Di Gian Paolo Squassino
Era una mattina di ottobre […].
La nebbia riempiva la valle sottostante […]. In cima al colle qualche timido raggio di sole riusciva a fatica a farsi strada nella coltre lattiginosa […]. Anche quella mattina i miei cani, ancora assonnati, si avvicinarono lentamente con passo apparentemente affaticato ma, appena pronunciate le fatidiche parole: «Forza, una bella corsetta!», schizzarono galoppando nell’ampio prato antistante. Li osservo sempre con piacere, vedendoli così felici di vivere! Il vecchio, massiccio muraglione del castello […] era lì, come ogni mattina, a racchiudere nei suoi anfratti ricordi di chissà quante avventure passate di dame, cavalieri, nobili e povera gente.
Come al solito anche quella mattina, dopo la consueta corsa, li salutai chiamandoli per nome e come sempre risposero agitando la coda e drizzando le orecchie. La prima tappa, appena uscito dal viale di casa mia, è diventata ormai una consuetudine alla quale non riesco più a rinunciare. Ogni giorno, infatti, prima di intraprendere qualsiasi attività lavorativa, faccio una capatina nel piccolo cimitero del paese […]. Quella mattina tutto si svolgeva come al solito e, risalendo la breve salita della Rimembranza, osservavo le piccole lapidi appoggiate al terreno, memoria perenne di giovani caduti per la Patria nella Grande Guerra. Era giorno di caccia, segnalato dalle voci ululanti dei segugi che giungevano dalla valle sicuramente intenti a inseguire, nella spessa coltre di nebbia, le prede spaventate […]. Non riuscirei più a iniziare una giornata di lavoro senza quei pochi attimi di meditazione nella tomba di famiglia per riassumere, alla presenza di mio padre che lì riposa, il giorno appena trascorso e quello che sta per iniziare. Non avevo mai pensato e creduto che una cappella funeraria, con i suoi abitanti ormai immobili nel tempo, riuscisse a infondere nell’animo di un vivo una tale intensità di sentimenti da renderlo forte e capace di superare le difficoltà quotidiane con serenità e disinvoltura […]. Anche quella mattina stavo raggiungendo la cappella di famiglia sempre accompagnato, in lontananza, dagli ululati e, ogni tanto, dagli spari delle doppiette. Nobile e antica arte la caccia, ormai ridotta a penosa e bistrattata attività sportiva. Ma sarà poi giusto uccidere un altro essere vivente solo per praticare quella che viene oggi definita un’attività sportiva? Quella mattina mi ponevo questa domanda mentre, come sempre, sospingevo un’anta della porta d’ingresso della tomba. Perché uccidere e, soprattutto, perché uccidere per sport? Ripetevo la domanda a me stesso ma anche, inconsciamente, agli abitanti della tomba che mi guardavano immobili dalle fotoceramiche ovali […]. Improvvisamente due occhi mi fissarono con intensità, accompagnati da un ritmico sbattere di palpebre. Avevo le traveggole? Mi tolsi gli occhiali e mi fregai gli occhi per un attimo, non credendo a ciò che avevo appena visto. Guardai nuovamente verso la grossa ciotola che troneggiava al centro del pavimento della tomba, guarnita da grandi foglie e ciclamini rossi e bianchi. Rividi quegli occhi neri, distanti fra loro e al di sopra, semicoperto da un cespo di fiori di ciclamino, un lungo orecchio dritto che si muoveva a intermittenza, ruotando il padiglione in varie direzioni […]. La bella lepre mi fissava e, in quel momento, l’impressione che mi dava non era di paura, ma di rassegnazione. Forse i miei morti, in quel modo, mi avevano risposto offrendo alla povera lepre una via di salvezza all’interno della loro casa silenziosa. Nessuno avrebbe osato entrare e imbracciare il fucile in quel luogo sacro! Intanto, in lontananza, i latrati dei segugi si stavano perdendo fino a scomparire. Guardai ancora la lepre che pareva avere capito tutto e sembrava godere di quell’insperata tregua all’interno del sicuro riparo nel piccolo cimitero di campagna […]. Continuò a fissarmi ruotando i padiglioni verso di me, poi abbassò un orecchio sollevando le zampe anteriori.
lnterpretai quei gesti come un segnale di saluto, richiusi delicatamente l’anta della cappella lasciando un piccolo spiraglio aperto e mi allontanai alla chetichella. Prima di girare l’angolo mi voltai ancora una volta verso l’ingresso della tomba: tutto era immobile, nessuno sapeva della presenza della lepre in quel luogo, solo io e le anime dei defunti.
Una vita salvata!