Una rete di 2250 chilometri per servire 101 Comuni
Aprire un rubinetto e veder sgorgare l’acqua appare oggi una cosa ovvia e semplice. Ma c’è stato un tempo, nemmeno troppo lontano, in cui sulle colline del Monferrato e di Langa i rifornimenti idrici erano scarsi e affidati ai pozzi artesiani, che intercettavano le vene di acqua dolce, e alle cisterne di raccolta delle acque piovane di cui erano dotate quasi tutte le case. Nei mesi più caldi e siccitosi la carenza idrica si faceva sentire e la sete di uomini, animali e coltivazioni ha caratterizzato per secoli la vita in queste terre. Una data importante per la risoluzione del problema idrico del Monferrato risale al 28 agosto 1930, quando viene promulgato il Regio decreto n° 1345 che avvia le procedure per la costituzione obbligatoria del Consorzio dei Comuni per la costruzione dell’Acquedotto del Monferrato «…Ritenuta la urgente ed assoluta necessità di risolvere adeguatamente il problema della alimentazione idrica del Monferrato…». Dopo quattro anni, nel novembre 1934, la prima acqua avrebbe iniziato a uscire dai rubinetti del nuovo acquedotto. La storia dell’acquedotto si può così suddividere in tre fasi iniziali. Dagli studi di fattibilità che risalgono al 1922, al decreto istitutivo del Consorzio del 1930, alla prima inaugurazione del 1934. La prima fase, ripercorsa nel 2005 dallo storico casalese Idro Grignolio in occasione del 75° del Consorzio Comuni per l’Acquedotto del Monferrato, parte – come si è detto – dall’atavica carenza d’acqua in vaste aree monferrine con poche fonti sorgive, disseminate su un territorio con piccoli corsi d’acqua nei fondivalle, con la popolazione che si affidava ai pozzi e all’acqua piovana raccolta in cisterne di tufo o mattoni. Queste cisterne erano però spesso infiltrate da scarichi di pozzi neri e altre sostanze e l’acqua contaminata causava infezioni tifiche, causa principale della mortalità infantile.
Da pozzi scavati nei cortili di castelli e case gentilizie e da quelli delle cascine spesso non si ricavava l’acqua sufficiente ai bisogni domestici, all’allevamento del bestiame e all’agricoltura. E anche gli incendi risultavano sempre devastanti. Grignolio nelle sue ricerche ha trovato una leggenda popolare secondo la quale, nelle cronache del 1785, «non essendo caduta la pioggia dal 4 maggio a tutto settembre, in certi luoghi sulla collina per mancanza d’acqua si bagnava la calce col vino, per impastarla ai mattoni e poter fabbricare». L’acqua da bere, buona e pulita, era sempre un bene prezioso e soprattutto non facile da raggiungere. Alla fine dell’Ottocento lo sviluppo della tecnica di scavo e di posa delle tubature favorì il diffondersi degli acquedotti anche fuori dalle città che furono comunque le prime a esserne servite.
Asti ebbe il suo primo acquedotto che attingeva acqua dai pozzi di Cantarana nel 1890 (vedi Astigiani n. 12 del giugno 2015). L’impresa fu voluta dall’ing. Medici, che ebbe la concessione per 90 anni. Portare l’acqua potabile al maggior numero di utenti possibile fu infatti un grande affare per molte società private. La Società Acque Potabili, di Torino, nel 1913 con un suo ingegnere, Pietro Ferraris, aveva già impostato un progetto di collegamento tra molti centri monferrini. Ma la Grande Guerra bloccò il progetto.
Nel 1922 un progetto preliminare getta le basi per l’affare dell’acqua da Saluggia al Monferrato
Nel ’22, con il ritorno dei reduci dal fronte e le grandi tensioni sociali di quel periodo, il problema tornò d’attualità e due ingegneri della medesima Società ripresero il progetto del collega. Erano Carlo Francesetti e Mario Vanni, considerato uno dei maggiori specialisti italiani, che 10 anni prima aveva realizzato l’Acquedotto di Casale Monferrato. I due fondarono una società affiliata alla casa madre che aveva acquistato terreni adiacenti al sottosuolo alluvionale della Dora Baltea, tra cui le cascine “Giarrea” e “Allegria”, a Saluggia, in provincia di Vercelli.
Le prime trivellazioni lasciavano ben sperare: acqua buona e in abbondanza, come confermarono le analisi delle Università di Genova e Siena. Era quanto bastava affinché un gruppo di parlamentari, tra cui il casalese Ottavio Marescalchi e il moncalvese Vincenzo Buronzo, potessero presentare nel ’24 un progetto di legge finalizzato alla costituzione del “Consorzio dei Comuni del Monferrato e dell’Astigiano per l’Acquedotto”.
Ma gli anni passavano e, nonostante l’esame da parte di un’apposita commissione parlamentare, il progetto rimase nel cassetto. Da parte monferrina si continuava a insistere, ma da Roma i finanziamenti non arrivavano e si suggerirono soluzioni frazionate considerando la vastità del territorio da servire, la dispersione delle utenze e i problemi di dislivello.
Buronzo cercò la sponda politica a Roma di Ugo Cavallero il generale-manager
Vanni e Francesetti fecero resistenza insistendo sull’unicità della realizzazione sull’intero territorio monferrino. Trovarono appoggi corporativi da parte del sindacato fascista degli ingegneri di Alessandria. In un lungo articolo pubblicato nel febbraio del ’27 sulla rivista tecnica L’Italia fisica, Vanni e Francesetti dimostrarono, con numeri e analisi socioeconomiche, la validità del loro progetto e i maggiori costi degli impianti frazionati, portando ad esempio come “i consumi su 3 ettari di orto valgano quanto un Comune di 3.000 abitanti”.
Nel 1928 furono inaugurati i lavori per il grande Acquedotto delle Puglie, iniziati nel 1906. E dal punto di vista geopolitico, ai vertici del regime apparve importante inserire un’altra grande opera al Nord a favore delle popolazioni rurali che più volte erano state indicate da Mussolini come la spina dorsale dell’Italia fascista.
Il progetto avanzò. Si prevedeva l’estrazione dell’acqua a una profondità variabile da 35 a 164 metri, sufficiente ad alimentare un’utenza di 150 mila persone. Gli ingegneri Vanni e Francesetti avevano calcolato il pescaggio di 300 litri al minuto, capaci di distribuire 200 litri al giorno per abitante. Da Saluggia, l’acqua sarebbe defluita a bassa pressione per 7 chilometri verso una centrale di sollevamento a Verrua Savoia. Da qui, pompe elettromeccaniche l’avrebbero spinta con una condotta da 60 centimetri verso i serbatoi sopraelevati di Tetti-Coppa, presso Marcorengo, e sul monte Croce nei dintorni di Villamiroglio. Da questi serbatoi l’acqua sarebbe arrivata per caduta nelle tubazioni ramificate in modo da servire paesi e anche case isolate.
Al progetto mancava però il via libera politico e finanziario. Il moncalvese senatore Buronzo e i colleghi Mazzucco e Marescalchi fecero azione di lobby territoriale intervenendo nelle sedi del potere fascista, a partire dai Ministeri delle Finanze e del Tesoro.
Serviva però una spinta in più e il gruppo monferrino la trovò nel generale Ugo Cavallero, che era stato nominato sottosegretario al Ministero della Guerra, che ben conosceva il problema avendo estese proprietà terriere a Ponzano, tra Moncalvo e il Santuario di Crea.
Cavallero, laureato in matematica, aveva saputo sfruttare la posizione e le amicizie ai vertici degli alti comandi militari per ottenere incarichi di prestigio in importanti aziende come la Pirelli, dove era stato direttore generale subito dopo la Grande Guerra; diventerà poi presidente dell’Ansaldo dal 1928 al 1933.
Il generale-manager era molto ascoltato negli ambienti romani e pare avesse suggerito a Mussolini la figura di Pietro Badoglio come la più adatta a ricoprire la carica di Capo di Stato Maggiore. Badoglio fu richiamato a Roma (era ambasciatore in Brasile) per assumere l’alto incarico. I due monferrini parevano destinati fin dalla prima guerra mondiale a continuare la carriera spalleggiandosi a vicenda, ma la loro amicizia di reciproca convenienza si interruppe bruscamente e pubblicamente e con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale divenne aperta ostilità, tanto che molti storici ipotizzano che fu Badoglio, dopo aver fatto arrestare Cavallero alla caduta del fascismo, a lasciare perfidamente sulla sua scrivania da primo ministro in fuga da Roma dopo l’8 settembre 1943 un dossier che comprometteva Cavallero agli occhi dei tedeschi in chiave anti mussoliniana. Il generale-manager, che si rifiutò di comandare ciò che rimaneva dell’esercito italiano a fianco dei tedeschi (cosa che fece poi Rodolfo Graziani), fu così trovato “suicida” nel giardino di un albergo di Frascati dove era “ospite” di Kesserling il 14 settembre 1943.
Ma torniamo a 15 anni prima e alle vicende che portano alla costruzione dell’Acquedotto del Monferrato. Cavallero, nominato conte e senatore, riteneva possibile l’impegno finanziario, ma c’era una difficoltà da superare: nel progetto ogni Comune avrebbe dovuto provvedere alle spese dell’impianto di distribuzione nel proprio territorio. Ma non tutti i comuni, soprattutto i più piccoli, erano nelle condizioni di sostenerle. Vennero fatte pressioni sulla Acque Potabili perché intervenisse sulle spese in cambio dell’allungamento del periodo di gestione dell’Acquedotto. L’investimento previsto era di 100 milioni di lire.
Mussolini invitato alle manovre militari del 1928 promise l’acquedotto
La situazione sembrò sbloccarsi quando Cavallero prospettò a Mussolini di scegliere il Monferrato per le manovre militari dell’estate 1928. Probabilmente qualche pressione deve averla fatta anche Vincenzo Buronzo, che con il Duce aveva un rapporto di lontana parentela. In prime nozze Buronzo aveva sposato la sorella della moglie di Arnaldo Mussolini, fratello del Duce. Era costei Emilia Bondanini, che riposa nel cimitero di Moncalvo. Anche Badoglio probabilmente face la sua parte per “giocare in casa” con le sue divisioni.
Mussolini presenziò alle manovre soggiornando a Camino e prima di congedarsi sentenziò: «L’acquedotto è necessario e si farà. Io amo tutti gli italiani e quelli che amo di più sono i rurali». Una promessa roboante che contribuì a superare gli ostacoli di ordine finanziario e amministrativo. L’ing. Mario Vanni, di Morano Po, divenuto amministratore delegato delle Acque Potabili, ripresentò il suo progetto prospettando 2 anni di lavori e l’assunzione di almeno mille operai. Arrivò il via dal Consiglio dei ministri nel 1930, ma lo Stato avrebbe elargito non più di 35 milioni.
Alla notizia il settimanale di Casale Il Monferrato commentò in perfetto stile osannante: «Il nostro Monferrato fra 3 anni avrà acqua abbondante e sana in ogni paese, in ogni casolare e benedirà il Duce in nome dei figli attuali e di quelli futuri per la redenzione della sua terra dalla siccità».
Da Roma precisarono che il contributo statale di 35 milioni sarebbe rimasto invariato anche se la spesa effettiva ricalcolata dall’ing. Vanni era stata ritoccata al ribasso sui 95 milioni.
Il regolamento stabiliva l’ammontare dell’annuo contributo al Consorzio attraverso una Società gerente, che sarebbe stata fondata da lì a poco, cui veniva affidata l’esecuzione dell’opera in conformità del progetto. I lavori dovevano ultimarsi entro 3 anni e la “gerente” avrebbe assunto per 60 anni l’esercizio incassando le bollette, ma garantendo la manutenzione ordinaria e straordinaria dell’Acquedotto, comprese le reti di distribuzione interne nei singoli Comuni. Al termine del sessantennio, ossia nel 1994, la Società gerente avrebbe dovuto consegnare al Consorzio l’acquedotto in piena funzionalità, senza alcun corrispettivo da parte di quest’ultimo. La data di ultimazione della conduttura principale veniva fissata al 28 ottobre 1932. Due anni prima, il 4 giungo 1930, con atto del notaio Annibale Germano, veniva costituita a Torino la “Società Italiana Acquedotto per il Monferrato Anonima” con il concorso della “Società Italiana Industrie Idrauliche” di Roma. Il capitale era formato da duemila azioni da 500 lire ciascuna. Il progetto finale comprendeva, oltre ai pozzi di estrazione e alla centrale di sollevamento, l’impianto disteso su 800 chilometri (dove avrebbero lavorato 1300 operai), 3 grandi serbatoi principali, 89 serbatoi secondari con capacità complessiva di 50 mila metri cubi e sei impianti di sollevamento.
Va rilevato che il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici sconsigliò l’uso dei tubi in cemento-amianto, materiale non ancora ben conosciuto a quei tempi. Ma la Società non ne tenne conto, visti i bassi costi e la vicinanza degli impianti cementieri di Casale.
Nel «riarso e sitibondo Monferrato» (frase che Cavallero coniò per premere sul Duce) 80 Comuni si consorziarono e ciascun abitante, secondo la logica statistica, avrebbe così avuto a disposizione non meno di 200 litri al giorno. La differenza tra il contributo statale e il costo effettivo (circa 60 milioni di lire) sarebbe stata coperta da prestiti bancari.
Nel 1932 aderiscono al Consorzio 80 comuni e il Duce lancia la parola “sitibondo”
Il 25 ottobre del 1932 fu inaugurata in pompa magna la centrale di Verrua Savoia. Era arrivato Mussolini circondato dalle autorità fasciste, membri della Casa Reale, i podestà delle principali città piemontesi e dei paesi. La coreografia doveva essere “oceanica”, tanto che vennero organizzati treni speciali da Asti, Alessandria, Casale, Vercelli, Chivasso e Torino. I giornali raccontarono a grandi titoli l’evento. «Ho promesso e ho mantenuto. Verrà tra poco una nuova e feconda era di ricchezza e prosperità nel Monferrato non più riarso e sitibondo», tuonò il Duce dinnanzi a una folla osannante, dimostrando di aver gradito la citazione di Cavallero. Nelle scuole le maestre fecero comporre ai balilla e alle piccole italiane temi sulla grande opera e il termine “sitibondo” ebbe il suo momento di gloria, prima di tornare nell’oblio delle parole desuete.
Per il collaudo ufficiale degli impianti ci vollero ancora due anni.
Il 21 novembre 1934 la prima acqua esce dai rubinetti
Avvenne il 21 novembre 1934. I rubinetti ricevettero l’acqua e non vennero fatti pagare per un primo periodo di tempo i costi privati di allacciamento. La gente dei paesi aderì in gran parte all’Acquedotto del Monferrato e nel giro di 5 anni le utenze passarono da cinquecento a 7414 unità. La crescita è proseguita negli anni e oggi gli utenti allacciati a questa rete idrica sono 47.900.
Nel 1935 Asti ebbe la sua provincia, che comprese anche una cinquantina di paesi serviti dall’acquedotto monferrino. Buronzo era diventato nel frattempo il podestà della città e si preparava a nuovi incarichi romani.
Dopo la guerra, con l’abbandono delle campagne, è cambiato il fabbisogno, così come sta mutando in questi anni con il crescente flusso turistico e lo sviluppo delle seconde case. Con il passare del tempo la rete idrica avrebbe avuto bisogno di forti investimenti sugli impianti, considerando la vasta area caratterizzata dalla sinuosità dei terreni e da frequenti guasti delle tubazioni, causati da frane e smottamenti.
Fino al 31 dicembre 2002 l’Acquedotto del Monferrato è stato gestito dalla Società Acque Potabili Torino controllata dall’Italgas e a sua volta controllata dall’Eni. Per decenni l’Acquedotto ha avuto la direzione d’esercizio a Moncalvo, ma la testa pensante era in corso Re Umberto a Torino.
Nel 1994 scade la concessione e inizia il braccio di ferro sulla gestione dell’ acquedotto
Alla scadenza della concessione sessantennale nel 1994, la Società gerente e il Consorzio proprietario dell’intera rete non hanno trovato un accordo e si è entrati in una fase di contrasti giudiziari.
Nel 1995, un anno dopo la scadenza della concessione, il Consorzio premeva per rientrare in possesso dell’Acquedotto e in prima sentenza il Tar diede ragione a questa tesi. Anche il Consiglio di Stato, sulla base del famoso Regio decreto del 1930, sentenziò nel luglio 2002 che i 101 Comuni consorziati dovessero poter gestire la loro proprietà.
Dal 2003 la rete è tornata sotto il controllo del Consorzio dei Comuni
Da poco più che semplice controllore con poteri molto ristretti, il Consorzio ha preso possesso della sede moncalvese allo scoccare del Capodanno 2003, con l’entrata a palazzo Manacorda del presidente Aldo Quilico e del suo vice, il sindaco di Moncalvo Aldo Fara. Da 15 anni la rete è gestita dal CCAM, sotto la guida di Aldo Quilico, presidente e direttore generale. L’Acquedotto del Monferrato è entrato a far parte dell’Ato 5 Monferrato-Astigiano ed è stato interconnesso con una rete più vasta. «Dalla presa di possesso ad oggi abbiamo fatto cospicui investimenti e prevediamo di spendere fino al 2030 un centinaio di milioni di euro, utilizzando i fondi regionali, i ricavi della vendita dell’acqua e mutui bancari fino a raggiungere la completa efficienza», annuncia il presidente Quilico.
Il Consorzio ha spinto sull’innovazione potenziando il telecontrollo dei contatori, e dotandosi di un call-center per le urgenze tecniche e le esigenze amministrative. Il consumo medio per famiglia degli utenti del Consorzio è di 94 metri cubi l’anno, molto inferiore ai 232 dell’area metropolitana torinese, a conferma che si mantengono le abitudini dell’antica parsimonia contadina, quando sprecare l’acqua era un “peccato”.
«Ci si sta muovendo anche sul piano degli interventi strutturali, riducendo le vecchie condutture in cemento-amianto ancora presenti sulla rete, che ha oltre 80 anni» precisa il Ceo Aldo Quilico. Nuove tubature consentono meno riparazioni per le perdite, che sono scese in pochi anni da 3500 a 1500 all’anno in media. «Le perdite interne alla rete dell’Acquedotto del Monferrato sono state ridotte dal 44% al 36% e – aggiunge il manager – prese in esame dal sito nazionale delle fonti di energia “La staffetta quotidiana”, sono valutate con i nuovi parametri di organizzazioni internazionali come la IWA (International Water Association) “in netto miglioramento”, con un indice 2,6 interno alla fascia mediana tra 2-3 che ha gli estremi nell’eccellente 1-2 e nella mediocre 3-4. Si prospetta l’entrata in prima fascia entro pochissimi anni».
Tra i temi affrontati in questi anni, anche i timori per il possibile inquinamento dei pozzi di estrazione.
Timori per la vicinanza dei pozzi al deposito di scorie nucleari
All’interno di un comprensorio di 50 ettari nel Comune di Saluggia, a due soli chilometri di distanza dai pozzi di estrazione dell’Acquedotto del Monferrato c’è il deposito di scorie nucleari Eurex gestito da Sogin (la Società di Stato responsabile dei siti nucleari). Una vicinanza che ha stimolato negli ultimi decenni severe attenzioni su molti fronti. Non senza qualche polemica anche ad Asti dove, in previsione dell’interconnessione con l’Acquedotto del Monferrato al fine di avere un sicuro approvvigionamento in caso di difficoltà, il capogruppo di Forza Italia Luigi Florio chiese al sindaco Voglino di lasciare perdere e caldeggiò il potenziamento dei pozzi di Cantarana. In effetti qualche perdita dalla “piscina”, anche se minima, c’era stata. Quanto bastava per alzare il livello di attenzione in loco da parte dell’Acquedotto, dell’Ato 5 di cui fa parte, l’Arpa, Province di Asti e Vercelli.
Nel 2004 venne rilevato un inquinamento superficiale che non penetrò nella prima falda (è profonda da 3 a 7 metri) e un super perito del Politecnico di Torino dichiarò: «Non c’è pericolo per l’Acquedotto, ma la perdita non avrebbe dovuto esserci». Vennero posizionati a spese Ato 5 e Acquedotto del Monferrato 17 piezometri gestiti dall’Arpa. Da allora il livello di attenzione è sempre stato alto e nel 2013 Arpa Piemonte, Autorità d’Ambito Astigiano-Monferrato e Acquedotto del Monferrato rinnovarono la convenzione di vigilanza radiologica sulla grande rete idrica firmata anni prima. Già da prima che la vicinanza di Eurex fosse un problema, l’Acquedotto pescava acqua a una profondità tra 180 e 200 metri. Di certo una profondità tranquillizzante, come certificano le decine di trimestrali analisi dell’Arpa, tutte a esito negativo. Ma dal 2022 rientreranno in Italia i rifiuti radioattivi ripuliti in Germania e dovrà essere attivo il Deposito unico nazionale di scorie radioattive, che nessuna Regione vuole. E se dovesse essere a Saluggia il tema tornerà “caldo”.
A proposito di alleanze in nome dell’oro blu, strategico è stato il ruolo dell’Acquedotto del Monferrato nella realizzazione dell’interconnessione con gli Acquedotti di Asti e Valtiglione che da 5 anni può fornire loro fino a 150 litri/ secondo, attenuando eventuali criticità. Il nuovo impianto è costato 20 milioni, ripartiti a seconda della dimensione di ciascuna rete idrica. L’Acquedotto del Monferrato ha personalità giuridica e autonomia patrimoniale con sede operativa e legale in via Ferraris a Moncalvo, nel palazzo Manacorda, con la facciata in mattoni in stile tardo Barocco piemontese. L’edificio nella sua storia ha visto anche un curioso utilizzo: per sette mesi dopo la fine della guerra nel 1945 fu la sede di una casa da gioco promossa da un conte partigiano, Carlo Gabriele Cotta da Robella, che poi portò la licenza al casino di Saint-Vincent (vedi Astigiani n. 14 del dicembre 2014).