domenica 16 Febbraio, 2025
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Memorie a tavola

Cascine maiali e masacrìn

Il rito contadino dell’uccisione del maiale

La vendemmia, la raccolta e la spremitura delle olive, l’uccisione del maiale, la mietitura e la trebbiatura del grano, la sfogliatura del granturco rappresentavano sorta di “baccanali dei contadini”, in cui confluivano lavoro e fatica, certo, ma anche festa, ritualità e socialità. La macellazione del suino, in particolare, costituiva in gran parte delle cascine piemontesi di collina e di pianura l’avvenimento più importante di fine autunno. Era il coronamento di molti mesi spesi ad allevare e ingrassare l’animale per ricavare, ora, una quantità di prodotti che sarebbero stati per tutto l’anno successivo un’importante fonte di alimentazione.

Il cinema ha raccontato questo rito nell’affresco storico del regista Bernardo Bertolucci “Novecento” del 1976 con Gérard  Depardieu nel ruolo di Olmo impegnato nella grande cascina emiliana a uccidere il maiale con tutti gli altri contadini.

Anche in Piemonte nel giorno stabilito mesi prima, nei mesi di novembre o dicembre, in un paesaggio gelido e spesso già innevato, giungeva il masacrìn con il suo aiutante. Il maiale, che lanciava grugniti forse conscio per un’ancestrale precognizione della fine ormai vicina, veniva trascinato su una panca. Il norcino con abile mossa lo scannava e le donne approntavano bacili e bacinelle nelle quali veniva raccolto religiosamente il sangue che sgorgava dalle carotidi recise. Ecco il primo regalo dell’animale: il sangue, sbattuto con un poco di latte, dava vita ai sanguinacci (brod) oppure vi si cucinava, con cipolle e spezie, una torta salata. Poi il proprietario del maiale e i suoi familiari e vicini, svelti ed energici, lo sollevavano e lo issavano con una specie di carrucola, a testa in giù e a zampe posteriori divaricate, su un alto e robusto cavalletto. Una volta aperto e diviso nelle due metà, si estraevano gli organi interni: fegato, cuore, rognoni e intestini, che venivano subito puliti e messi da parte per un consumo in tempi molto brevi.

Con queste frattaglie e le parti deperibili spesso si confezionavano le grive (chiamate anche frisse) con polmone, fegato, cuore, pasta di salsiccia, parmigiano e molte spezie, tra cui le immancabili bacche di ginepro, il tutto avvolto nell’omento.

Nel frattempo era stato apprestato un calderone di acqua bollente utile per raschiare via con un coltello affilato le setole dalla spessa e ispida cotica. Le mezzene, quindi, si lasciavano indurire nel freddo delle ore notturne, per riprendere il lavoro il giorno successivo con le delicate operazioni di sezionamento e lavorazione delle carni. Messo da parte il pane di grasso per il lardo (ricavato dal tessuto adiposo sottocutaneo del collo, del dorso e dei fianchi dell’animale, dove è presente in uno strato più spesso), il norcino disossava le carni e le selezionava a seconda della destinazione: le parti più pregiate per la salsiccia, i cacciatorini e i salami crudi, quelle più nervose (come i muscoletti della spalla o la carne rossa del collo) con un po’ di cotica e lardo per i salami cotti e i cotechini. Fondamentale – e costituiva la “firma” esclusiva di ogni masacrin – la miscela di spezie (le droghe) utilizzata per la concia. Passavano in cantina il lardo, opportunamente salato e massaggiato, e gli insaccati da stagionare; si avvolgeva in ampie matasse la salsiccia; si mettevano al freddo la lonza e le cosce per cucinare qualche giorno dopo buoni arrosti. La sera, terminate le lavorazioni, ecco il rito della cena, una vera festa comunitaria che coinvolgeva parenti, amici e quanti avevano contribuito all’allevamento del suino e alla elaborazione dei prodotti. Durante la cena non mancavano elogi del proprio maiale, confronti con quello dei vicini, stime iperboliche sul valore pecuniario, scherzi e battute, con la complicità delle abbondanti bevute di barbera.

Oggi le antiche pratiche contadine – tanto nella fase dell’allevamento e dell’ingrasso quanto in quella della macellazione che deve avvenire solo in strutture autorizzate e controllate – sono perdute, così come le numerose razze autoctone un tempo presenti un po’ in tutte le zone del Paese. Le razze che oggi si lavorano sono anch’esse ormai “globalizzate”: si tratta per lo più di suini Large White, Landrace e Duroc, oppure di ibridi frutto di incroci, non di rado allevati all’estero e nutriti a base di cereali e integratori proteici.

Si assiste tuttavia in questi anni al rilancio di razze tradizionali tipiche soprattutto nell’Italia centro-meridionale, oggetto di piccoli allevamenti semibradi che sfruttano la rusticità degli animali. È tutelato da un Consorzio che sta lavorando per ottenere la Dop, il Gran Suino Padano, la cui zona di origine storica vanta un patrimonio plurisecolare di tradizioni e competenze. Conquista della contemporaneità è la distinzione tra suini “pesanti”, intorno ai 200 chili, di taglia piuttosto grande, struttura compatta e congrua percentuale di grasso, destinati alla lavorazione salumiera, e suini “leggeri”, da cui si ricava carne da consumare fresca.

In Italia il consumo di carne suina è al secondo posto dopo quella bovina. Va ricordato che, grazie a ricerche genetiche e a nuove tecnologie di allevamento, nelle carni dei maiali “leggeri” sia il grasso di copertura sia quello di infiltrazione sono diminuiti di parecchi punti rispetto al passato, a fronte della succulenza e gustosità delle carni, che contengono meno acqua e una maggior quantità di proteine e di acidi grassi insaturi.

L'AUTRICE DELL'ARTICOLO

Paola Gho e Giovanni Ruffa
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Astigiani è un'associazione culturale aperta, senza scopo di lucro, che ha bisogno del sostegno di altri "Innamorati dell'Astigiano" per diffondere e divulgare la storia e le storie del territorio.
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