei giardini.
Altri spettacoli furono proposti in vari luoghi della città coinvolgendo le compagnie astigiane, quali il Mago Povero, il gruppo Teatro Asti di Beppe Eliantonio, Teatro Piemonte Roatto di Renzo Arato, la Compagnia Angelo Brofferio e l’At jazz Band.
L’importo complessivo della spesa era stato calcolato in 520.000.000 di lire (268.000 euro, in moneta corrente, fatte le “debite proporzioni”). La Regione Piemonte contribuì con circa 260 milioni. Lo sponsor Riccadonna di Canelli aveva contribuito per i manifesti, le locandine e i biglietti e per la pubblicazione del catalogo della rassegna. C’era anche un contributo dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali.
Ero convinta della validità del programma di prosa, ma sapevo di assumermi un rischio di carattere politico e temevo il dibattito che si sarebbe “acceso” in Consiglio comunale, legato soprattutto ai costi in un momento in cui le risorse verso gli enti locali stavano diminuendo e quel tipo di proposta culturale non era ritenuta prioritaria rispetto a altre scelte. Già allora c’era chi sosteneva che con “con la cultura non si mangia”.
Ritornando alle proposte, quella che mi preoccupava, data la delicatezza del tema trattato, era Bent, tradotto e diretto dall’allora giovane regista, Marco Mattolini. Raccontava la storia d’amore tra due omosessuali in un lager nazista, con momenti di grande emozione. Pensavo all’imbarazzo che, forse, si sarebbe creato rispetto alle scene più intense: invece il pubblico seguì tutto lo spettacolo nel più completo silenzio, “esplodendo” alla fine con un lungo, emozionante applauso.
La scommessa sulla drammaturgia contemporanea era stata vinta e quella scelta si sarebbe dovuta continuare coinvolgendo la città nel suo insieme, dagli studenti delle scuole superiori per la lettura dei testi, a quelli dell’allora scuola d’Arte per le scenografie. Ma per programmare bene il festival era necessario più tempo, almeno un anno per un altro, senza arrivare agli ultimi mesi.
E questo indipendentemente dai cambi delle giunte.
Maschera, attore, direttore
Di GianLuigi Porro, Direttore del Teatro Alfieri e direttore organizzativo delle ultim nove edizioni di Asti Teatro
Asti Teatro ha quarant’anni.
Per me che l’ho accompagnato da maschera, operatore, spettatore, attore, “fiancheggiatore”, direttore, è un affetto, una “persona cara” con cui ho diviso una parte della vita.
Maschera: i primi due anni, ’79 – ’80 erano per me gli ultimi due di università ed ero una delle sette/otto maschere, con promozione sul campo ad “attaccatore” di manifesti e locandine ad Asti e nei paesi. Erano gli anni in cui recitavo nel Magopovero e Asti Teatro voleva dire vivere in mezzo allo stupore, incontrare attori, chiacchierare sino a tarda notte con loro, ma anche con i macchinisti, gli attrezzisti, i direttori di scena, vivere il e nel teatro.
Attore: alcune presenze con la compagnia Brofferio (il barbiere di Variglie, Mounsu’ Travet), con il Magopovero, un happening di sopravvivenza con Alberto Salsa di due giorni in città (come fosse una giungla), l’inaugurazione di Asti Teatro 15 con il musical “Marcaleun” dei Fiati Pesanti e sempre con i Fiati Pesanti il “Pinocchio” di Alberto Mandarini a Asti Teatro 30 e come dimenticare il “trovarobe” in Zarathustra, Asti Teatro 3.
Operatore e “fiancheggiatore”: l’organizzazione del dopo teatro in Piazza Castigliano, in Piazza San Secondo, al Michelerio e in Piazza Roma, la festa della comparsa, primi abbozzi di rassegne musicali che poi ventitré anni fa sarebbe diventata una manifestazione autonoma, Asti Musica.
Sono stato direttore organizzativo nell’edizione indimenticabile di Vittorio Sgarbi e in quella di Gian Mesturino e poi delle ultime nove edizioni e in alcune anche direttore artistico. E poi ovviamente spettatore in tutte le edizioni.
Per me Asti Teatro è stato tutto questo.
Per la città di Asti è un appuntamento importante, una rassegna di valore nazionale, uno dei festival più longevi del nostro Paese, un investimento su cui si sono impegnate molte risorse che occorre far fruttare, uno dei presupposti di Asti Città Festival… un’occasione.
Un’occasione per intercettare proposte eterogenee e adatte a tutti i “palati”, per incontrare il momento forte in cui un “uomo” racconta a un altro “uomo” una storia, usando i mezzi, gli strumenti, le tecniche più diverse, ma in modo vivo, diretto.
Un’occasione per vedere la nostra città, i suoi cortili, le sue piazze, le sue vie, in modo nuovo. Un’occasione per lasciare spenta dieci giorni la televisione, scendere in strada, passeggiare, prendersi un gelato e … “giocare”, come direbbero i francesi e gli inglesi, con il teatro, provando anche a vedere più di uno spettacolo in una sera.
Per il teatro italiano Asti Teatro è stato, e sta tornando a essere, un “luogo” importante di sperimentazione e confronto.
Salvai Gassman dall’assalto delle fans
Di Ottavio Coffano, Scenografo e componente del gruppo di lavoro di Asti Teatro
Ricordo che Asti Teatro nacque su proposta di Luciano Nattino, accolta dall’assessore alla cultura Laurana Lajolo la quale, da subito, pose le basi per la sua crescita.
Il salto di qualità avvenne quando a ispirare e dirigere il
Festival, insieme a noi astigiani, furono chiamati i maggiori critici e teorici del teatro italiano.
Non erano operatori (attori, registi ecc.), che avrebbero sicuramente proposto se stessi e neppure personalità legate a interessi locali, ma esperti in grado di fare del nostro festival il più importante d’Italia, per la prosa.
Nacque la “Drammaturgia Contemporanea” che intendeva recuperare il “testo” dopo la prima rivoluzione del teatro operata dal Living Theater, da Grotowski, Kantor ecc. che avevano privilegiato la messa in scena e l’espressione corporea.
Ho ritrovato una rivista (Teatro) del 1987 dedicata interamente ad Asti Teatro 9 che mi permette di ricordare alcuni dati.
Le prime di spettacoli nazionali in quell’edizione furono 8, nel Teatro del Collegio (600 posti).
Cito i registi, a volte anche attori: Glauco Mauri, Massimo De Rossi, Massimo Navone, Ennio Contorti, Ciccio Ingrassia, Marco Sciaccaluga, Vittorio Gassman e Nanni Garelli.
Ci furono due balletti: l’Opera di Parigi e il Lyon Opera Ballet e, per la musica, un concerto del Phil Woods Quintet con Chet Baker.
Nella rassegna “Off” organizzata dal Magopovero, 15 spettacoli di alto livello, molte prime, tra cui ricordo il “Valzer del Caso” dove Lorenza Zambon incantò il pubblico e i critici. Infine, al Bosco dei Partigiani, spettacoli di gruppi astigiani, anche dialettali.
Uno spaccato “verticale” del teatro difficilmente imitabile.
L’intento del nostro gruppo di lavoro era quello di individuare, in Italia e nel mondo, autori, testi e gruppi (celebri o emergenti), capaci di incarnare il senso di un percorso e portarli ad Asti rendendola così capitale della ricerca teatrale.
Le scelte furono operate sempre da esperti “non astigiani” che avevano una visione completa del panorama teatrale.
Quando avvenne il contrario, il festival, rapidamente declinò.
Ad Asti passarono i maggiori gruppi teatrali del mondo, ricordo Flowers di Lindsay Kemp, i giapponesi del Teatro Bakky, il Théâtre du Soleil e tanti, tanti altri.
Ricordo un’attrice (non dirò il nome) la quale teneva sempre con sé un barboncino che chiudeva in camerino mentre recitava. Una sera la porta fu aperta casualmente e il cane corse abbaiando in braccio a lei. Fu necessario interrompere tra le risate del pubblico!
Ricordo Vittorio Gassman che mi telefonò disperato: doveva andare alle prove, ma un gruppo di signore assediava l’Hotel Palio per portarlo a una cena. Accostai con l’auto aperta lui saltò su e arrivammo a teatro.
Ho un vero rimpianto, di non essere mai riuscito a portare ad Asti il Living Theatre.
Personalmente credo che il teatro debba, per il suo bene, viaggiare, incontrare altri spazi, altri spettatori: il pubblico amico è un anestetico pericoloso.
Oggi, per tante e sensate ragioni, prevale una tendenza stanziale: stabilità, sicurezza per gli operatori. È normale, ma io rimpiango gli attori del Living degli Anni ’70, esempio di teatro nomade. Il loro era un esilio perenne, da una città all’altra, facendo spettacolo ovunque e comunque.
Li conobbi nel 1965 al teatro Gobetti, negli Anni ’70 si fermarono un po’ a Torino, venivano a incontrare i miei studenti.
Le loro tracce durano nel teatro contemporaneo e io li rimpiango sempre e per sempre. Così come rimpiango il Festival di allora. Oggi il teatro vive un vuoto di senso la cui unica soluzione è culturale: deve tornare a incarnare una visione di futuro possibile, capace di alimentare speranze ed energie e la parola “avanguardia” tornare ad essere l’apertura al futuro, non il sinonimo di “moda” o “successo”.
Le mani di mia figlia sul manifesto
Di Maurizio Agostinetto, Grafico e scenografo
Per me che ho vissuto e vivo l’avventura del Magopovero, diventata poi compagnia degli Alfieri, resta indelebile nella memoria l’organizzazione delle due edizioni di Asti Teatro del 1997 e del 1998 con la supervisione artistica di Eugenio Guglielminetti. Mettere insieme un cartellone, contattare gli artisti in Italia e all’estero, seguire tutti gli aspetti logistici della rassegna fu un’esperienza intensa. Ricordo l’emozione di far recitare Judith Malina e la sorpresa dirompente del Masaniello in piazza Castigliano. Nel 2010 Gianluigi Porro mi chiese di provare a cambiare il logo di Asti Teatro dopo che quello originale, il castello medioevale, era stato riprodotto e modificato varie volte. Si voleva dare una grafica nuova che esprimesse il senso del festival, la gioia e la curiosità. Io, che so da sempre disegnare meglio di quanto sappia scrivere, cercai varie ispirazioni. Alla fine prevalse un manifesto con due piccole mani aperte e colorate. Erano quelle di mia figlia Chiara. Negli anni successivi il logo è cambiato ancora. Abbiamo organizzato anche un concorso grafico di idee rivolto ai giovani. Ed in quegli anni è nata Scintille, la rassegna concorso rivolta ai giovani gruppi che recitano brevi testi in diversi cortili del centro creando un itinerario coinvolgente.
Un sogno recitare sotto le mura di Asti
Di Lorenza Zambon, Attrice, Casa degli Alfieri
A pensarci adesso il mio/nostro rapporto con Asti Teatro è sempre stato un rapporto “familiare” in senso proprio, con l’affetto, gli scontri e i ritrovamenti che questo implica. Ci sono stati anni in cui il festival lo abbiamo ispirato e anche diretto, anni in cui ci siamo sentiti esclusi, ma quelli che mi emergono più vividi dal ricordo sono dei flash, dei momenti in cui il dibattito e anche la polemica hanno scatenato un’esplosione di creatività.
Ricordo il tetto di ombrelli sospeso altissimo sul cortile del Michelerio per il “contro” festival Alfieri dell’ 87, una delle cose più divertenti che mi sia capitato di fare (in tantissimi ci hanno portato i loro vecchi parapioggia, noi ci abbiamo messo quattro giorni a costruirlo, sospesi in alto all’altezza del tetto su un ponteggio stretto, a turni serrati, ricordo la sensazione vertiginosa… E tutto per prendere in giro il Festival ufficiale che aveva costruito un soffitto mobile al Collegio, quello che alla prima pioggia si è incastrato, il nostro invece non ha fatto un plissé! ). E poi il forno da pane di mattoni costruito nel cortile, e il volo di piccioni all’imbrunire che, nel momento perfetto, hanno cominciato a girare sopra la testa di Leo de Bernardinis in scena … e la poesia che scorreva a fiumi fra i cortili e le vecchie sale.
Più di recente: il taglio di sentieri d’ erba in mezzo alle sterpaglie che invadevano le vecchie mura di Asti, un varco per ricolonizzare un luogo magnifico, sbarrato e dimenticato: Erbacce di città la mia piccola creatura accolta dal Festival, tre giorni di ibridazione fra teatro e natura in un luogo segreto riaperto alla città… i narcisi inselvatichiti fioriti sulle mura al momento del sopralluogo, la poesia di Mariangela Gualtieri, le parole di Vitaliano Trevisan… e quel fantastico sleeping concert: noi, in tanti, a dormire insieme nei nostri sacchi a pelo sul prato sopra le mura, mentre i musicisti si prendevano cura del nostro sonno ed entravano nei nostri sogni… fino all’alba.
Io, bambina in platea con papà
Di Valentina Fassio, Giornalista
In platea con papà. Il ricordo dei 40 anni di AstiTeatro è un ricordo di bambina, abbonata al festival fin da piccolissima, seduta nelle prime file vicino a papà Domenico. Ancora prima di saper leggere e scrivere, questa la sua scelta: farmi scoprire il teatro, quello dei grandi (d’età e di fama), quello dei festival messo in scena da attori e compagnie internazionali. Asti Teatro era una tappa obbligata, per me e per mia sorella Erika. Perché la cosa più importante era iniziare a “masticare” teatro. La comprensione di trama e significato non era la priorità, prima o poi avrei imparato.
Prima o poi avrei capito di essere stata spettatrice di eventi importanti e dal respiro internazionale. Nessun commento consentito durante la messa in scena, “si sta in silenzio per rispetto dei protagonisti e del pubblico”, qualche spiegazione prima del sipario e tante curiosità da togliersi dopo: che la scena fosse palazzo del Collegio o un altro spazio della città, tra gli spettatori c’era l’abitudine di attardarsi a fine spettacolo. Un tempo bello per soddisfare la curiosità di bambina, per carpire e origliare i commenti dei grandi. È li che per la prima volta senti parole come prima assoluta o nazionale, Santarcangelo dei teatri, Spoleto, Avignone. Molti titoli non li ricordo, molti nomi di attori e compagnie sfuggono alla mente, ma restano momenti indelebili.
Si fissano nella memoria il volto e gli occhi di Lindsay Kemp, restano incancellabili la magia del teatro delle ombre di Bali, ti rapiscono le atmosfere, le movenze e i costumi delle compagnie giapponesi. Solo con il tempo capisci significato e storie di molti spettacoli, ma già ti colpiscono gli attori di “Naja” diretti da Longoni, resti affascinata dalla preparazione dello spettacolo di Judith Malina. Ti seducono le parole pronunciate dalle voci di Herlitzka, Albertazzi, Mauri e Sturno. Ritrovi sul palco Pamela Villoresi che nel pomeriggio è stata in negozio da papà, e come lei molte altre attrici che hanno scoperto il suo salone da coiffeur, su suggerimento di Salvatore Leto. Negli anni di Asti Teatro impari a conoscere nomi di attori già famosi o di prossima popolarità, che prima o poi ritroverai su un palco. Assisti a spettacoli anche difficili come il “Saul”, ma ti resta ben impressa la scenografia del grande Guglielminetti, che anni dopo riconosci al centro della rotonda davanti al Massaia.
E poi si cresce e ci si ritrova a scriver di spettacoli sui giornali con la stessa emozione di quelle sere in platea con papà.
Quel Moby Dick con musiche di Paolo Conte
Di Carlo Francesco Conti, Giornalista La Stampa
Ricordo un giorno di quell’estate 1979. Inizio vacanze, caldo.
Nel pomeriggio andai con amici a vedere “Antigone” del Living Theatre ad Alessandria. Giusto il tempo di tornare a casa per vedere “Flowers” di Lindsay Kemp, in quella novità che si chiamava Asti Teatro. Immagini rimaste scolpite nella memoria, indelebili. Ero uno studente di liceo e non mi rendevo ancora conto di essere entrato in contatto con la Storia del teatro, anche se in qualche modo sapevo che quelli erano spettacoli dal peso specifico molto alto. Il primo anno del festival per me era stato soprattutto un vagabondaggio tra cortili, spinto dalla curiosità e dalla voglia di capire.
L’anno seguente arrivò una consapevolezza nuova. Avevo incontrato il teatro in carne e ossa grazie al Magopovero: Tonino Catalano aveva tenuto un breve corso al liceo scientifico. Qualche tempo dopo ero stato chiamato da amici per registrare la colonna sonora di “Moby Dick” del Mago, nientemeno che con Paolo Conte. Sapevo che quella sera d’estate i miei compagni di scuola studiavano per la maturità. Invece io ero lì, nell’oscurità di una sala d’incisione torinese a fingermi jazzista. Quella collaborazione mi fruttò il biglietto per la “prima” dello spettacolo qualche settimana dopo. La maturità l’avevo passata lo stesso, anche se quella sera non avevo studiato. Ma essere presente a quella “prima” era qualcosa di importante, c’era tutta Asti, l’interesse era palpabile, c’era un calore umano che ha caratterizzato le prime edizioni del festival e che poi abbiamo visto andare lentamente e inesorabilmente affievolendosi, manifestandosi ancora di tanto in tanto nelle edizioni seguenti, ma sempre più con avarizia. Quella sera comunque ebbi la precisa sensazione che con me Asti Teatro aveva stabilito un contatto profondo, aveva lanciato una rete e io ci ero finito dentro tutto quanto, le nostre esistenze erano legate. E non avevo neppure la più pallida idea che qualche anno dopo avrei cominciato a seguirlo come giornalista. Alla fine, posso confessarlo, mi sento sempre soprattutto uno spettatore, che grazie al teatro trova sempre qualcosa da imparare e, quando va bene, emozioni. Che altro, sennò?
Migliaia di clic per cogliere l’attimo
Di Giulio Morra, Fotografo
Dall’84, per una quindicina d’anni, sono stato il fotografo di Asti Teatro. Buona parte degli spettacoli venivano prodotti dal Festival e c’era la necessità di documentare l’evolversi della messa in scena. Con me c’erano una decina di fotoamatori appassionati e insieme abbiamo consumato chilometri di pellicola. Erano giorni di migliaia di scatti, camera oscura fino al mattino, provini e centinaia di foto18 x 24 in bianco e nero per le cartelle dei critici. Si correva moltissimo, si dormiva poco ma eravamo coscienti di vivere una stagione culturale esaltante. Erano giorni pieni di nuove amicizie e amori, di nottate a casa di Macio Accomasso a mangiare il risotto e l’anguria flambè di Salvatore Leto.
Si era giovani, insomma. Si era felici.
I direttori organizzativi e artistici
Asti Teatro 1/11 Salvatore Leto
Asti Teatro12 organizzativo Leto e artistico Sergio Fantoni
Asti teatro 13 organizzativo Leto e artistico Guido Davico Bonino
Asti Teatro 14 / 17 Salvatore Leto
Asti Teatro 18 Guido Davico Bonino
Asti Teatro 19/20 Teatro del Magopovero e Eugenio Guglielminetti
Asti Teatro 21 Giorgio Treves
Asti Teatro 22 Vittorio Sgarbi, Gianluigi Porro
Asti Teatro 23 Gian Mesturino, Germana Erba, Ugo Gregoretti
Asti Teatro 24/26 Eugenio Guglielminetti e Salvatore Leto
Asti Teatro 27/31 Salvatore Leto
Asti Teatro 32/36 Gianluigi Porro e Emilio Russo
Asti teatro 37 Gianluigi Porro e Pippo Delbono
Asti Teatro 38 Gianluigi Porro
Asti teatro 39/40 Gianluigi Porro ed Emiliano Bronzino
Hanno fatto parte del gruppo di lavoro di Asti Teatro nelle varie edizioni: Luciano Nattino, Gianni Basso, Graziella Boat, Guido Davico Bonino, Giovanni Ferrero, Salva Garipoli, Maria Grazia Gregori, Giorgio Guazzotti, Eugenio Guglielminetti, Laurana Lajolo, Salvatore Leto, Emilio Pozzi, Ottavio Coffano, Sergio Colomba, Rodolfo di Gianmarco, Luigi Florio, Giorgio Galvagno, Odoardo Bertani, Aldo Trionfo, Giuseppe Fasolis, Gianfranco De Bosio, Rita Marchiori, Roberto Canziani, Mimma Gallina, Mario Mattia Giorgetti, Alberto Pasta, Nuccio Messina, Lele Luzzati.
Nome e logo da inventare
Il nome Asti Teatro secondo la testimonianza di Salvatore Leto si deve all’allora assessore alle Finanze Giancarlo Canestri che partecipò ad un incontro a Torino, agli inizi del 1979, nella sede del Teatro Stabile nell’ufficio del presidente Egi Volterrani. Non si voleva chiamarlo festival ma rassegna. “Festival ci ricordava Sanremo”. Le ipotesi proposte da Leto, Lajolo, Guazzotti e Volterrani erano varie ma non si trovava una sintesi. Canestri spazientito tagliò corto. “Lo facciamo ad Asti e ci sarà teatro chiamiamolo Asti Teatro” e così fu con l’aggiunta del numero progressivo che da allora contraddistingue ogni edizione. Anche il primo logo nasconde una curiosità. È tratto da una miniatura del Codex Astensis, rappresenta una città circondata da palizzate, ma non è Asti bensì una raffigurazione medioevale di Castello d’Annone.