Con settembre riaprono le aule delle scuole, una volta invece era ancora l’ultimo mese di vacanza. Tutti entravano in classe dal primo ottobre e così è stato fino al 1976. Poi una legge ha anticipato l’inizio dell’anno scolastico e lasciato alle Regioni la scelta della data.
In italiano qualcuno ancora chiama “remigini” i bambini di prima elementare perché il primo ottobre si festeggia san Remigio.
In piemontese invece quando un bambino arrivava in età scolare si diceva che cominciava la prima mignìn, (il mignolino, il più piccolo delle cinque dita) e il consiglio che si dispensava scherzosamente allo studente in erba era di solito stüdia che ‘t sapi, studia che poi zappi, invece di stüdia che ‘t sapij, studia in modo da sapere. Un divertente gioco di parole.
Fino agli Anni Venti nei centri più piccoli le scuole avevano una sola pluriclasse di prima e seconda elementare, poi era giocoforza spostarsi nei paesi più grossi, ovviamente a piedi: anche per questo motivo, oltre alla necessità di aiutare la famiglia nel lavoro agricolo, molti smettevano. Son rivà fin a la sgunda e peu a crava a mangiami u libri, sono arrivato fino alla seconda e poi la capra mi ha mangiato il libro: l’ho sentito dire tante volte con ironia dagli anziani nati all’inizio del secolo scorso, che con altrettanta ironia affermavano di aver facc el scoli ati, frequentato le scuole alte, perchè nei paesi di collina l’edificio scolastico era di solito nel concentrico, quindi in alto. Se non altro, in questi due anni imparavano a scrivere in modo leggibile: ricordo ancora il bel corsivo dei miei nonni, che pure non erano andati oltre la seconda, e si stupivano che ‘l medic – con tanti anni di studi alle spalle – avesse una scrittura tanto incomprensibile. Per fortuna i farmacisti riuscivano a decifrare le indicazioni delle ricette. In proposito, un’espressione che ho sentito ancora usare qualche volta quando ero bambino è andè a spedì ij papè, andare a consegnare le ricette delle medicine (letteralmente, le carte), in quanto nei paesi spesso non c’era la farmacia e si ricorreva al corriere che ogni giorno andava in città.
Tornando alla pubblica istruzione, dagli Anni Cinquanta in poi divenne più accessibile anche in campagna, garantita ovunque fino alla quinta elementare; nonostante nei piccoli centri ci fosse una maestra per due o tre classi e chi abitava nei cascinali più lontani non avesse certo a disposizione lo scuolabus. Siccome, a differenza di oggi, chi non aveva appreso quanto richiesto dal programma veniva inesorabilmente bocciato, del pluriripetente si diceva: ”U spusa peu a maestra”, “Sposerà poi la maestra”, quando finalmente riuscirà a finire la quinta. Anche ai miei tempi, quando l’obbligo di frequenza scolastica era fissato al quattordicesimo anno di età, capitava che qualche allievo particolarmente “refrattario” all’insegnamento festeggiasse le quattordici candeline contemporaneamente al conseguimento della licenza elementare.
A parte questi casi particolari, molti ragazzi della mia generazione hanno avuto la possibilità di proseguire negli studi e di raggiungere il diploma di scuola superiore o la laurea: proprio per questo, quando combinavamo qualche stupidaggine gli anziani commentavano: “Pü tant a stüdiu e pü gnurant a venu”, “Più studiano e più diventano ignoranti”.