sabato 27 Luglio, 2024
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1915

Venti di guerra dalla Libia al Piave che mormorava

Un secolo fa, nella primavera del 1915 si vivevano giorni tumultuosi. Non si erano ancora spenti gli echi dell’avventura bellica di Libia del 1911 che l’Europa era ripiombata da qualche mese, nel 1914, in quella che già si delineava come la grande guerra. La posizione italiana in quegli anni era stata ondivaga tra il rispetto dell’adesione alla triplice alleanza con Germania e Austria, e le offerte di Inghilterra e Francia desiderose di aprire un fronte sud contro gli imperi centrali. I cattolici e i socialisti erano in maggioranza per la neutralità, pur con diverse motivazioni, ma non mancavano i distinguo e le fughe in avanti a favore della guerra giudicata come atto finale del risorgimento. Anche ad Asti si vivono dibattiti e tensioni, testimoniate dai giornali dell’epoca. Pochi mesi e poi tutto sarebbe stato deciso: il 24 maggio, il Piave mormorava…

Nel 1911 partirono dal Casermone verso Tripoli i bersaglieri del 9° reggimento

 

Un secolo dopo si torna a parlare di Libia dal punto di vista militare e ci si prepara alle ricorrenze del centenario dell’entrata dell’Italia nella Grande Guerra, il 24 maggio 1915. Come si vissero quegli anni d’inizio del Novecento che portarono al primo grande conflitto mondiale? E come gli avvenimenti internazionali furono vissuti ad Asti? L’inizio del Novecento non fu un periodo facile per l’Italia.

Prima, tra il 1911 e il 1912, la guerra italo-turca, da tutti detta la guerra di Libia perché fu proprio in Libia che si svolse la maggior parte delle azioni militari, poi la partecipazione alla prima guerra mondiale. Libia, un nome che ritorna: proprio gli avvenimenti di questi ultimi mesi, e le discussioni sulla necessità o meno di un intervento armato, sia pur sotto l’egida dell’Onu, ci fanno pensare che tanta parte della storia dell’Italia unita è legata a quel territorio che il socialista Gaetano Salvemini, contrario a quella strana guerra di inizio secolo, ebbe a definire «uno scatolone di sabbia». Del petrolio libico, allora, non si aveva ancora notizia.

Molti monumenti ai caduti, nei nostri paesi, riportano accanto ai lunghi elenchi dei morti nella Grande Guerra anche i nomi di coloro che in quello scatolone di sabbia hanno perso la vita. Le fonti ufficiali elencano tra gli astigiani che hanno preso parte alla guerra, dieci morti e sei feriti. Dieci le medaglie al valore, consegnate in una solenne cerimonia il 1° giugno 1914. Non ci furono motivi veri per scatenare un conflitto che ebbe inizio il 29 novembre 1911 e che si concluse (almeno sulla carta, perché la resistenza libica contro l’Italia proseguì sino agli Anni ’30, con crudeltà e massacri da entrambe le parti) il 18 ottobre 1912. Fu forse la volontà, come disse il presidente del Consiglio Giolitti, di evitare che il Mediterraneo diventasse un condominio anglo-francese a far sì che l’Italia dichiarasse guerra alla Turchia per occupare la Tripolitania e la Cirenaica e anche il Dodecaneso. Una guerra che vide il nostro esercito schierare in campo 40 000 uomini.

Al canto di «Tripoli, bel suol d’amore», partirono dal casermone di Asti alla volta della Libia anche i bersaglieri del 9° Reggimento: 180 militari al momento della dichiarazione di guerra, altri 160 in dicembre. (Vedi Astigiani 8, giugno 2014, pagine 4-15) I giornali del tempo raccontano che alla stazione alcune signore della Asti bene offrirono ai bersaglieri dei berretti di lana «per proteggersi dai venti freddi del deserto». Fu anche l’occasione per mettere alla prova nuove tecnologie: l’Italia schierò anche nove aerei, bi e triplani per la prima volta utilizzati per uso bellico, una considerevole flotta (un ruolo di primo piano nella presa di Tripoli fu svolto dall’ammiraglio astigiano Umberto Cagni) ed ebbero grande importanza le telecomunicazioni. 

Sulla necessità di quella guerra coloniale l’opinione pubblica si divise. Una personalità come Giolitti, che poco tempo dopo sarà contrario all’intervento italiano nel primo conflitto mondiale, si schierò decisamente a favore dell’avventura libica. Discussioni e contrasti che ritornano, decisamente ingigantiti, un paio di anni dopo, quando si tratta non più di un conflitto circoscritto tra l’Italia e la Turchia, ma di quell’immane tragedia che fu la Grande Guerra.

«Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio/dei primi fanti il ventiquattro maggio». Anche se in realtà in quel giorno del 1915 i fanti italiani attraversarono non il Piave – a cui sarebbero poi stati legati tanti avvenimenti successivi, come la tragedia di Caporetto – ma l’Isonzo, La leggenda del Piave, il canto scritto nel 1918 da E.A. Mario, ci ricorda che il 24 maggio di cento anni fa l’Italia entrava in guerra, in quell’«inutile strage», come la definì tempo dopo il papa di allora, Benedetto XV. Per gran parte d’Europa la guerra era già iniziata nell’agosto del ’14, un mese e mezzo dopo l’attentato del 29 giugno, quando a Sarajevo il serbo Gavrilo Princip aveva ucciso l’erede al trono d’Austria Francesco Ferdinando e la moglie di questi, Sofia.

La prima pagina de Il Cittadino del 26 maggio 1915 in cui si annunciava la dichiarazione di guerra dell’Austria

Italia divisa tra neutralisti e interventisti

L’Italia si era mantenuta neutrale, nonostante il vecchio trattato – la Triplice Alleanza – che la legava dal 1882 all’Austria e alla Germania. Lo aveva fatto per prendere tempo, nella speranza di una guerra di breve durata, e perché si sperava con la neutralità di ottenere ugualmente le terre mancanti al completamento dell’unità nazionale. Inoltre dagli italiani l’Austria, alleata per trattato, non era certo considerata una nazione amica, e nel sentire comune rimaneva pur sempre il nemico contro cui si era combattuto nelle guerre del Risorgimento.

Furono mesi, quelli tra l’estate 1914 e il fatidico 24 maggio 1915, di accesi dibattiti tra “interventisti” e “neutralisti”, rispettivamente favorevoli e contrari all’intervento italiano. Pur partendo da presupposti diversi, tutti i maggiori partiti politici erano contrari alla guerra: neutralisti erano i cattolici, per motivi morali e ideali, l’ala liberale dei giolittiani, consapevoli che l’Italia non disponeva di un esercito all’altezza di un conflitto che si sarebbe combattuto con armi tecnologicamente avanzate; e la maggioranza dei socialisti, avversi per motivi ideologici a una guerra tra proletari che avrebbe portato vantaggio soltanto alla ricca borghesia internazionale. Ma soprattutto si riteneva che la guerra non fosse necessaria per l’Italia, e che la non belligeranza sarebbe bastata per ottenere con un trattato il ricongiungimento del Trentino e del Friuli-Venezia Giulia alla patria.

La guerra la volevano invece i cosiddetti irredentisti, convinti che Trento e Trieste dovessero essere conquistate con le armi. Per loro il conflitto sarebbe stato una sorta di quarta guerra di indipendenza indispensabile per unire al Regno d’Italia le terre ancora sotto il dominio straniero. Tra le figure di spicco, Gabriele D’Annunzio, per cui la guerra era il modo più nobile per celebrare le virtù eroiche del suo superuomo, e Mussolini, allora direttore del giornale socialista Avanti!.

Il futuro Duce nel novembre di quell’anno fu espulso dal partito, come detto a maggioranza neutralista, proprio per la sua posizione nei confronti della guerra e andò a fondare un giornale Il Popolo d’Italia, finanziato dagli industriali e dalla Francia che aveva interesse a far scendere in campo gli italiani a fianco degli alleati occidentali. Era per l’intervento armato la nascente grande industria, consapevole dei lauti guadagni che le sarebbero derivati dalle forniture militari.

Lo aveva detto in Parlamento anche il socialista Filippo Turati, convinto neutralista: «Oggi la guerra, qui dentro, non la vuole nessuno, non la vuole il Vaticano, non la vuole il capitale, non la vuole il lavoro, non la vogliamo noi, non la volete voi […]. La guerra non è altro che un bluff letterario di alcuni giornali dietro cui sta la siderurgia che vuole la guerra per i suoi maneggi e intrighi». Mentre D’Annunzio, rientrato dal suo volontario esilio francese, dallo scoglio di Quarto incitava gli italiani a combattere (Marinetti pochi anni prima aveva parlato della guerra come «sola igiene del mondo») e gli irredentisti, vale a dire i sostenitori della necessità di ricongiungere all’Italia le terre ancora sotto il dominio austroungarico, riempivano le piazze in quelle che furono definite “giornate radiose”, il Parlamento, nella sua quasi totalità contrario all’intervento, fu scavalcato da una decisione improvvisa del re e del governo presieduto da Salandra. 

Il Galletto del 22 maggio 1915 in prima pagina illustra “Come si arrivò alla guerra”

Si discute anche nell’Astigiano

Il 26 aprile 1915, a Londra, l’Italia firmò con le forze dell’Intesa, Francia e Inghilterra, un patto in base al quale si impegnava a entrare in guerra, in cambio del riconoscimento dei suoi diritti su Trentino, Alto Adige, Trieste, Istria e Dalmazia. Nonostante il no del Parlamento, che costrinse Salandra alle dimissioni prima di dar vita a un suo nuovo governo, dal 24 maggio successivo il conflitto coinvolse anche l’Italia.

Furono mesi convulsi, quelli di poco precedenti la dichiarazione di guerra all’Austria, di cui però troviamo ben poche tracce se ci limitiamo a dare uno sguardo su quanto avvenne nell’Astigiano. I giornali dell’epoca non riportano notizie di manifestazioni, e tanto meno di scontri di piazza, a favore o contro la guerra. Soltanto qualche conferenza, al Teatro Alfieri o al Politeama, di onorevoli socialisti.

A una di queste conferenze, in cui l’onorevole De Giovanni si schiera a favore della neutralità, i socialisti astigiani Giuseppe Martorelli e il sindaco Vigna, presenti in sala (a quanto pare con esponenti della massoneria locale), si dichiarano dubbiosi sulla possibilità di essere neutrali sino in fondo. Il pubblico li fischia, e la cattolica Gazzetta d’Asti li bolla come guerrafondai.

Per la Gazzetta il sindaco Vigna non dice mai né sì né no, dice sempre “Sni”. In un’altra conferenza del 20 gennaio, questa volta al Teatro Alfieri, l’onorevole Battisti parla di «Trento e Trieste ed il dovere d’Italia», anche questa volta con scambio di battute tra i due schieramenti. Ancora un onorevole socialista, Canepa, intitola il suo intervento La guerra europea e le sue conseguenze, dando alla conferenza un taglio decisamente interventista, con l’approvazione del foglio liberale Il Cittadino.

A dieci giorni dall’inizio delle ostilità in piazza Alfieri ha luogo una scaramuccia tra il già citato socialista Martorelli, interventista, e alcuni irriducibili neutralisti. Martorelli, stando ai giornali, esplode anche un colpo di pistola, poi tutto si calma. Ma in sostanza pare regnare una certa linea di fondo, sia sulle pagine dei fogli locali, che rispecchiano le idee dei partiti principali, dai cattolici ai socialisti ai liberali, sia nell’ambito dei partiti stessi e anche nel Consiglio comunale. Tutti si dichiarano contrari, sia pure con diverse sfumature, a un intervento bellico da parte dell’Italia, pur ribadendo che, se mai la guerra dovesse scoppiare, la lealtà allo stato e il senso del dovere imporrebbero a tutti di dare anche la vita per la patria.

Il Consiglio comunale di Asti vota contro la guerra “Né un soldo né un soldato” ma il prefetto lo censura

Fin dall’anno precedente proprio dal Consiglio comunale era partita un’esortazione al governo affinché l’Italia non si lasciasse coinvolgere nella guerra. In una delibera del 12 agosto 1914, quindi quando le ostilità sugli altri fronti sono iniziate da poco e mancano ancora nove mesi all’intervento italiano, si legge: «Il Consiglio Comunale di Asti unisce il suo voto a quello di tanti altri comuni italiani, perché il Governo non debba sacrificare né un soldo né un soldato, nella certezza che tutti i cittadini del Regno sarebbero invece pronti, senza distinzione di partito, a versare fin l’ultima goccia del loro sangue quando dovessero difendere l’integrità della Patria».

Ma evidentemente si era già in un clima di guerra imminente, seppur non ancora dichiarata, perché il sottoprefetto (ricordiamo che all’epoca Asti faceva parte della provincia di Alessandria) sospese la delibera e il prefetto di Alessandria la annullò con una censura al comune di Asti, per essersi occupato di una questione non locale ma relativa alla politica nazionale e addirittura internazionale, che quindi esulava dalle sue competenze.

Il sindaco di Asti Annibale Vigna, avvocato socialista, restò a capo dell’amministrazione per tutta la durata della guerra fino al 1920. Era alla testa del gruppo dei cosiddetti “autonomi” e dalle pagine del Galletto sostenne posizioni di neutralismo “relativo”

Sui giornali la neutralità relativa del sindaco Annibale Vigna

Sindaco di Asti era allora l’avvocato Annibale Vigna, socialista, che restò a capo dell’amministrazione per tutta la durata della guerra e anche dopo, fino al 1920. Il partito socialista del tempo, come molto spesso gli accadde nella sua lunga storia, era diviso tra gruppi e correnti che si ponevano su posizioni distanti, per non dire opposte, che andavano dalla neutralità assoluta a quella “relativa” e all’interventismo, come abbiamo visto, del direttore dell’Avanti Mussolini. 

Vigna era alla testa del gruppo astigiano dei socialisti cosiddetti autonomi, che dalle pagine del Galletto, il foglio locale del partito vicino alle posizioni del sindaco e da lui fondato nel 1895, si mostravano fermamente contrari all’intervento, ma nello stesso tempo non nascondevano la loro avversione nei confronti dell’avversario austro-tedesco e paventavano un’Europa dominata dagli imperi centrali. Questo, affermavano i titoli del Galletto, avrebbe anche potuto far considerare un diverso atteggiamento nei confronti della guerra, perché un’eventuale vittoria «della casta militare austro-tedesca» rischiava di mettere fine all’«emancipazione del proletariato», un tema da sempre caro all’ideologia socialista.

Anche in questo caso, tuttavia, veniva fatto salvo il dovere di combattere lealmente, in caso di necessità, per il bene della patria. Una neutralità relativa, quindi, quella di Vigna e dei suoi, ma tanto bastava per vedersi attribuire l’etichetta di guerrafondai da parte di chi non voleva l’uso delle armi. Neutralismo, ma anche lealtà allo stato: questo era l’atteggiamento dei cattolici astigiani, schierati in fin dei conti su una linea non troppo diversa da quella dei socialisti.

Le idee dei cattolici erano espresse dalla Gazzetta d’Asti, il settimanale fondato nel 1899 dal vescovo di Asti, il bergamasco Giacinto Arcangeli (1833-1909). All’inizio di gennaio 1915 il giornale si schiera su posizioni pacifiste: «Ancora una volta, pertanto, crediamo e speriamo che la “suprema prova della guerra” sarà risparmiata alla patria, senza che a questa ne risulti comunque umiliazione o danno, ed anzi consentendole di soddisfare le legittime aspirazioni e di compiere i suoi destini».

Ma ciò non toglie che «in caso di guerra i cattolici italiani e noi con essi sapranno ancora e sempre adempiere generosamente il loro dovere civile». Il foglio spesso assunse decise prese di posizione contro la guerra, a volte anche sorprendenti per la loro immediatezza: in un articolo del direttore Filippo Berzano (che si firmava con lo pseudonimo-anagramma di Nozaber), apparso nel febbraio del ’15, tre mesi prima dell’inizio del conflitto da parte italiana, leggiamo «la guerra la vogliono gli azionisti di società siderurgiche, i fornitori dell’esercito, i futuristi, i nazionalisti, i massoni e tutti coloro che desiderano pronunziare in tempo di guerra il motto proverbiale: mangia tu che mangio anch’io»; e invece «Il popolo che lavora, suda e si sacrifica noi lo conosciamo assai meglio di tutti questi guerrafondai e questo popolo assolutamente non vuole la guerra». Sembra di risentire le parole dette dal socialista Turati nel corso di alcuni suoi interventi in Parlamento.

E ancora la Gazzetta: «Oggi il nostro paese, mancando di disciplina, è vittima di alcuni facinorosi che trovano ad ogni piè sospinto motivi per turbare la pace e l’unità nazionale».

 

“Verso la guerra” è il titolo riservato dalla Gazzetta d’Asti del 21 maggio 1915

Su Gazzetta d’Asti il neutralismo della Chiesa “Il popolo che lavora non vuole la guerra”

Ripetutamente il giornale fa i conti su quanto costerebbe la guerra all’Italia, ma il vento cambia e appena quattro giorni dopo il 24 maggio troviamo sulla Gazzetta una dichiarazione di pieno impegno da parte cattolica «con tutte le nostre forze sino alla vittoria finale»; e sullo stesso numero compaiono espressioni come «Dio benedica l’Italia! Verso la conquista delle terre irredente».

Il titolo a tutta pagina del giornale è semplicemente La guerra italo-austriaca. Il sottotitolo: È suonata l’ora della concordia e del valore. Dio benedica l’Italia. Assai variegata la posizione dei liberali astigiani, quale appare dalle colonne del loro bisettimanale, Il Cittadino, uno dei più antichi giornali piemontesi (era stato fondato nel 1853), voce dei notabili astigiani, della buona borghesia e degli imprenditori.

Anche per i liberali la guerra va evitata, le dichiarazioni di pacifismo si ripetono, ma fin dall’agosto del 1914 troviamo articoli che esprimono forti dubbi sulla reale interpretazione da dare al conflitto appena iniziato nel resto d’Europa: «La neutralità presente può essere per noi un grave pericolo, specialmente se la guerra portasse qualche ingrandimento territoriale o di potenza a qualunque delle nazioni nostre alleate troppo vicine a noi». Quindi anche per le potenze alleate, che a questo punto non si capisce bene se sono ancora l’Austria e la Germania a cui ci legava la Triplice Alleanza o se già si individuavano nella Francia e nell’Inghilterra le nuove nazioni amiche.

Sul numero del 3 gennaio leggiamo: «Per lo meno dovremo essere con le armi in pugno, pronti per far sapere a tutta l’Europa […] che vi sono degli Italiani i quali hanno dei diritti e delle aspirazioni da far valere, risoluti ad imporre anche con le armi i loro interessi della civiltà latina che il germanismo vorrebbe con la sua forza sopprimere». E la posizione del Cittadino si radicalizza ancora col passare dei mesi, mentre sono chiamate alle armi sempre nuove classi, segno che si è ormai certi dell’imminente inizio delle ostilità.

Il giornale appoggia il governo Salandra, trattando con disprezzo i giolittiani, liberali anch’essi ma contrari all’intervento; nel gennaio 1915 non soltanto la guerra diventa a poco a poco «uno di quei mali inevitabili cui va soggetta l’umanità», ma addirittura, con un linguaggio che non ha nulla da invidiare a quello dei futuristi: «Se questa guerra costringe gli uomini a pensare  […]; se questa guerra spazza via come foglie al vento la mediocrità che col raggiro si è insinuata tra il popolo che ha ingannato ed infiacchito nella sua coscienza; se questa guerra distrugge i piccoli e gretti interessi  […] essa ha un lato nobile e gli spiriti forti devono fissarla bene in viso senza temere il suo sguardo infuocato». E nello stesso articolo: «Si ebbe troppa fiducia nella pace, troppo disprezzo per le armi, troppo orrore per la guerra, idee tutte che contribuirono a svalutare la guerra, anche in ciò che essa ha di più bello e di santo e ad indebolire lo spirito combattivo».

Logico, quindi, che accanto a un neutralismo sempre più di facciata, già a marzo, due mesi prima dell’inizio del conflitto, Il Cittadino dichiari che, nel caso il conflitto non fosse evitabile, il partito si sarebbe posto senza esitazioni «agli ordini del Re, per la gloria della patria». L’11 aprile, quando ormai pare chiaro che la guerra è imminente, troviamo: «Le vicende della guerra sembrano dire chiaramente ad ognuno di noi che il momento di cogliere i frutti della sua preparazione e della sua attesa è giunto per l’Italia, per il che sarebbe grave errore il non approfittarne». E quando la guerra scoppia, il titolo del giornale è quanto mai neutro: “Guerra dichiarata”

I giornali locali non riportano nei giorni successivi alla dichiarazione di guerra notizie di manifestazioni di piazza, né cortei né sfilate. Gli astigiani, “ubbidiscono”, accettano la guerra, ma non ne sono entusiasti. Gli effetti del conflitto si fecero subito sentire. Le industrie astigiane, la Way-Assauto, la Maina, la Ercole e altre minori ricevettero commesse militari e riconvertirono la loro attività producendo materiale bellico e occupando molta manodopera femminile. 

Scoppia il conflitto e i prezzi divampano

Immediato anche a causa delle speculazioni l’aumento dei prezzi degli alimentari: il burro passò a 6 lire al chilo, le uova da 1,45 a tre lire la dozzina, il pane nel corso della guerra aumentò di più del 10 per cento, l’olio del 45 per cento. Il mercato dei bozzoli, una risorsa tipicamente astigiana e monferrina, subì un crollo, passando dai quasi 36 000 miriagrammi del 1914 a poco più di 22 000 l’anno successivo. Fu necessario un grande impegno delle organizzazioni che si occupavano dei poveri della città, a cui distribuirono nei primi mesi di guerra 76 000 litri di minestra e 7400 chili di pane.

Quella guerra, iniziata per l’Italia il 24 maggio 1915, costò alla nazione 650 000 morti; di questi, secondo le statistiche ufficiali, 4640 erano del circondario astigiano. I loro nomi sono sulle lapidi e sui monumenti che ogni paese eresse alla fine del conflitto, accanto ai “viali della Rimembranza”: alberi chiamati a muti testimoni di quelle vite spezzate.

 

Renato Grimaldi nel suo piccolo museo di Calosso in cui è esposta la collezione di oggetti, scritti e fotografie

La guerra all’oblio vinta da Renato Grimaldi

 Enrica Cerrato

Cimeli e testimonianze raccolti a Calosso

 

«Cari soldati, da troppi anni siete partiti per non far più ritorno tra queste colline che tanto amavate. Siete partiti con la speranza che il vostro sacrificio non sarebbe stato vano. Non siete morti per un’Italia che abbondasse di violenza, arroganza, disonestà e cattiveria, ma avete sacrificato la vostra giovinezza per la speranza di una Patria più giusta e unita. Vogliate perdonarci se vi abbiamo traditi e dimenticati. Fate in modo, da lassù, che certe tragedie non si ripetano, ma forse chiediamo troppo a Voi che tanto avete già dato». Queste parole accolgono i visitatori nel piccolo museo che da anni con passione, commozione e caparbietà, ha allestito Renato Grimaldi a Calosso.

Oggi, l’ex autista ed ex ristoratore (al Piccolo Mondo e poi alla Locanda degli Antichi Sapori), all’età di 70 anni si dedica a tempo pieno alla collezione di oggetti, scritti, fotografie “per non dimenticare” le guerre. Tutto era nato una trentina di anni fa, quando un calossese gli chiese, a lui che girava per lavoro l’Italia, se conoscesse il monte Costesin, dove durante la Grande Guerra era scomparso un suo parente: «Non sapevo neppure dove era – racconta Renato, bersagliere negli Anni ’60 – ma quella storia mi appassionò e cominciai a raccogliere materiale e informarmi. Poco tempo dopo, partimmo da Calosso con un pulmino, eravamo in otto, con tre bambini al seguito e arrivammo in quella zona tra il Trentino e l’Altopiano di Asiago».  Fu una folgorazione: «Ci siamo sentiti come se fossimo entrati sotto una cupola, in un altro mondo. Eravamo su una collina dove erano morti tremila italiani e persino i bambini si ammutolirono. E confesso di aver pianto quando visitammo il Sacrario di Asiago». 

È nato tutto così: Renato Grimaldi da quel momento dedicò ogni momento libero a rintracciare storie dei caduti,  a riannodare le vicende di povera gente di paese, sbattuta in una guerra di cui nulla sapeva, con miseri mezzi. E poco per volta le famiglie di Calosso e di tanti paesi della zona cominciarono a raccontargli le vicende dei loro parenti scomparsi, senza neppure sapere dove cercarne le spoglie. E arrivarono i primi oggetti, le lettere, le fotografie sbiadite, uscite dai bauli che stavano sulla cascina. Renato se li rigirava in mano e ne traeva forza per una sua particolare missione: rintracciare quei soldati spariti nel nulla. «Ho trovato le spoglie di 35 caduti della Grande Guerra, nei cimiteri più impensati – racconta – grazie alla collaborazione con l’Onor dei Caduti di Roma. Sono diventato amico di qualche impiegato, ho girato sacrari e cimiteri e ricostruito storie che oggi sembrano impossibili». 

Due elmetti modello Adrian in primo piano del Regio Esercito

Un museo in cerca di sede adeguata

Due cugini ad esempio, Giovanni ed Erminio Cerutti, giacevano nei camposanti militari rispettivamente a Milovic, vicino a Praga e a Rodi. «Erano morti di stenti insieme a migliaia di commilitoni prigionieri, e nemmeno si sapeva che fossero arrivati in quei Paesi lontani» . Le sue ricerche si sono estese anche ai caduti della Seconda Guerra mondiale, facendo rientrare a casa le spoglie di soldati morti in Russia o ancora nella campagna d’Africa.  Intanto la sua raccolta di emozioni si arricchiva e nel “Crotin” della Locanda dei Sapori, Renato Grimaldi allestì un piccolo museo: all’ingresso manichini con le divise e ad accogliere i visitatori, echi di bombardamenti e uno struggente “Il Piave mormorava”. 

Erano gli Anni ‘90 e anticipando i tempi, Renato creò a suo modo un percorso multimediale, con un ferito sulla barella, la crocerossina, canti e letture. Poi, lasciando la Locanda, portò con sé in modo provvisorio la sua raccolta in un locale a piano terreno sulla piazza di Calosso, ma è in attesa di una sistemazione definitiva. «Ho avuto tanti contatti, anche grazie ai bersaglieri, per trovare una sede giusta, ma spero che tutto rimanga a Calosso».  

È un viaggio nel tempo e nella memoria di cose che non devono essere dimenticate, quello che Renato Grimaldi propone: fotografie delle trincee scavate a mano, gruppi di soldati semplici, momenti di riposo e di abbandono, con la fatica che segna i volti a cui è impossibile dare un nome. E poi involucri di bombe arrugginite, lanterne, maschere antigas, elmetti, oggetti di uso quotidiano, come la cassetta del barbiere o gavette del rancio. E c’è pure il telefono da campo che usò Alberto Sordi nel film di Monicelli La grande guerra. Renato sfiora quegli oggetti con un affetto che prende il cuore. E chi entra e parla con lui, esce con un groppo in gola e la voglia di saperne di più.

 

Astigiani è un'associazione culturale aperta, senza scopo di lucro, che ha bisogno del sostegno di altri "Innamorati dell'Astigiano" per diffondere e divulgare la storia e le storie del territorio.
Tra i suoi obiettivi: la pubblicazione della rivista trimestrale Astigiani, "finalizzata alla raccolta e diffusione di informazioni e ricerche di storia e cultura astigiana dal passato remoto a quello prossimo, con uno sguardo al presente e la visione verso il futuro (dallo statuto), la raccolta di materiale per la creazione di un archivio fotografico, video e documentale collegato al progetto "Granai della memoria", la realizzazione di presentazioni pubbliche e altri eventi legati al recupero della memoria del territorio.

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