Slanguì pei d’in bigàt, affamato come un baco da seta. Il detto fa riferimento all’allevamento dei bachi da seta, attività molto diffusa anche nell’Astigiano fino all’inizio degli Anni Cinquanta. I bachi, adagiati sulle stuoie, mangiavano in continuazione le foglie dei gelsi, per cui chi ha sempre molto appetito viene paragonato a loro.
Truvè ’l pecc ambisà, trovare le mammelle (della mucca) sporche di sterco. Il pecc è in realtà quello che in linguaggio scientifico viene chiamato seno lattifero della mucca, da cui si dipartono i capezzoli, in astigiano burìn. Pecc è anche sinonimo di facilone, sciocco, credulone, perché si lascia mungere, si lascia sfruttare. Veniamo a questa espressione, legata alla civiltà contadina, all’epoca in cui ogni cascinale aveva una stalla con bestie da lavoro, soprattutto buoi e mucche.
Capitava a volte che la mucca, coricandosi nel giass (la lettiera di paglia) si sporcasse le mammelle di sterco: quando il vitello veniva portato accanto a lei per essere allattato si avvicinava con foga in quanto affamato, ma subito si ritraeva. La poppata non poteva iniziare fino a quando le mammelle non erano state lavate. Il modo di dire veniva usato per indicare un’operazione andata male, una speranza delusa, un’aspettativa che sembrava a portata di mano e non si era concretizzata. Quando ero adolescente e trascorrevo le vacanze estive a Migliandolo, capitava che qualche rara notte rientrassi prima della solita ora antelucana: al mattino mio nonno mi prendeva in giro chiedendomi:«Come mai questa notte sei arrivato così presto? T’ati truvà’l pecc ambisà?».
Rimaniamo nella stalla per ricordare un altro detto, padròn ’d la vaca e du siòn, ma nen ’d lacèla, padrone della mucca e dello sgabello ma non di mungerla. Un detto arguto, efficacissimo, di un’ironia graffiante, usato più che altro per “bollare” quei mariti che si facevano condizionare dalla moglie: erano virtualmente i padroni di tutto, ma non potevano disporre di nulla senza il placet della consorte. Ma può avere anche altre applicazioni e più in generale indica chi non può disporre concretamente della propria volontà.
L’ultima volta che l’ho sentito è stato nel corso di una discussione politica per commentare la designazione di Angelino Alfano alla carica di segretario del Pdl. Il siòn era uno sgabello a tre gambe, infilate in un piano generalmente rotondo, e veniva usato esclusivamente per mungere. Andè a rubè per fè limosna, andare a rubare per fare l’elemosina. Un’espressione particolarmente efficace per descrivere lo stato di indigenza di chi per fare del bene è costretto a rubare, ma anche per stigmatizzare la vanagloria di chi accetta qualsiasi compromesso pur di mantenere un certo tenore di vita.