Fu Badoglio a volere fare entrare nella trattativa quel lontano cugino che sapeva l’inglese
In tutte le storiche fotografie che immortalano la firma dell’armistizio che avrebbe portato all’annuncio dell’8 settembre 1943, sotto una tenda tra gli ulivi di Cassibile, nella piana vicina a Siracusa, si vede, accanto al generale Castellano, in abiti borghesi che firma a nome del governo italiano e ai generali americani e inglesi dalla sguardo compiaciuto, una figura alta, in abito chiaro con una penna stilografica tra le mani.
È il console Franco Montanari, un moncalvese che si è ritrovato a essere tra gli attori di quell’avvenimento storico destinato a mutare le sorti dell’Italia nella Seconda guerra mondiale.
Montanari era a Cassibile perché conosceva perfettamente l’inglese (la madre era di origine americana) e fu quindi prezioso interprete e consigliere del generale Castellano che era stato mandato a trattare con gli anglo americani pur parlando l’italiano.
La trattativa abbozzata dal 10 agosto del 1943 si concluse il 3 settembre con la firma dell’armistizio “corto” a Cassibile.
Montanaro fu tra i protagonisti di quei giorni e di una vicenda iniziata con un rocambolesco viaggio da Torino verso Lisbona, via Madrid. Secondo molti storici, che hanno ricostruito quei giorni convulsi, ricchi di colpi di scena, fraintendimenti e mistificazioni, riuscì in molti casi a smussare le spigolose e umilianti condizioni armistiziali poste dagli anglo americani, mettendo a frutto le sue doti di diplomatico.
Ma chi era questo intellettuale raffinato prestato alla politica estera italiana?
Nella biografia “Franco Montanari” edita dal Comune di Moncalvo nel 1994, il senatore di Castell’Alfero Giovanni Boano inizia il primo capitolo definendo Montanari “un nome illustre e tragico”. Boano traccia il profilo dell’ambasciatore come una distinta figura di gentiluomo d’altri tempi che finì il percorso terreno nel 1973 a soli 68 anni nominando il Comune di Moncalvo suo erede universale.
Quello dei Montanari è un cognome diffuso in tutt’Italia, con prevalenza nel Lombardo-Veneto e in Emilia. I Montanari moncalvesi discendono in linea diretta dal ramo mantovano, strettamente imparentato con quello emiliano e veneto.
Il primo Montanari a entrare nella storia è Leonida, carbonaro ghigliottinato nella Roma papalina di Leone XII, assieme al compagno Targhini, colpevoli di avere ucciso a pugnalate nel 1825 il principe Filippo Spada, carbonaro pentito che li aveva denunciati alla polizia pontificia.
La figura di Leonida è stata immortalata dall’attore Robert Hossein che lo impersonò a fianco di Claudia Cardinale, Nino Manfredi, Alberto Sordi e Ugo Tognazzi, nel film cult del 1969 “Nell’anno del Signore”, primo della trilogia del regista Luigi Magni dedicata al rapporto tra popolani, aristocratici e clero nella Roma dell’Ottocento. Il sacrificio dei due patrioti è ricordato nella lapide di piazza del Popolo che viene ripresa nella scena finale del film, tra le auto e la gente che ora passa indifferente.
L’epopea dei Montanari nel Risorgimento
Il sacrificio di Leonida raccontato al cinema
Un altro personaggio risorgimentale è il conte Carlo Montanari, impiccato nel 1853 nella fortezza di Belfiore, riconosciuto “membro di società segreta rivoluzionaria e diffusore di cartelle di prestito mazziniane” secondo le accuse della polizia austriaca di Radetzky. Alla madre del conte venne respinta la richiesta di commutazione della pena, e le vennero addebitate le spese processuali e negate le esequie del figlio in terra consacrata.
A Moncalvo arriva nel 1848 un esule
La storia della famiglia tocca Moncalvo quando un Montanari di Mantova dal singolare nome, Caro Amico, vi approda nel 1848, dopo la sconfitta di Custoza, al seguito delle truppe piemontesi in ritirata dal Lombardo-Veneto. Al profugo viene assegnata la casa del segretario comunale, di cui poco dopo sposa la figlia che gli darà sette figli.
Caro Amico Montanari non era tipo da starsene tranquillo nella quiete moncalvese a curare la numerosa prole e nel 1866 indosserà ancora la divisa di ufficiale e andrà a guadagnarsi il grado di maggiore nella terza guerra di Indipendenza. Due anni dopo, a soli 47 anni, una malattia gli sarà fatale. L’ultimo dei suoi figli, nato nel 1863, diventerà generale e segretario particolare di Cadorna. Cadrà in trincea nel 1915 e gli sarà concessa la medaglia d’oro al valor militare. La morte del generale avvenne a Plava, sull’Isonzo. La cronaca racconta che stava parlando con dei soldati. Il destino volle che un cecchino austriaco lo prendesse di mira riuscendo a colpirlo. La pallottola passò in un varco delle difese di sacchetti di sabbia. Un colpo preciso e mortale. Il generale Carlo Montanari morì dopo due giorni di agonia. La vedova, Hellen Day, figlia di un banchiere di Boston, che il generale aveva conosciuto durante un ballo a Parigi e convinta a seguirlo come moglie in Italia, lasciò Moncalvo dopo avere donato un’ingente somma a favore delle famiglie povere del paese e tornò dalla famiglia paterna con i tre figli.
Come spesso capita alle famiglie dei militari anche i tre figli del generale erano venuti al mondo dove il padre prestava servizio in località diverse. Franco nacque nel 1905 a Vibo Valentia, seguì Emma, che diventerà direttrice didattica di una scuola elementare in Florida, e nel 1913 Valerio che con la sorella sceglierà nel 1930 la cittadinanza americana. Valerio diventerà giornalista del Washington Post, e nel corso della seconda guerra mondiale, il Dipartimento di Stato lo “preleva” e al termine del conflitto lo invia nei paesi del Nord Africa a gestire una parte del Piano Marshall. Resterà al Dipartimento di Stato fino alla pensione, scrivendo editoriali di politica estera sui giornali americani.
Il padre generale colpito nel 1915 in trincea da un cecchino
I tre fratelli Montanari erano molto legati tra loro. Da bambini, la madre, ad anni alterni, li inviava con la governante a Moncalvo per trascorrere le vacanze estive nella casa di via XX Settembre. Decenni dopo, ormai pensionati, Emma e Valerio ritornarono sovente in quelle che erano state le “strade di polvere monferrine” della loro infanzia, parole poetiche scritte dallo storico Francesco Picco nella monografia sul generale che decenni dopo titoleranno l’omonimo libro di Rosetta Loy, vincitore del Premio Campiello. I due fratelli americani visitarono di frequente la Fondazione Montanari e il cimitero che ospita le salme del padre e della madre. Morirono a distanza di pochi anni l’uno dall’altro alla fine del secolo scorso. Riposano negli States. Più movimentata la vita del fratello ambasciatore, caratterizzata dalle trattative per l’armistizio e dall’impegnativa carriera diplomatica. Torniamo appunto all’armistizio. L’atto di resa venne firmato alle 17.20 del 3 settembre in una tenda da campo allestita in un uliveto di Cassibile. Cerimonia breve e semplice con la parte italiana rappresentata da Castellano, Montanari e, alle loro spalle nella storica foto, due ufficiali dello Stato maggiore italiano. La delegazione alleata era guidata dal capo di Stato Maggiore Usa Bedell Smith. Firmate le tre copie del documento entrarono nella tenda il leggendario “Ike” Eisenhower, capo di Stato Maggiore alleato e futuro presidente Usa, accompagnato da Harold MacMillan, che diventerà premier inglese.
Eisenhower sa che quella firma farà uscire dallo scenario bellico il più importante alleato della Germania nazista e finalmente saluta i due italiani con tono familiare “Dear Castellano, dear Montanari…”.
Si era arrivati a quella firma in maniera tutt’altro che limpida e lineare. Ci furono più fronti di trattativa e più attori sulla scena. Che la guerra per l’Italia fosse perduta era ormai nella convinzione di tanti. Dopo il 25 luglio con l’arresto di Mussolini e la caduta del fascismo c’era stato il sibillino “la guerra continua” di Badoglio, ma i tedeschi temevano che la monarchia e le forze armate italiane non avrebbero mantenuto i patti e le alleanze.
Aveva tentato di prendere contatti con gli Alleati per avviare trattative di pace la principessa Maria José, bloccata dal re che la spedì con i quattro figli a Sant’Anna di Valdieri.
Si muoveva il Vaticano attraverso nunzi e ambasciatori e ci provarono gli alti comandi pasticciando non poco.
Il tentativo che coinvolge Montanari parte il 12 agosto 1943 con Vittorio Emanuele III che dà il via libera a Pietro Badoglio e al capo di Stato Maggiore generale Vittorio Ambrosio. I due si fidano poco l’uno dell’altro, tanto che scelgono due uomini a loro fedeli, diversissimi per carattere e cultura ma che finiranno con rivelarsi complementari ed estimatori l’uno dell’altro. Sono il generale a due stelle Giuseppe Castellano, toscano di nascita da famiglia siciliana, un militare dal temperamento brillante, intraprendente, che si era messo in luce nella campagna di Jugoslavia. Gli storici lo considerano “uomo di Ambrosio”. Per non lasciare mano libera ad Ambrosio, Badoglio cala sul tavolo una carta singolare, un suo cugino alla lontana, Franco Montanari, diplomatico in carriera da 11 anni, laurea a pieni voti a soli 22 anni ad Harvard in Storia della Letteratura americana e inglese. Montanari aveva optato per la cittadinanza italiana nel 1930 lasciando Boston per Perugia, dove si era laureato in Scienze politiche, e 2 anni dopo vinse il concorso di ammissione nel corpo diplomatico. In quel periodo del 1943 viene richiamato in patria senza ulteriori spiegazioni.
Quei documenti dell’armistizio nascosti nel fodero della giacca a Lisbona
Dunque, un militare rappresentante ufficiale del governo italiano affiancato da un console con funzione di interprete, un uomo colto dal carattere riservato, con modi eleganti forgiati nel New England dove ha passato l’adolescenza e i primi anni della maturità. Ma anche con modi semplici con cui si rapportava quando era a Moncalvo. Il fabbro Mario Graziano era tra i suoi amici. Castellano e Montanari vengono convocati a Roma per questa missione “segretissima” e dai contorni tenuti volutamente sfumati. I due non si conoscevano. Non tutti i particolari sono citati nei libri di storia, ma appaiono in quello del senatore Boano, che potè trarli, con il beneplacito di Giulio Andreotti, dall’archivio storico ancora secretato della Farnesina. Ecco ciò che è stato possibile ricostruire. La sera stessa del 12 agosto 1943 Castellano e Montanari partono in treno da Torino verso Madrid aggregati a una delegazione commerciale del ministero degli Esteri che deve incontrare colleghi di ritorno dal Cile. Il viaggio attraversa la Francia collaborazionista di Petain e poi passa nella Spagna di Franco, che da Hitler e Mussolini aveva avuto gli aiuti decisivi per vincere dal 1936 al ’39 la guerra civile contro i “rossi”, ma si era poi ben guardato dall’entrare in guerra a fianco dei potenti amici, preferendo la neutralità formale che lo farà restare al potere in Spagna anche a guerra mondiale finita, fino alla morte, per decenni. Il nome di Montanari è inserito nel passaporto collettivo della delegazione, quello di Castellano nell’elenco dei funzionari del ministero sezione Cambi e Valute. Gli si inventa il nome di dottor Raimondi, e come tale viene presentato a Montanari.
Tre giorni di viaggio per raggiungere Madrid e mezza giornata libera prima di proseguire verso Lisbona. La comitiva di copertura inganna il tempo visitando il Prado. Montanari dirà che davanti a un quadro di Goya Castellano si svela. “La prego di farmi da interprete dall’inglese. Io non sono il signor Raimondi, ma il generale Castellano. Ho bisogno prima di partire di vedere a ogni costo l’ambasciatore Samuel Hoare”. La richiesta ha una motivo: Castellano ha in tasca soltanto quattro parole di presentazione dell’ambasciatore inglese in Vaticano: “Vi prego di ricevere il latore della presente”. Troppo poco per un accredito diplomatico di cui il generale ha bisogno per presentarsi all’ambasciata inglese di Lisbona, città scelta dagli alleati per avviare le trattative segrete. Montanari conosce Hoare, un vecchio amico di suo padre. La sera del 19 agosto i due sono a Lisbona. Riescono a non dare nell’occhio ed entrano in contatto con l’ambasciatore Campbell che li presenta al maggiore generale Walter Bedell Smith, braccio destro di Eisenhower, il capo dell’Intelligence inglese Kenneth Strong e l’incaricato d’affari Usa, George Kennan. Dalle 22,30 alle 7,30 le parti si confrontano con diffidenza; Montanari è costretto ad abbassare lo sguardo quando Campbell nega la stretta di mano a Castellano.
Gli alleati vogliono la resa, non accettano condizioni. La loro proposta è racchiusa in 12 articoli in due paginette dattiloscritte. Prendere o lasciare: la resa deve essere incondizionata, senza accordi per la partecipazione dell’Italia nella guerra a fianco degli alleati. Flotta e aviazione si devono consegnare agli alleati. Bedell Smith si innervosisce allo scoprire che Castellano non ha il potere di firma. I malumori e le incomprensioni sono attutiti dalla presenza di quel console con madre e laurea americane. Castellano tenta di ottenere rassicurazioni che gli Alleati sbarcheranno forse in centro Italia in modo da impegnare le divisioni tedesche e offrire agli italiani il pretesto militare per dichiarare la fine delle ostilità contro gli anglo-americani.
Nel Dopoguerra le amare annotazioni sui libri di storia della sua biblioteca
Gli alleati non svelano i piani che porteranno allo sbarco di Salerno e vogliono saperne di più sulla difesa di Roma dai tedeschi. Il generale Castellano ottiene solo la salvaguardia della vita per i Savoia e il governo con l’assicurazione che non sarebbe stata bombardata la via di fuga nel caso avessero deciso di lasciare Roma. Concessione che la dice lunga sulla fuga decisa all’ultima ora. All’uscita dall’ambasciata Montanari disse a Castellano “Speriamo per questa povera Italia”. Il console moncalvese tornò altre due volte all’ambasciata, sia per farsi cucire nel fodero della giacca la traduzione dell’armistizio da portare a Roma, che per acquisire la potente radio ricetrasmittente e il cifrario per concordare con Roma l’accettazione dei dodici articoli. La triangolazione doveva coinvolgere Londra, Roma e Algeri, sede del comando alleato. Montanari faticò molto a trovare nelle librerie di Lisbona tre copie di un libro poco noto, da inviare nelle tre sedi e da cui scegliere una frase in codice come chiave del cifrario. La scelta cadde su L’omnibus del Corso, dello scrittore fiorentino Bino Samminiatelli. Ma Lisbona pullulava di spie e la missione italiana non era passata inosservata. La Gestapo la teneva d’occhio e durante una gita a Cascais in attesa dell’incontro di copertura con la missione di ritorno dal Cile, sull’auto dell’ambasciata italiana Montanari era stato fatto accomodare tra due signore bionde, probabilmente al soldo dei tedeschi. Gli chiesero perché con quel caldo torrido non si togliesse la giacca. Montanari rispose che era abituato al calore del Pacifico e di non poter sopportare il freddo dell’Atlantico. Anche i servizi inglesi vigilavano affinché Montanari non facesse il doppio gioco.
Sugli avventurosi fatti di Lisbona e dei rapporti con l’ambasciata inglese, sono state scritte migliaia di pagine e per chi volesse conoscerne i dettagli è prezioso un libro ormai fuori catalogo “Storia di un armistizio” di Ivan Palermo, uno dei tanti che Montanarì lasciò alla Biblioteca di Moncalvo. Quasi ogni pagina è punteggiata da sue annotazioni che chiariscono argomenti controversi, come quello a pag. 276 dell’abbandono del Re e di Badoglio. “Non si trattava di fuga… era assolutamente necessaria per i motivi esposti a pag 273”. Dove, tra l’altro lo storico scrive “non conveniva agli alleati correre il rischio che i tedeschi catturassero il re e il governo”.
In un altro testo, “Badoglio” di Silvio Bertoldi, compare a margine una nota di disappunto di Montanari su Badoglio…“Mi ha spremuto come un limone e gettato via”.
La vicenda personale di Franco Montanari dopo l’8 settembre si fa confusa. Gli americani lo trattengono a Tunisi e lo utilizzeranno come interprete durante il periodo del Regno del Sud. Non salì comunque al Nord dove i fascisti e i tedeschi lo avrebbero certamente accusato di tradimento. La sua biografia ufficiale riprende subito dopo la guerra quando Montanari ricompare tra i ruoli della Farnesina: gli chiesero quale destinazione preferisse. La risposta fu “In qualunque degli 85 Paesi con cui l’Italia ha relazioni diplomatiche, ma non in Germania, se posso scegliere gradirei Londra”.
In due anni all’ombra del Big Ben fece crescere l’Istituto italiano di cultura come emanazione dell’ambasciata. Tra un incarico e l’altro, durante le frequenti visite a Moncalvo un giorno del 1968, venne in negozio dalla madre di chi scrive (Angiolina Tasso, ndr) che da poco aveva nominato sua “procuratrice speciale” incaricata presso il Consolato italiano di Zurigo dell’esecuzione testamentaria a favore del Comune di Moncalvo. Alla richiesta di particolari sulla firma di Cassibile, Montanari quasi scherzò: “Quelle firme sono di Castellano e Bedell Smith, io ho solo prestato la mia stilografica al nostro generale”. E poi facendosi serio: “Sia a Lisbona che a Cassibile ho provato tristezza, il senso amaro della disfatta”.
Diplomatico tra Asia e Africa. Lavora con De Gasperi
Gran parte degli incarichi di una carriera durata dal 1932 al ’67 con il massimo grado di ambasciatore sono stati svolti in situazioni difficili, in Paesi politicamente instabili, o in guerra. Tra le sedi principali: Gibuti, 3 anni a Honolulu e dopo Pearl Harbour rientro a Roma, a Teheran nel ’51, nel ’53 a Tokio, nel ’57 doppia reggenza delle ambasciate di Liberia e Sierra Leone. Infine, capo di delegazioni italiane nei paesi del Patto di Varsavia. Montanari è stato interprete e consigliere diplomatico di quattro presidenti del Consiglio: Badoglio, Bonomi, Parri e De Gasperi. Per quest’ultimo collaborò a scrivere il testo dell’intervento con cui l’Italia chiedeva condizioni economiche meno onerose nella conferenza del 19 agosto ’46 a Parigi. Condizioni contenute nei 44 penalizzanti articoli nell’armistizio lungo che Badoglio firmò a Malta, 40 giorni dopo Cassibile. La ripresa dell’Italia fu forse meno dura anche perché un mese prima di Parigi Montanari scrisse a Bedell-Smith chiedendogli in nome della reciproca stima nata nella notte di Lisbona e riaccesa a Cassibile di intercedere presso il governo americano. Il quadro politico internazionale stava mutando, alla guerra combattuta si sarebbe sostituita la guerra fredda tra i due blocchi che erano divisi dalla “cortina di ferro” evocata da Wiston Churchill.
Il diplomatico Montanari visse intensamente quegli anni fino al 1968. Dopo tante missioni e tanti incontri decise che il suo ultimo viaggio avrebbe avuto destinazione Moncalvo. E con un gesto sorprendente donò a questo piccolo comune il suo patrimonio (non aveva figli) affinché nascesse un centro culturale che portasse il nome del padre, quel generale morto in trincea nel 1915.