Una delle espressioni più comuni ad Asti e in tutto il Piemonte, usata di frequente anche nella versione italiana, è andè del cü, tradotto impropriamente con “andare del culo”. Questo modo di dire, che significa fare bancarotta, fallimento, andare in rovina, affonda le sue origini in una legge dell’antica Roma contenuta nelle Dodici Tavole che autorizzava i creditori ad uccidere o a rendere schiavo il debitore insolvente. Giulio Cesare cancellò questa norma e la sostituì con la pietra del vituperio: il bancarottiere o il fallito o il debitore che non poteva far fronte ai propri impegni veniva trascinato in Campidoglio, denudato dalla cintola in giù e obbligato a dichiarare pubblicamente:”Cedo bona!”, “Cedo i miei beni!”, ovviamente se ne aveva e a qualsiasi prezzo, per soddisfare almeno in parte le richieste dei creditori.
E, mentre pronunciava ad alta voce questa frase, per tre volte doveva alzarsi e quindi sedersi violentemente sbattendo le natiche nude sulla pietra. Questa consuetudine venne ripristinata nel periodo del libero Comune. E non poteva essere altrimenti. La classe dirigente astese era composta da artigiani, commercianti, banchieri, tutta gente abituata a far quadrare i conti, e quindi la pena divenne addirittura più severa: il malcapitato veniva appeso per le braccia e poi lasciato cadere sulla pietra. Il luogo scelto per questo castigo fu dapprima l’attuale piazza Medici, sotto la torre Troyana, e poi piazza San Secondo, sede del mercato cittadino dal 1260 al 1923. Per il supplizio si utilizzava il banco del pesce, sostituito con gli anni dalla pietra del vituperio, destinata esclusivamente a quella funzione.
L’espressione esatta è quindi andè a dè del cü ans la pera, andare a dare del culo sulla pietra, quella che venne infatti chiamata pera cülèra. Di qui la frase essi con el cü an tèra, essere con il culo per terra. Altri detti che indicano il fallimento, la rovina finanziaria sono: andè a baròn (baròn è la catasta, il mucchio, e indica metaforicamente i beni del fallito che, accatastati, venivano venduti all’asta), andè a rabèl (andare in giro, andare via perchè bandito dalla società), andè a ramengo, dal veneto và ramingo, ti auguro di andare per il mondo come un accattone. Ci sono esempi di altre espressioni che l’astigiano ha assimilato da questo dialetto, una per tutte è s-ciau, tanti saluti, addio, arrivederci, ossia un modo per chiudere il discorso o per indicare la fine di una situazione: a j’ heu vistlu na vota e peu s-ciau, l’ho visto una volta e poi addio. Era una forma di saluto veneta, s-ciavo vostro, schiavo vostro, poi contratta in s-ciavo e ridotta dai nostri antenati in s-ciau. Secondo Giovanni Cordola, appassionato e studioso piemontese, il detto deriva proprio dal paese di Aramengo, che dal 1500 al 1700 fu luogo di pena in cui venivano confinati i truffatori più “blasonati”. Addirittura cita l’ipotesi che il nome di questo Comune derivi proprio da ramingo, cioè inviato al confino. In realtà la denominazione originale del paese è Ara Mea, perchè su quella collina si trovava un tempio romano, e poi divenne Aramengo in epoca longobarda.