Dopo la pace di Utrecht del 1713 Vittorio Amedeo II diventa re di Sicilia e i palermitani gli consegnano alcuni giovinetti mussulmani da convertire
Il punto di partenza di questa storia è un cognome – Aly Belfadel – che di primo acchito parrebbe portarci in un mondo orientale ed esotico, tra sultani e giannizzeri della Costantinopoli ottomana, ma che invece, lo scopriremo a poco a poco, è legato a filo doppio da oltre tre secoli con la lingua, le storie, le tradizioni del “vecchio Piemonte” e della Valle Bormida in particolare.
La prima volta che sentii parlare di Aly Belfadel fu quando frequentavo le scuole elementari a Monastero Bormida e la maestra Maria Teresa Campanella ci faceva imparare a memoria
la canzone del Polentone, quello che per noi del paese è ben di più di un canto popolare, ma un simbolo identitario, un motto di appartenenza, lo sfogo liberatorio a cui ci si abbandona al termine della festa ben riuscita girando per le vie del centro con la compagnia della fisarmonica di Mario d’Gasprot o del Brav’Om.
Pu-pulazion d’la Val Burmia… intona un improvvisato capo coro, a cui risponde il gruppo alternando le strofe con il ritornello Qualunque temp cuj foza, oilà / nui l’armisc-cium-ma an pioza, oilà / la gran pulenta d’or / la gran pulenta d’or… E per noi ragazzini che vivevamo quel particolare periodo in cui nelle famiglie si tendeva a non parlare più il dialetto e di contro nelle scuole si cominciava timidamente a insegnarlo, alla fatica di mandare a mente le parole della filastrocca si aggiungeva lo stupore per la notizia che l’autore fosse stato, nei primi anni del Novecento, un medico di origine turca di nome Arturo e di cognome Aly Belfadel.
Che cosa ci faceva un turco in Valle Bormida? E come mai proprio un personaggio così particolare aveva ideato le parole della canzone che inneggia all’evento folklorico più tipico e caratterizzante della nostra piccola comunità? Curiosità di bambini che sembravano destinate a rimanere tali se, pochi anni dopo, il professor Riccardo Brondolo non avesse dato alle stampe una storia di Vesime rielaborata sulla scorta delle ricerche d’archivio del nostro medico-autore. Il quale, dunque, non era solo l’arguto ideatore delle rime inneggianti alla fumante polenta, ma dimostrava ben altra stoffa di studioso e attento conoscitore delle vicende locali.
Fu cultore del piemontese e propugnatore dell’esperanto

Così, a poco a poco, dietro a questo strano cognome ha preso forma la figura di un uomo dalla forte personalità, dalla vasta cultura, dai molteplici interessi. Arturo Aly Belfadel, oltre che un ottimo medico, era un esperto di glottologia e di grammatica, un attento ricercatore storico, molto puntuale nella verifica delle fonti e molto attento nel valutare i fatti senza lasciarsi condizionare dai pregiudizi, un appassionato cultore delle tradizioni locali, un fine conoscitore della lingua piemontese, un divulgatore dell’esperanto, il particolare idioma ideato da un gruppo di studiosi che avrebbe dovuto diventare, nelle intenzioni dei suoi propugnatori, la nuova unica lingua universale.
L’avventurosa saga di famiglia degli Aly Belfadel
Inoltre era anche un pignolo compilatore della storia della propria particolare famiglia. Pur non avendo mai avuto l’onore delle stampe, come capitò invece alla saga famigliare del suo
conterraneo e quasi coetaneo Augusto Monti, il voluminoso fascicolo compilato da Arturo Aly Belfadel e decorato con cornici, disegni e fotografie dal figlio Osman nel 1925, si è conservato fortunosamente, seppure solo in fotocopia, fino ai giorni nostri, e rappresenta una vera miniera di informazioni di prima mano, assolutamente inedite.
Il testo si diffonde in particolari minuziosissimi su tutti i membri della grande famiglia degli Aly Belfadel, dividendo come in un albero genealogico i vari rami discendenti dal ceppo originario, molti dei quali conservarono (e conservano ancora oggi), quasi per un legame affettivo con la loro particolare storia, i nomi di origine mussulmana.
La parte più interessante è quella iniziale, dove l’autore cerca di risalire alle vicende dell’arrivo degli Aly Belfadel in Piemonte e si sofferma sull’etimologia del cognome e sulla sua corretta scrittura, sostenendo che la forma vulgata Aly Belfadel è senza dubbio una corruttela dovuta alla traslitterazione in italiano o in francese o in piemontese di un originario Ali El Fadel (Alì il Virtuoso) o Ali Ben Fadel (Alì figlio del Virtuoso) o Ali Abi’l Fadel
(Alì padre della Virtù).
Quanto al modo in cui questa famiglia mediorientale sia venuta in talia, il nostro autore non cita documenti d’archivio, ma si rifà alla tradizione tramandata oralmente di padre in figlio e a un racconto pubblicato sul quotidiano romano Il Fanfulla nel gennaio 1891.
Le due versioni divergono in alcuni punti, ma concordano nella sostanza. Inoltre egli, da bravo storico, le mette a confronto, sfrondandole di tutte le parti dubbie e cercando di dimostrare ove possibile la veridicità o almeno la verosimiglianza del racconto.
Siamo nel 1713, quando a seguito del trattato di Utrecht si pose fine alla lunga guerra di successione spagnola che aveva insanguinato l’Europa. Nello scacchiere del continente,
con la supervisione dell’Inghilterra, cambiano molte cose. Il Ducato di Savoia ottenne grandi vantaggi: ebbe lo sbocco al mare con Nizza, estese il dominio agli ex territori dei Gonzaga del Marchesato del Monferrato, compresa Alessandria, ma soprattutto ottenne il titolo regio e l’intera Sicilia: il 10 giugno1713, infatti, la Spagna firmò il documento di cessione dell’isola ai Savoia. Il 3 ottobre il nuovo Re Vittorio Amedeo II detto “la volpe savoiarda” salpò da Nizza alla volta di Palermo, dove sbarcò circa venti giorni dopo.
Il 24 dicembre, con una sontuosa cerimonia nella cattedrale di Palermo, Vittorio Amedeo
II e la moglie Anna Maria d’Orléans ricevettero la corona regia, che tennero in verità per pochi anni visto che nel 1718 la cambiarono con quella di Sardegna.
1713: all’incoronazione a Palermo il Savoia riceve un dono speciale

Tra la folla che assisteva all’evento vi era anche un gruppo di nobili di origine turca, tra i quali due giovanetti di circa dodici e undici anni (Aly Belfadel e Sana) e forse una femmina, Fatima, che doveva avere qualche anno in più.
Erano finiti in Sicilia dopo molte avventure, forse catturati durante un viaggio in nave. I maggiorenti palermitani ebbero l’idea di offrire i giovinetti turchi in dono al nuovo Re perché li convertisse al cattolicesimo. Era una pratica comune a quei tempi di pirati barbareschi e di corsari cristiani che catturavano navi e prendevano schiavi per poi chiedere il riscatto di coloro che erano di origine nobile e facoltosa.
Si pensi che ancora nel 1803 Vittorio Emanuele I pagò un riscatto al Bey di Tunisi per far rimpatriare ottocento abitanti dell’isola di Carloforte in Sardegna, catturati cinque anni prima dai pirati.
Ma torniamo a Palermo e al dono regale. Grato per l’omaggio, Vittorio Amedeo affrancò i ragazzi e decretò che il “piccolo moro” Aly Belfadel diventasse suo valletto di camera. I giovani furono battezzati il 26 ottobre 1718 a Rivoli, con un gentiluomo e una donna di corte a rappresentare il Re e la Regina come padrini. Aly Belfadel prese il nome di Giovanni Battista, ma fu chiamato da tutti Vittorio, in onore del suo illustre protettore.
I ragazzi vengono portati a corte e Aly diventa valletto del re

Allorché, dopo sedici anni, il Re abdicò a favore del figlio Carlo Emanuele III, Aly lo seguì a Chambéry e gli restò fedele anche quando, rischiando una guerra civile, Vittorio Amedeo II tentò di riprendere il potere e fu fatto prigioniero nel castello di Rivoli.
Arturo Aly Belfadel confronta questa versione della storia con i ricordi degli anziani della propria famiglia, in particolare con le memorie della ultraottantenne Angela Ottino, figlia di Rosa Aly Belfadel, e aggiunge alcuni dettagli interessanti alla vicenda: i ragazzi erano in viaggio dall’Epiro (storica regione tra il sud dell’Albania e il nord della Grecia) verso La Mecca e sarebbero stati catturati o costretti a sbarcare in Sicilia a causa delle cattive
condizioni del mare.
Il padre dei due – forse il Pascià di Giannina – avrebbe chiesto e ottenuto il rimpatrio dei figli, ormai stabilitisi in Piemonte, senonché i fratelli, trovandosi al castello di Rivoli, vennero colpiti dal vaiolo, che li ridusse in fin di vita e la regina Anna di Savoia-Orléans, preoccupata che a palazzo morissero persone non battezzate, chiese e ottenne che un prete impartisse loro battesimo ed estrema unzione, anche se i ragazzi erano così ammalati da non essere coscienti.
A poco a poco i due guarirono e furono educati alla religione cattolica. Al di là delle varianti, dovute alla trasmissione orale di quegli ormai lontani avvenimenti, non mancano alcuni documenti a testimoniare la veridicità dei fatti successivi all’arrivo a corte dei due giovinetti turchi (sulla sorella Fatima non si sa nulla, se non un confuso accenno al fatto che, dopo la conversione, si sarebbe fatta monaca con il nome di Margherita Felicita): l’atto di battesimo del 1718 di Giovanni Battista (Vittorio) Aly Belfadel, gli atti di matrimonio – si sposò tre volte – e infine l’atto di morte del 1785.
Il capostipite degli Aly Belfadel ebbe un solo figlio maschio, Giovanni Pietro, il quale a sua volta ebbe un unico maschio, Vittorio Amedeo, che fu architetto e nonno di Angela Ottino,
alla cui memoria il nostro Arturo, che l’aveva conosciuta ormai anziana, si affidava per dipanare la matassa delle parentele famigliari.
Tra i cimeli di famiglia anche una scimitarra e sciarpe di seta ottomane
Ad aiutarlo restavano anche alcuni cimeli, gelosamente conservati e tramandati di padre in figlio: un quadro esposto in origine alla Venaria Reale e poi regalato agli eredi, rappresentava il re Vittorio Amedeo adulto, il principe ereditario Carlo Emanuele bambino e
il giovane Aly Belfadel, vestito alla turca, rivolto verso il monarca e presentante la corona di Sicilia su di un cuscino rosso.
Inoltre Arturo Aly Belfadel stesso conservava del proprio avo una sciarpa turca, di seta color vinaccia e con lunga frangia, mentre altri membri della famiglia disponevano di una scimitarra e di testi scritti in caratteri arabi. Ecco, così, che da carte famigliari fortunosamente conservate, da documenti d’archivio cercati oltre un secolo fa, dai fugaci
ricordi di un dottore dal cognome esotico, ma molto sabaudo per il rigore logico e metodologico delle sue ricerche, si dispiega la storia singolarissima degli Aly Belfadel, le cui vicende spaziano dall’Oriente alla Sicilia, da Torino a Vesime a Monastero Bormida, al Veneto dove vivono ancora discendenti della famiglia.
Medico condotto a Monastero dal 1897 al 1912, Arturo scrisse anche la storia di Vesime
Con questa lunga e storica premessa va raccontava la vicenda di Arturo Aly Belfadel.
Nato il 4 luglio 1872 a Petralia Sottana (Palermo), dove il padre Vittorio era insegnante, Arturo Pietro Giuseppe Maria Aly Belfadel si trasferì a Torino nel 1874 dove, dopo le scuole elementari e il ginnasio, frequentò il liceo, ed evidenziò una spiccata tendenza per l’apprendimento delle lingue straniere, passione che lo accompagnò per tutta la vita.
Autore prolifico, era appassionato di lingue straniere e di folklore piemontese. Scrisse anche la storia di Vesime
Avrebbe voluto frequentare la facoltà di lettere, ma poi si iscrisse a medicina, dove ascoltò
le lezioni di Lessona, Bizzorero, Forlanini, Foà, Lombroso (di cui fu redattore dell’Archivio di Psichiatria) e altri famosi luminari dell’epoca.
Appena laureato, nel 1897, fu assunto alla condotta medica di Monastero Bormida, dove rimase fino al 1912. Nella sua storia famigliare Aly Belfadel ricorda così gli anni della sua prima esperienza lavorativa: «È una condotta faticosa, ma ci lavorai con gioia e con amore. E ci fui amatissimo».
Nel 1900 conobbe a Vesime la ragazza che sarebbe poi diventata la sua prima moglie, Adelaide Luigia (Vigina) Pola, da cui ebbe quattro figli: Osman (1901), Corrado (1902), Negma (1906), Adriano (1912).
Ecco come ricorda le sue attività culturali in paese: «Durante la mia permanenza in Monastero Bormida fui vari anni Segretario della locale sezione della Società dei Viticultori, prima consigliere, poi vicepresidente della Sezione Acquese della Associazione Nazionale dei Medici Condotti, e pubblicai numerosi articoli di medicina, di letteratura, di folklore, d’antropologia, d’igiene in vari giornali e riviste e pubblicai pure coi tipi dello Hoepli in Milano una Grammatica Magiara. Fu questo lavoro e la lista dei miei articoli, che presentati al Ministro Giolitti dal Comm. Carlo Alberto Cortina, il quale aveva qualche motivo di riconoscenza verso di me, mi fruttarono il 9 dicembre 1909, la Croce di Cavaliere della Corona d’Italia».
Nel 1912 partecipò al concorso per la condotta medica di Santa Maria della Sala (Venezia) e lo vinse, mantenendo il posto fino alla fine del 1939, quando si ritirò a vita privata.
Rimasto vedovo nel 1924, si risposò un decennio dopo con la maestra Amelia Barina.
Intanto proseguivano i suoi studi: «Avevo scritta prima dei vent’anni una Grammatica
Piemontese. La riesumai, la perfezionai un poco e la pubblicai a mie spese nel 1933 (Tipografia Guisa-Noale). Per molti anni cercai, decifrai e trascrissi tutte le pergamene e le carte riguardanti la Storia di Vesime, ricercandole nell’Archivio Parrocchiale e in quello Comunale di Vesime, nell’Archivio Vescovile di Acqui, in quello Senatoriale di Casale, in quello di Stato di Torino e di Mantova e scrissi la storia di quel Comune. Molte cose scrissi, rencensii di lingue estere, volgarizzai; e fu più sollazzo mio, che non altrui».
All’età di 62 anni, conseguì una seconda laurea in Lettere all’Università di Venezia
con una tesi sul sanscrito.
Morì tragicamente a Mirano nel 1945, travolto e ucciso da un camion che trasportava soldati americani.
Per saperne di più
NOTA DELL’AUTORE
I documenti della storia famigliare degli Aly Belfadel sono conservati in fotocopia, per gentile concessione dei discendenti Said e Mansur Aly Belfadel, presso la Biblioteca Civica “Franco e Carolina Franzetti” di Monastero Bormida, dove è stato costituito un piccolo fondo dedicato ad Arturo Aly Belfadel con testi o estratti di altre opere, come la Grammatica Piemontese pubblicata a Noale nel 1933.









