Tipicità, tradizione, territorio: queste parole risuonano nel linguaggio gastronomico odierno, sia che si leggano pubblicazioni dedicate alla cucina, sia che si guardi una delle tante trasmissioni televisive in cui si parla e si spadella tra piatti e ricette.
Se va riconosciuto a movimenti come Slow Food – con precise filosofie, iniziative, riviste e libri specifici – il merito di aver portato all’attenzione del grande pubblico i temi del gusto, della cucina tradizionale regionale, del consumo consapevole, del valore economico e culturale dei prodotti del territorio e della biodiversità, occorre ricordare che già a partire dagli anni Cinquanta la benemerita Accademia della Cucina Italiana – fondata nel 1953 dallo scrittore e giornalista Orio Vergani – si assumeva l’impegno di salvaguardare i principi della civiltà italiana della tavola con lo studio e la ricerca, non disgiunti da strumenti pratici di azione, anche educativa.
Un’associazione per bons vivants, forse un poco elitaria (per essere accolti occorrono precise credenziali sottoscritte da due Accademici “presentatori”) che, nel tempo, ha prodotto pure interessanti pubblicazioni, tra cui guide alla ristorazione.
E proprio dell’Accademia l’astigiano Giovanni Goria fu membro dal 1962, per oltre trent’anni delegato per l’Astigiano e per il Piemonte, successivamente vicepresidente, per entrare poi nell’Albo d’onore dell’Accademia stessa.
L’Avucat ha speso una vita tra ricerche storiche e memorialistiche, tra convegni e ascolto di testimonianze orali, tra “minute di cucina” del passato e menù del presente. Menù che ha saputo ideare e consigliare agli stessi ristoratori, con i piedi ben saldi nella tradizione territoriale e vivaci elaborazioni linguistiche.
Perché si fa presto a dire “Cappone bollito”. Ma quale cappone, e come viene lessato e presentato? Nel suo fortunatissimo La cucina del Piemonte. Il mangiare di ieri e di oggi del Piemonte collinare e vignaiolo – una vera e propria summa di ricette commentate nel suo stile fiorito e pur familiare, cui hanno attinto chef, buongustai e comuni massaie – il piatto succitato reca questa denominazione: “Cappone di Roccaverano lesso nel fieno maggengo con le tre salse dolci dei padri”. Il che ci rivela la scrupolosa attenzione alla provenienza della materia prima, al legame con la tradizione (in questo caso le tre salse: mostarda d’uva, sâüsa d’avije e sâüsa dossa ‘d tomàtiche), alla tecnica di cottura.
Stupiva, per la ricchezza di dettagli, la struttura dei menù concordati con Goria per le numerose edizioni della “Sette giorni della gastronomia astigiana”.
Ma quel “Coniglio autunnale in bagna di verdure annidato nella polenta ricca” evocava potentemente l’immagine del piatto, facendone pregustare la consistenza, il profumo, il sapore.
E la sua vita Goria l’ha spesa anche ai fornelli, a sperimentare dosi, cotture e condimenti (sui quali non ha mai lesinato!) e a proporre agli amici l’assaggio di una pietanza recentemente riscoperta o reinterpretata. Capitava di incrociare nei pressi di via Giobert sua moglie Margherita carica di provviste che, tra una sbuffata e un sorriso orgoglioso, ti diceva «Anche stasera una cena a casa nostra…».
Tra i banchi dei contadini in piazza Catena
Giovanni, intanto, si aggirava attento e curioso tra le bancarelle dei contadini di piazza Catena, in cerca di un mazzetto di lavertin o di altre erbette selvatiche primaverili che, tra l’altro, entrano spesso nella composizione dei suoi piatti. S’intrufolava volentieri nelle cucine degli amici ristoratori a scoperchiare pentole, suggerire un accorgimento, assaggiare “di sale”.
Loro accettavano di buon grado, affascinati dalla sua competenza e dalla sua affabulazione, unite alla finezza del gesto da gentiluomo di campagna e alla bonomia tutta piemontese.
E sono nate amicizie e collaborazioni concrete: con Mariuccia del San Marco di Canelli piuttosto che con Claudia della Contea di Neive: (si veda, ad esempio, il prezioso volumetto In cucina a quattro mani, che scandisce le ricette secondo la stagionalità, altro concetto caro a Goria, divenuto poi un mantra per tutti i gourmet).
Tanti astigiani conservano religiosamente le dispense da lui predisposte per i corsisti dell’Università della terza età, che lo ha visto docente per sei anni. E le sue ricette sono allettanti e “facili” da eseguire, tanto sono particolareggiate e ricche di consigli e avvertenze operative.
Un esempio. Parlando di fichi per una torta: «Siano i nostrani bianchi piccoli, quelli che maturano a settembre. Che non siano troppo molli né sfatti. Tagliate loro il picciolo con le forbici e fateli friggere in una larga padella con 70 g di burro, e salandoli leggerissimamente sulla fine della friggitura. Metteteli da parte su carta assorbente…». Sono pure molto belle da leggere, le ricette, perché Goria le correda di gustose curiosità e, soprattutto, di notizie sul contesto sociale ed economico che le ha originate.
Apprendiamo così che la cucina piemontese ha una triplice radice: la cucina popolare, per lo più contadina e, in parte, montanara; quella borghese urbana; quella nobile di corte o di palazzo. Impariamo, per diversi piatti, le varianti del “mezzadro” e del “padrone”, del “contadino” e del “borghese”; conosciamo gli sfizi della cucina di corte: si legga, ad esempio, la Bagna caôda Madama Reale. Ed è inutile dire che le numerose pagine dedicate alla Bagna – cavallo di battaglia di Goria – sono interamente da leggere, al di là delle specifiche ricette.
Ci piace chiudere con un cameo dello storico e gastronomo Marco Guarnaschelli Gotti: «Ci sono autori che, indipendentemente dal magistero tecnico, raggelano la materia: le salse si addensano immote nei loro testi, le fricassee non sprigionano aromi, bisogna fare per capire. Goria è il contrario: la gioia tattile e papillare si sprigiona dalla sua pagina». E, scorrendo le righe, pare di avere sotto il naso il commovente profumo di quel risotto “ben temperato”. Oppure, sotto i denti, il “sapore vispo, appena bruschetto” di una certa galantina gelatinata, denominata il Brusch delle Langhe.