L’insegna in ferro battuto del “Falcon Vecchio” si è trasferita negli anni prima in via Mameli, all’angolo con via Carducci non lontano da piazza Catena e poi nel borgo di Santa Caterina, in corso Alfieri, nei bei locali dalle volte affrescate dove aprì negli anni ’80 il “Mocambo.”
Ma il “Falcon Vecchio” resta, nel ricordo degli astigiani di seconda e terza età, quello di vicolo San Secondo, dietro la Collegiata, nella storica casa che esiste ancora oggi, in uno stato di deplorevole degrado e imprigionata in un inguardabile e per certi versi osceno “sipario di ferro”.
Questo blocco al passaggio pedonale escogitato contro i graffitari e imbrattatori di muri è risultato un rimedio pessimo che cancella anche la memoria di un luogo: in quella casa – cucina, cortiletto e sale da pranzo – è passata la storia della cucina astigiana ma anche quella di una città dove l’incontro tra l’artigiano e il capitano d’industria, tra l’operaio e l’avvocato di grido, era la norma e non l’eccezione. Protagonista della straordinaria avventura del “Falcon Vecchio”, che la leggenda – forse solo una leggenda – vorrebbe come la più antica osteria cittadina, aperta a metà del ’400, è stata la famiglia Chiusano che ne acquistò i muri nella prima metà degli anni ’10 del secolo ventesimo da un certo Spirito, di origine francese, per cederli sessant’anni dopo, nel 1972, a Guido Marinoni.
Giovanni Chiusano, il capostipite, emigrato a 14 anni negli Usa, aveva imparato a fare il cameriere a New York. Tornato in Italia per gli obblighi di leva, si sposò con Giuseppina Torchio e diventò il mitico gestore del Falcone di cui fece diventare indimenticabili il vino (prodotto in proprio, comprando le uve e vinificando nelle cantine della vicinissima canonica della Collegiata di San Secondo) e l’imperiale bollito misto piemontese che amava servire in prima persona, con l’orgogliosa consapevolezza dell’indiscutibile primato del prodotto.
Regina della sala del Falcon Vecchio e custode dell’assoluto rigore con cui veniva proposta la “lista” (le cosiddette contaminazioni tanto gradite oggi, non erano concepibili al Falcone dove al massimo si poteva fare un’eccezione per gli spaghetti al posto dei tradizionali tajarin) era la figlia primogenita Adelina – il fratello Renato dava qualche volta una mano, ma la sua strada lo portò verso altre attività lavorative.
Adelina aveva prima imparato l’arte della cucina dai migliori cuochi dell’epoca e lasciò poi la guida dei fornelli alla sorella minore, Jucci. È proprio Jucci – grande quanto quasi invisibile cuoca del Falcone per oltre vent’anni – l’unica testimone vivente di quella eccezionale dinastia e di quella irripetibile stagione astigiana, a raccontarci le atmosfere e le storie del Falcone.
Nata nel 1927, alta, bella, determinata e indipendente per quanto potevano esserlo le ragazze dell’epoca, Jucci a 14 anni già giocava a pallacanestro nella squadra che nel ’41 partecipò ai Ludi Juveniles.
Le piaceva anche fare atletica o girare per Asti sulla sua invidiatissima bici Savoiarda Prina. Diplomata alle Magistrali parificate della Purificazione, si impegnò per qualche tempo, a guerra ormai finita, in attività educative in un Corso assistenti curato dall’educatrice Teresa Maccagno che prevedeva periodiche e rilassanti gite sulle rive del Tanaro: «Furono gli anni più belli della mia gioventù – ricorda Jucci – quelli in cui decisi anche che mi piaceva di più lavare i piatti del Falcone piuttosto che andare a insegnare».
Altro che lavar stoviglie! Da quella cucina uscirono i piatti diventati i pilastri della “vera” gastronomia astigiana e la “padrona dei fornelli” era lei, la Jucci, che aveva imparato da Adelina e dal papà Giovanni, ma che ormai cresceva da sola usando capacità, intelligenza e rara pazienza, pur tenendo rigorosamente basso il profilo della sua attività. E di pazienza ce ne voleva per gestire il Falcone che fino al passaggio di consegne, ebbe due volti affini ma distinti.
Dalle 12 alle 14 e dalle 18 alle 23 era il ristorante che serviva alcuni tra i più noti personaggi della città. Dalle 14 alle 17,30 si trasformava in una delle più accoglienti osterie del centro storico dove campeggiava il mitico tavolo “vista strada” su cui erano sistemate le bottiglie di vino dei clienti. Ognuna con il nome del “possessore” scritto in gesso e ognuna, per evitare “indebite intromissioni” con il segno del livello del vino.
«Unica eccezione – ricorda ancora Jucci – quella delle 13,30 quando qualche avventore da “osteria” passava a bere un bicchiere mentre era in funzione il ristorante; le due tipologie di clienti restavano comunque nettamente distinte.
I nostri piatti tradizionali? È presto detto: sempre acciughe al verde, carne cruda battuta al coltello, qualche fetta di salame crudo. Talvolta l’insalata russa e in stagione sempre l’insalata ‘d cucuni (ovuli), così come d’inverno c’era sempre la zuppa di ceci. Poi tajarin, agnolotti, pasta e fagioli, finanziera, faraona in salmì, bagna cauda, merluzzo al verde o alla veneziana. E i tartufi per fondute, risotti, carne cruda, uova al padellino. Su tutti il gran bollito piemontese a cui mio padre teneva più di ogni altra cosa». ù
A un passo dal Teatro Alfieri, il Falcone era sovente visitato da illustri ospiti. «Ricordo, tra gli altri, Gino Cervi ed Emma Gramatica che pretese di avere, per stare a tavola, uno sgabello di velluto, ma soprattutto mi ricordo di una curiosa consuetudine di molti spettatori che, durante l’intervallo tra un atto e l’altro, facevano una rapida scappata da noi per gustare un paio di dozzine di agnolotti al volo».
Vicini anche al grande Salera. Vi facevate concorrenza? «Assolutamente no, noi eravamo una pulce al loro confronto ma ogni tanto erano proprio loro a venire a mangiare da noi». Così come accadeva per molti altri astigiani importanti. «Certo, ci consideravano la giusta alternativa alla cucina di casa. Venivano i Griffa, Giorgio in particolare, e l’ing. Clinanti che avevano addirittura il loro posto fisso, lo stesso grande chef Giovanni Fasciola, l’avvocato Guglielmo Pasta (“preparatemi i friciulin verdi”), lo scenografo Eugenio Guglielminetti, il geom. Aldo Boffano (“tenetemi il merluzzo”), il pittore Silvio Ciuccetti, goloso di peperonata, e Cecco Bruno che arrivava solo la sera e non andava più via».
Jucci, tutte queste cose buone fanno venire voglia di provarle, ci regali almeno una ricetta. «Non ci penso proprio, l’epoca di quel Falcon Vecchio è finita. Le ricette non sono fatte solo di ingredienti e tempi di preparazione, meglio lasciarle al ricordo di chi c’era».