Il diario dell’ufficiale di Castagnole Lanze che riportò a casa i suoi alpini attraversando l’intera Jugoslavia
Sentii parlare di “Maggiorino” da un amico montaldese di mio padre.
Avevo poco più di sette anni e per me la guerra era quella dei fumetti dell’Intrepido e della Collana eroica. Mio padre Giovanni amava rievocare, in risposta alla mia curiosità, le sue vicende in Grecia e Montenegro.
Qualche volta accennava, laconicamente, ai due anni di prigionia: «rape, ancora rape, e dissenteria, e 40 chili di peso per un uomo di uno e ottanta di altezza».
Quella volta Renato (detto “l’ Muc” il monco, per via di una ferita da caccia che non gli impediva di essere uno dei migliori operai tuttofare di Montaldo Scarampi: vigna, bosco, muratura) raccontò qualcosa accanto al focolare e mi colpirono un paio di frasi:
«Maggiorino nel pericolo non ti portava mai se non era per lui saremmo tutti morti in Bosnia».
Ho ritrovato, per una di quelle coincidenze del destino, il “Maggiorino” nel libro I duecento della Taurinense, prestatomi dalla mia amica Rita Anfosso, e ho scoperto che non si trattava di un cognome, ma del nome proprio del colonello Anfosso, di cui Rita è nipote, comandante in quello scorcio di Seconda Guerra Mondiale del 3° reggimento Alpini.
Il testo narra una storia eroica e umanissima, frutto di un dettagliato diario (scritto al plurale, credo per desiderio di massima condivisione con i suoi) che testimonia vicende
drammatiche, confuse, contraddittorie vissute da un reparto italiano di stanza in Jugoslavia.
Il colonnello lasciò, come ricorda Edoardo Verrua curatore del volume, all’unica figlia Luciana il testo dattilografato, “in duplice copia carta carbone”. Su di esso Verrua ha lavorato ribattendolo al computer anche per interpretare e rendere leggibili i caratteri serbocroati utilizzati nei nomi di località.
Il racconto inizia con l’arrivo nell’aprile del ’43 dei reparti comandati dal colonnello Anfosso a Prijepolje, cittadina del Sangiaccato sulle rive del fiume Lim. Gli italiani tornano a occupare posizioni che avevano lasciato ai reparti tedeschi. «Non avevamo ancora preso possesso degli accantonamenti (da ripulire visto l’uso fattone dai camerati tedeschi durante la nostra assenza) quando una comunicazione telefonica del Comando
di Divisione ci preannunciò la partenza per il Montenegro sud-occidentale.
A sostituirci qui di nuovo i tedeschi
».
Ma la situazione sta evolvendo e anche in questo angolo dei Balcani si stanno per vivere giorni drammatici: « fece seguito la notizia della caduta del governo fascista». E il sibillino annuncio di Badoglio: la guerra continua. Il colonnello, non fidandosi, provvide a far erigere sbarramenti stradali.
Il reparto sorpreso l’8 settembre 1943 alle Bocche di Cattaro
Poi venne l’8 settembre 1943, il comunicato dell’armistizio con gli Alleati, letto alla radio da Badoglio, la mancanza di ordini precisi dallo Stato Maggiore.
Il 3° Alpini e il gruppo Susa erano appostati sulle strategiche alture delle bocche di Cattaro, a controllo dello stretto e dei fiordi dell’Adriatico meridionale, in Montenegro.
«Su quelle alture si accese ben presto, accanitamente, la lotta contro i nuovi nemici. Appoggiati all’impervio ed inospitale massiccio montuoso del BJela Gora (Montagna Bianca), resistemmo fin che si poté agli attacchi di terra e dal cielo con Stukas, mentre volantini scendevano a pioggia, inneggiando alla precedente alleanza o minacciando pene capitali per i traditori
».
I tedeschi circondano gli italiani, proponendo loro la resa che equivaleva alla deportazione in Germania. Furono i giorni della scelta più difficile e non mancarono «gruppi di audaci che vollero sfuggire al blocco portando la lotta alla macchia per poi tentare il ricongiungimento con altre unità che risultavano ancora in armi nel Montenegro e Sangiaccato».
La patria era per gli alpini “la terra dei padri” dove volevano tornare
Anfosso con i suoi uomini resta. Con una motivazione intrisa più di orgoglio di gruppo che di reale patriottismo, nel momento in cui una “Patria”, nel senso politico della parola, non esisteva più. Rimaneva il concetto di “terra dei padri”, l’Italia come entità territoriale da raggiungere per tornare al proprio paese e alla propria famiglia.
Quel 7 ottobre 1943 «con buio pesto e pioggia torrenziale
seguendo le tracce di un sentiero che l’acqua aveva trasformato in un rigagnolo vorticoso, iniziammo la discesa. L’oscurità, il tuono e lo scrosciare della pioggia coprivano i rumori della colonna
con il favore degli elementi atmosferici, per quanto incomodi, sgusciammo tra le maglie
dell’accerchiamento».
Erano rimasti in 200. Si organizzano, entrano in contatto con la popolazione dei paesi più isolati. «Che strana gente – scrive il nostro Maggiorino – ha istintivo il senso
dell’ospitalità, ma mentre da una parte ti offre un giaciglio ed un po’ di latte, dall’altra ti ruba il portafogli e quant’altro. Ha spogliato centinaia di nostri soldati isolati ma non ha mai ricusato un piatto di minestra».
In contatto con le formazioni serbo ortodosse dei Cetnici
Il reparto entra in contatto con formazioni armate dei Cetnici, nazionalisti serbo ortodossi che volevano restaurare, a guerra finita, la monarchia di Pietro II, il re di
Jugoslavia in esilio. Nel confuso scacchiere balcanico furono prima finanziati dall’Inghilterra, poi passarono con italiani e tedeschi e infine si allearono alle formazioni
comuniste, guidate da Tito.
Il colonnello Anfosso ne descrive la mentalità: «
abituati da tre anni a fuggire per conservare tutte le energie per il momento buono
non si rendono conto che il nostro affiancamento alle loro formazioni dipendeva dall’impossibilità di continuare la lotta per
conto nostro».
La strategia cetnica era di poco impegno militare e molto politico. La coabitazione fu complicata dai furtarelli in un ambiente in cui «
la rapina è eletta a sistema e consumata con scaltrezza sbalorditiva… in una zona, peraltro di una povertà indicibile, ed in un ambiente che sembra, per scarsa vegetazione e rare coltivazioni, il regno
dello squallore».
Maggiorino e i suoi uomini cercano di ricongiungersi con altri reparti della Taurinense, ma le principali arterie sono controllate dai tedeschi che catturano e deportano.
A Bileca, durante una sosta, gli Alpini vengono derubati della preziosa macchina da caffè “Adele” (nella disperazione anche gli utensili diventano oggetto di sentimento), e il colonnello annota con taglio sociologico: « questa gente manca di tutto; un vestito spesso senza ricambio ed un’arma è tutto il loro bagaglio; da tre anni la Jugoslavia non produce alcunché, a parte qualche genere agricolo, e non può importare dopo il blocco dei prodotti che arrivano, seppur in misura ridotta, dall’Italia. La confusione delle valute ha spopolato i mercatini prima ricchi di banchetti Ne deriva che qualsiasi prodotto, dal vestiario al fiammifero alla cartina per sigarette, suscita un’avidità incredibile tanto da annientare il senso di dignità».
Il viaggio verso nord riprende. In una imboscata si sbanda il mulo con gli effetti personali del comandante. Vanno perduti indumenti di ricambio e coperte. In un paesone, Kalinovic, appena abbandonato dai partigiani titini, dopo aver bruciato le case di presunti collaborazionisti, e occupato dai Cetnici, il medico militare italiano visita e medica anche i civili.
La ricompensa fu la consegna di qualche genere alimentare e la, graditissima, possibilità di ripulirsi. «Tutta la plaga di Kalinovic, che comprende parecchi comuni ed ampio territorio, è senza medici e ne avrebbe molto bisogno poiché in alcune località serpeggia il tifo» annota Anfosso. Si arriva sul fiume Drina. Tutti i ponti sono stati distrutti. C’è un solo barcone traghettante: « davvero in Jugoslavia è tutto da ifare , scuole, sedi comunali, caserme Lotte tra cetnici e musulmani, tra cetnici ed ustascia, tra partigiani e cetnici e di ricostruzione non se ne parla».
Le parole di Anfosso anticipano quanto tragicamente succederà tra etnie della ex Jugoslavia dopo la morte di Tito nel 1980.
In Bosnia l’accoglienza della popolazione verso gli italiani è migliore: «Quale differenza tra il senso di ospitalità di questi bosniaci e l’istinto di rapina degli erzegovinesi! Alle dimostrazioni di ospitalità non è estraneo il ricordo del nostro trattamento generoso. Zucchero petrolio sale riso etc. sono scomparsi dal momento della nostra evacuazione A nostra differenza, i tedeschi si limitano a considerare l’occupazione militare come tale, anche con sfruttamento forzoso di tutte le risorse locali».
La voglia di tornare in Italia spinge Anfosso e i suoi alpini a dare inizio alla “marcia delle mele”: «Se ne mangiarono a volontà e se ne caricarono il più possibile. E pensare che in paesi a non molti chilometri non ne trovavi se non a prezzi proibitivi». I partigiani titini occupano Mededa e il ponte di Lim, i tedeschi preparano una controffensiva da Sarajevo. Gli italiani sono tra due fuochi. L’11 di novembre, una pattuglia in perlustrazione, comandata dal tenente Ponzoni, viene fermata e l’ufficiale invitato a un colloquio con il capo partigiano.
Anche il colonnello Anfosso partecipa al successivo incontro. «Lungo la rotabile alcuni reparti partigiani sono in posizione e ci osservano con armi in linea; il silenzio regna assoluto.
Ad Ustikolina siamo accolti nella casa di comando di brigata ove si consuma un frugale spuntino a base di pane ed ottimo burro . Siamo ormai riuniti in ambiente artigiano Il mattino seguente facciamo conoscenza con il comandante di brigata».
L’incontro con i partigiani di Tito. Cantano “Bandiera rossa” e gli alpini “La Montanara”
Anfosso analizza la diversa situazione dal punto di vista militare, accanto a gente che «era stata nostra avversaria e avevamo duramente combattuta».
Nella somma confusione di ideali e strategie, l’ufficiale piemontese sa che ciò che può tenere assieme il suo gruppo è un obiettivo, una direzione da seguire e un sogno da mantenere in vita: tornare in Italia. Non mancarono peraltro i problemi.
I capi partigiani pretendono che il reparto italiano sia «disarmato salvo riarmarlo dopo
aver accertato la reale volontà di lotta ai tedeschi». Si tratta a lungo e si trova un
compromesso: «Potevamo aspirare alla nostra riabilitazione combattendo al fianco dei nostri nuovi ospiti, ai loro ordini, ma conservando l’armamento
Nel tragitto verso la caserma il reparto è accolto da saluti e gesti amichevoli finché un gruppo di drugarice (compagne) intona Bandiera Rossa in segno di cameratesco omaggio».
Anfosso analizza l’ideologia dei “partizani”, ricorda il biennio rosso in Italia tra il 1919
e il 1921 e ammette che per l’ideale «quei giovani erano pronti a sacrificarsi e compiere eroismi che noi dobbiamo rispettare, tollerando manifestazioni anche non gradite».
L’occupazione nazifascista di quei territori “ha portato due anni di chiusura delle scuole con disoccupazione di studenti ed insegnanti, le case distrutte, le fabbriche chiuse, la rabbia di donne senza marito o fidanzato», terreno su cui la propaganda partigiana ha fatto proseliti.
L’ufficiale riorganizza i suoi uomini con “bidoni di benzina adattati per la
disinfestazione dei pidocchi ed una lista di disposizioni igieniche generali e norme di contegno”.
La sera poi, uno spettacolo d’arte varia in onore dei nuovi venuti è il coro della
Montanara intonata con crescente sicurezza dagli alpini a cogliere l’applauso finale.
«Tutti i militari italiani sono, nel complesso, ben impressionati dall’ambiente
tuttavia il nostro desiderio è sempre quello di congiungerci altre divisioni connazionali, con la sensazione peraltro che il comando di divisione partigiano faccia invece di tutto per
tenerci alle sue dipendenze».
Ancora una volta il colonnello si dimostra buon osservatore e trova modo di descrivere il mondo che lo circonda, in particolare la capacità straordinaria di «accantonare un gran numero di reparti e servizi nelle poche costruzioni ammassando uomini e materiali. Non ci sono letti, ma solo stuoie e pagliericci per il riposo. I partigiani poi, non posseggono generalmente vestiario, anche intimo, al di là di ciò che indossano, che lavano quando possono, favorendo l’infestazione di pidocchi».
solo un po’ di polenta alla cena di Natale del 1943
Il diario prosegue con pagine di analisi militare e citazioni dei bombardamenti degli Stukas e le temutissime, silenziose “cicogne”, piccoli aerei tedeschi capaci di sbucare improvvisi e mitragliare. Unica difesa, il rifugiarsi nei boschi.
Gli alpini aggregati alla divisione partigiana partecipano nella valle dello Stavnja all’occupazione dei centri di Vares e Brez.
Scrive Anfosso: «Da quel momento i “taliani”, così chiamati senza distinzione di grado e senza la più lontana forma di riguardo, sono trattati da compagni veri».
Arriva il Natale del 1943. «Alle 23 – annota il colonnello – dopo esserci stipati con gli altri ufficiali nell’unica stanza di una casa con un’unica stufa a dare un po’ di calore e molto fumo, usciamo all’aperto per unirci ai bivacchi in armoniosa e cameratesca adunata intorno al fuoco “italiano”, distribuendoe scambiando parte delle poche scorte rimaste». Si mangia polenta senza condimento alcuno.
Riprende la marcia, definita «sfinente per lo scarso cibo, per il freddo, le fatiche, le misere condizioni del vestiario, in particolare le calzature. È il caso di dire che chi si ferma è perduto».
In un trasferimento Anfosso perde la borsa di cuoio con «quanto di più prezioso: documenti denaro e gli ultimi 30 pacchetti di sigarette Faro».
In qualche modo la colonna sfugge all’accerchiamento. Gli alpini arrivano a Vares dove «siamo gentilmente accolti dal parroco, che ci offre rakia, un’ottima tazza di caffelatte
ed addirittura una colazione vera, con salame». E ancora: «Il giorno successivo visita degli ufficiali a signora italiana, moglie del dottore locale in una casa ben riscaldata a parlare la nostra lingua davanti ad un caffè ed un bicchiere di liquore che ci riportano con pensiero nostalgico alle nostre contrade».
Non mancano momenti di tensione e incomprensione con i partigiani slavi.
Riflette il colonnello: «Quasi quattro mesi di lotta, disagi inenarrabili, battaglie a fianco dei partigiani non sono servite a risollevare di fronte a queste gente il buon nome del soldato taliano».
Dopo una marcia di altre 12 ore, la colonna arriva a Sokolovici, sede del comando divisionale, dove il diverso trattamento alimentare tra gli italiani e i partigiani crea
nuovamente malumore. Anfosso sottolinea l’energia che deriva dalla convinzione
di essere buoni combattenti, degni di ammirazione anche da parte di avversari, o di compagni improvvisati come i partigiani, che dalla loro avevano forti motivazioni
politiche che, per un ufficiale di carriera come lui, erano ideologicamente discutibili.
Finalmente il 5 marzo 1944 la marcia riprende su terreni resi sdrucciolevoli dallo scongelamento. Bisogna stare attenti «all’attività dei reparti tedesco-croati, delle bande di Zelendakar (Musulmani) e di Cetnici
Non siamo ancora nella terra promessa, per raggiungere la quale dobbiamo attraversare i contrafforti della catena montuosa che si
protendono versa la Sava».
In qualche modo Anfosso e i suoi uomini raggiungono Gradarac, dove l’ambiente si rivela internazionale per la presenza, oltre a un gruppo di soldati italiani della “Ferrara”
fuggiti da un campo di concentramento, di ex prigionieri russi e di ufficiali inglesi e francesi.
«La sera stessa siamo invitati ad uno spettacolo con canti corali locali, russi ed italiani
I sovietici sono quelli che riscuotono i maggiori applausi per le possenti e ben intonate
voci e per la simpatia dei partigiani nei loro confronti. Anche gli italiani hanno successo
Abbiamo temuto per qualche istante di sentir cantare Giovinezza, ma si è optato per Caterinelle, assai gradito dall’uditorio».
Restavano da superare le Dinariche, una catena di basse montagne con dorsali parallele che raggiungono i 1000 metri.
Arrivano al mare della Dalmazia
“Chi piange lo fa in silenzio”
Ormai la strada è tracciata, e punta a ovest verso la costa dalmata: «a Prekaja un piatto di fagioli e una fetta di pane riescono ad attutire i più brutali stimoli dello stomaco prima di lasciarci cadere sulla solita coperta buttata sul pavimento. Non tocca miglior sorte al cavallo, il buon Nino, giunto allo stremo delle forze lo cediamo ad un contadino».
Il 14 aprile, nella penombra della sera, «siamo in riva al mare. Chi piange lo fa in silenzio!».
L’odissea sta per finire, con l’imbarco dapprima su piccole barche condotte da donne («non avevamo mai visto femmine tanto abili all’uso del remo») verso l’arido isolotto di Kaprije, e poi a Zirje, un’isola che apparve «la Bengodi partigiana con ottimo vino a prezzo bassissimo». Da lì si partirà verso l’agognato territorio italico.
Il colonnello Anfosso tenta un bilancio e scrive: «Cento tra morti, feriti e dispersi. Quaranta giorni di marcia a piedi, fame da lupi, combattimenti con ogni parte in causa.
Il sentimento del dovere e la fede in Dio ci hanno guidato sulla via dell’onore militare, il sentimento di nazionalità ci ha incitato
».
Il diario finisce così, ma la guerra non è finita. L’ufficiale combatterà ancora inquadrato nei reparti del Corpo italiano di liberazione, fedele al governo monarchico e cobelligerante con gli Alleati.