sabato 27 Luglio, 2024
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“Buon appetito Avucat”. Spicchi di vita in quattro scene con contorno

Giovanni Goria, il gastronomo, il ghiotto, l’ironico
Giovanni Goria, nato il 13 maggio 1929 è scomparso il 14 gennaio 2018. Originario di Tigliole, avvocato, il suo nome è legato alla grande passione per la cucina e alla sua capacità di ricerca e di divulgazione. Partecipò a numerose trasmissioni televisive e il suo volto tondo e giocoso divenne noto ai gourmet. Accademico della cucina italiana firmava tutte le sue lettere e le dediche sui libri con un segno “araldico” particolare: forchetta e coltello incrociati. Astigiani gli dedica queste pagine con il ricordo di Paolo Monticone e di Roberto Giannino che lo hanno ben conosciuto e la rievocazione delle sue ricette affidata a Paola Gho e Giovanni Ruffa.

Forse lui non sarebbe stato del tutto contento a sentirsi definire “monumento”, ma per tutti coloro che, come chi scrive, hanno approfittato della sua vicinanza ed amicizia per imparare un po’ di cose sul cibo, le materie prime, la cucina e la gastronomia, non c’è termine più appropriato per definire l’avvocato Giovanni Goria, una personalità complessa, abilmente celata sotto la paciosa apparenza di un buon borghese di provincia appagato dalla possibilità di godere delle cose belle, e buone, della vita, che riesce arduo descrivere nei ristretti spazi della nostra rivista. Meglio dunque andare per qualche lampo di memoria che ce lo restituisca nella sua verità di divulgatore di irresistibili saperi del buon mangiare e di testimone di una cultura di vita da lui riportata alla luce in periodi di involontario, forse, oscurantismo in materia; cultura che oggi avrebbe bisogno di essere conservata e tutelata di fronte all’arrembante e spesso sconclusionata ondata di messaggi mediatici che ne dimenticano sovente contenuti e comportamenti.

Scena prima – La Comparsa dell’acciuga

Il luogo è uno studio da avvocato nel centro di Asti. Una stanza lunga e stretta, al fondo della quale troneggia la scrivania dell’avvocato, su cui, occupando quasi tutto lo spazio a disposizione, sono disposti fascicoli, cartelline, comparse. Gli attori sono l’avvocato Giovanni Goria, titolare dello studio, penalista e civilista ancora in piena attività professionale, ma ormai sulla via di essere imprestato a tempo pieno all’arte del buon mangiare da quando ha dovuto rinunciare ad andare in montagna per questioni di “peso specifico”, e da questo momento citato come “l’Avucat”, e il dr. Pierluigi Sacco Botto di professione medico, ma un altro che dell’arte della cucina ha fatto parte integrante della propria vita.

I due, incontratisi nello studio per non ricordo più quale motivo, avviano ad un tratto una lunga e forbita discussione sui luoghi migliori per comprare materie prime alimentari di qualità con particolare riferimento alle acciughe. Dalla citazione dei banchi di piazza Catena a quella dell’acciugaio di via Ottolenghi, il dialogo si protrae, tra giudizi condivisi e indizi sempre un po’ criptici sudove trovare quelle più adatte a questo o quell’uso di cucina. Un po’ frastornato da tanta dettagliata cultura alimentare, l’ospite, che ascolta ma non interviene, finisce per dare un’occhiata alle cartelle che occupano il ripiano della scrivania, tanto per capire, da antico e inveterato cronista di nera, se ci sia qualche caso giudiziario di cui valga la pena occuparsi non appena finita la recita dei due attori. E, stupore ma non poi così tanto, data la natura del luogo e dei personaggi, scopre che i fascicoli delle Comparse ci sono, ma i loro intestatari sono “Acciuga”, “Cardo gobbo”, “Peperone”, “Bollito misto piemontese”. Questa era la straordinaria scrivania dell’Avucat.

Scena seconda – Le pillole del ramadan

Il luogo è una, a piacimento, delle cucine dei ristoranti più noti dell’Astigiano e del Monferrato. Gli attori sono la cuoca (o il cuoco) – all’epoca ben pochi sapevano cosa fosse uno chef – e l’Avucat che, secondo un’inveterata abitudine personale, sta curiosando e rimestando, tra pentole e tegami, sotto l’occhio non sempre particolarmente benevolo della già citata cuoca (o cuoco). Il dialogo riguarda metodi di cottura, suggerimenti su tempi e qualche condimento da usare in quantità maggiore o minore di quanto si sia fatto finora, curiosità da soddisfare da una parte e dall’altra. Tutto questo finché l’Avucat decide che è venuta l’ora di assaggiare almeno una a scelta tra le varie pietanze in preparazione. Senonché, trattandosi sovente di “cose buone dal mondo”, l’Avucat si esibisce in una degustazione ricca e lunga, tanto da impensierire un pochino la cuoca (o il cuoco) che assistono a quell’eufemistico assaggio. “Avvocato, ma tutto questo mangiare fuori pasto non finirà per procurarle qualche fastidio?”. “Potrebbe capitare – è la risposta – ma quando non sono nel periodo del mio annuale digiuno-ramadan, ho un antidoto infallibile”. E immancabilmente estrae di tasca una scatolina che, aperta, rivela la presenza di una quantità considerevole di pillole gialle, rosse, blu, verdi, alcune delle quali vengono senz’altro trangugiate senza batter ciglio. Non si è mai saputo a quale medicamento facessero riferimento quelle pillole, ma erano per l’Avucat il passaporto per la felicità.

 

Scena terza – Borello e il Bollito in carriola

Il luogo è il Salone al primo piano del Castello di Costigliole d’Asti ai tempi in cui, auspice e promotore il presidente della Camera di Commercio Giovanni Borello, nel grande maniero già residenza della bella Contessa di Castiglione erano stati aperti l’Enoteca dei vini astigiani e annesso ristorante di fama e prestigio, condotto da Bruno Concone. Gli attori sono lo stesso Giovanni Borello, nei panni del demiurgo; l’Avucat, nelle vesti del gastronomo liberato e Concone ad interpretare il ruolo dell’esecutore di alto rango. L’occasione è una delle affollatissime e spettacolari conferenze stampa che il presidente Borello, fedelissimo sodale dell’Avucat, organizzava ogni anno per presentare la Douja d’Or. Dopo aver ampiamente illustrato programmi, date e contenuti, i giornalisti venivano ospitati al castello per un pranzo, tra il ludico ed il didattico. Tutto procede secondo la norma fino a quando deve entrare in scena il secondo di carne. Entrare è il termine più adatto perché, a quel punto, nel salone fa il suo ingresso l’Avucat che spinge davanti a sé una grande carriola su cui, su un letto di fieno odoroso, sta una grandiosa proposta di bollito misto piemontese. Un vero “coup de theatre” che il trio Goria-Borello-Concone ha messo in scena per lo stupore di tutti i presenti. “Questo dovrebbe essere il modo in cui si dovrebbe sempre servire il nostro grande bollito”, afferma l’Avucat con l’abituale ironica serenità. Ovviamente nessuno gli prestò la richiesta fede, ma la botta d’immagine non mancò di avere i suoi effetti, poiché alla fine del pranzo di quel bollito in carriola non ne restò nemmeno l’ombra.

Scena quarta –  Le Bolle del digiuno

Il luogo è lo stesso studiolo al primo piano del palazzo di famiglia in via Giobert e l’attore questa volta è uno solo, lui, l’Avucat, che ogni anno, per più o meno mezzo secolo, tra la fine di Gennaio ed i primi di Marzo scrisse ai soci dell’Accademia Italiana della Cucina, di cui era imprescindibile presidente e “guru”, una lettera in cui annunciava l’inizio del proprio digiuno-ramadan. Proponimento che ogni volta avrebbe dovuto riportare il suo peso da un limite superiore, considerato invalicabile, attorno ai 90 chili, fino ad una misura più sostenibile che si aggirava, variando di anno in anno, tra i 74 ed i 78. Se non avesse scritto, nella sua lunga e feconda esistenza, alcuni testi straordinariamente interessanti e godibili, basterebbe la lettura di queste “bolle” per capire di che pasta, è il caso di dirlo, fosse fatto l’uomo: brillante, ironico, fantasioso, acuto osservatore della contemporaneità, talvolta anche ardito, e, sia pur tramite lo scritto, eccezionale conversatore. Una di esse, del gennaio 1974, iniziava con questa esemplare affermazione: “Una mensa spoglia è più sconsolata di un talamo vuoto, di un focolare spento, di un altare sconsacrato”, ma fra tutte una credo sia emblematica ed esaustiva, questa del maggio 1977: “… leggevo un fascicolo processuale di “atti osceni in luogo pubblico” (art. 527 Cod. Pen. da 3 mesi a 3 anni) e mi annoiavo – “Signori Giudici, questo vivace giovanetto e questa spontanea fanciulla non hanno rapinato banche, non hanno sequestrato industriali, nemmeno hanno ammazzato carabinieri, giudici, avvocati come oggi si usa, si sono limitati ad un congressino carnale in luogo pubblico, e vorreste condannarli? Ma via. Se non riuscite a condannare le Brigate Rosse! Questi qui Cavalieri li dovete fare, per eccezionale buon contegno civico…! E poi, cosa si vede ancora in pubblico che non sia osceno? – Pensando così alla difesa, fui colto da un’acuta salvatrice voglia di mangiare una gallina bollita. Ne sentivo nelle narici l’odore, caldo, antico, fragrante, vedevo la coscia fumante, lucida e chiara, promettente gustose morbidezze; ne sentivo in bocca il polposo petto, sodo, ideale con il bagnetto…oh, da quanto tempo non mangiamo una autentica, verace gallina bollita!”

 

 

L'AUTORE DELL'ARTICOLO

Astigiani è un'associazione culturale aperta, senza scopo di lucro, che ha bisogno del sostegno di altri "Innamorati dell'Astigiano" per diffondere e divulgare la storia e le storie del territorio.
Tra i suoi obiettivi: la pubblicazione della rivista trimestrale Astigiani, "finalizzata alla raccolta e diffusione di informazioni e ricerche di storia e cultura astigiana dal passato remoto a quello prossimo, con uno sguardo al presente e la visione verso il futuro (dallo statuto), la raccolta di materiale per la creazione di un archivio fotografico, video e documentale collegato al progetto "Granai della memoria", la realizzazione di presentazioni pubbliche e altri eventi legati al recupero della memoria del territorio.

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