La terminologia che si usava in astigiano per definire i tipi di ragazze e di donne oggi sarebbe denunciabile come tipico linguaggio maschilista. Va detto che certe espressioni sono però da ricondurre al loro tempo storico e lette sempre con la dovuta dose di ironia. Manìa, l’adolescente carina o anche la fidanzatina; purìl-a, la giovane di bell’aspetto, pimpante; galopèra, la donna appariscente, spigliata, provocante; brignòn, da prugna, la maggiorata, dotata di un fisico mozzafiato. La ragazza perfetta è fàta con el pnèl, fatta con il pennello, o anche na pitüra, un dipinto.
Quella ordinaria, così così, ün-a da lündes, una da lunedì, un giorno in cui non ti aspetti niente di eccezionale. Non mancano i giudizi “spietati”: bivatòn, da bivata, la bambolona un po’ goffa e anche un po’ datata; cadeau, dal francese cadeau, regalo, ma usato in termine ironico per indicare un presente di cui avresti fatto volentieri a meno: è quella imbranata, imbambolata, magari antipatica e insopportabile, e non molto bella. Antica, non ha bisogno di traduzione, e indica la “tardona” che ancora non è riuscita a sistemarsi; ‘s fa pü sgagià a sautela che a gireji ‘ntùrn, si fa più in fretta a saltarla che a girarle attorno, detto ovviamente di una che è decisamente piccola ma in compenso anche larga.
Della ragazza chiacchierata, quella che era passata con disinvoltura da un’avventura all’altra, si diceva, a torto o a ragione, “a l’ha vist-na pü chil-a che Banchieri”, “ne ha visti più lei di Banchieri”: il professor Banchieri era un noto urologo astigiano. Espressione equivalente, “pü frusta che ’l stradòn che ’l va a Muncalv”, “più consumata della strada che va a Moncalvo”. Più remota, e oggi decisamente superata, l’ironica considerazione na brava fija, che a mangia a cà e a va a duermi via, una brava ragazza, che mangia a casa e va a dormire altrove. Di quella che si dà un sacco di arie, vanitosa, piena di pretese e anche un po’ arrogante, dai tempi della guerra di Eritrea (1885-1895) si dice “a smija a regin-a Taitù”, “sembra la regina Taitù”, ossia l’imperatrice Taitù Batùl, moglie del negus Menelik II e imperatrice d’Etiopia, morta ad Addis Abeba nel 1918.
Ma la definizione più lusinghiera, oggi passata un po’ di moda, resta comunque na gran bela filiberta, una gran bella filiberta, o anche in bel toc ad filiberta, un bel pezzo di filiberta, un modo di dire che nasce nel breve periodo della Repubblica Astese (1797). Maria Filiberti, una commerciante coniugata con un certo Murelli, era in quel periodo la donna più bella e affascinante di Asti, tanto che il conte di Bestagno, presidente del Consiglio cittadino, le chiese di aprire le danze intorno all’Albero della Libertà alla festa programmata in piazza San Secondo: data la sua avvenenza era considerata una testimonial ante litteram per la neonata repubblica. Ed era talmente affascinante che il suo cognome diventò sinonimo di bellezza nei secoli futuri. Di una ragazza con fattezze impeccabili si cominciò a dire ”Sembra la Filiberti”, poi “È una Filiberti” e si arrivò negli anni all’espressione “Un gran bel pezzo di filiberta”.