Se ne parlava già nel XIII secolo nel poemetto anonimo francese, La bataille de Caresme et de Charnage (La battaglia di Quaresima e Carnevale), surreale scontro tra le armate dei cibi magri e quelle dei cibi grassi. Una singolare parodia – scritta nella classica forma del fabliau francese – forse del lusso dei “signori” o forse del codice d’onore cavalleresco dell’epoca, ben rappresentato dalle Chansons de geste.
Quaresima e Carnevale sono raffigurati come due cavalieri alla corte di Re Luigi: Quaresima cavalca un mulet (che vuol dire mulo ma anche, in francese antico, cefalo), Carnevale è in sella a un grande cervo dalle possenti corna.
L’esercito del primo è un’armata di pesci (naselli, passere, sgombri, anguille…) che si scontrano con capponi arrosto,carni di bue, salsicce di maiale, mentre gli ortaggi militano in
entrambi gli schieramenti, a seconda di come sono conditi!
Ne segue una gran mischia, in cui Quaresima sembra avere la peggio. Arriva allora il cavalier Natale, scortato da una schiera di salami e prosciutti, e propone un compromesso: Quaresima deve accettare la sconfitta e viene bandito, a eccezione di una quarantina di giorni l’anno in cui potrà dominare.
Il confronto/ scontro è immortalato a metà Cinquecento anche dal pittore olandese Pieter Bruegel il Vecchio nella sua grande tavola Lotta tra Carnevale e Quaresima. Qui Carnevale, un uomo tarchiato e panciuto, siede a cavalcioni di una botte e si reca alla battaglia con uno spiedo sul quale troneggia una testa di maiale; di fronte a lui la Quaresima, pallida, scarna e vestita di un povero saio, brandisce una pala con due misere aringhe.
Una questione, quella dei giorni di grasso e giorni di magro, di grande importanza per la liturgia cattolica che, com’è noto, ha codificato le pratiche penitenziali (digiuno e astinenza dagli alimenti carnei) nel corso del tempo, con un “picco” all’epoca del Concilio di Trento e una “visione rinnovata” a partire dal Concilio Vaticano II. Alla luce del documento della Cei (1994), infatti, i fedeli sono tenuti a osservare digiuno e astinenza il Mercoledì delle Ceneri e il venerdì della passione e morte di Cristo; l’astinenza in tutti i venerdì di Quaresima, mentre negli altri venerdì dell’anno l’astinenza può essere sostituita da buone pratiche di preghiera, di rinuncia, di carità.

Fino a una cinquantina di anni fa, in ogni caso, per le generazioni che ci hanno preceduto, nei quaranta giorni che precedono la Pasqua – la Quaresima, appunto – mangiare di magro era un imperativo. Secoli di profonda interiorizzazione delle regole, accompagnata dalla creatività culinaria che ha sempre fatto “di necessità virtù”, hanno messo a punto un vasto repertorio di piatti di magro, diventati ricette tradizionali di grande bontà e, per giunta, dieteticità: dal cappon magro ligure allo scammaro napoletano, dalle tante varianti dei tortini di alici ai dolcetti quaresimali, diffusi in tutta l’Italia del centro-sud.
Interpellando nonni e bisnonni delle campagne astigiane, che hanno vissuto l’infanzia alla fine degli Anni Trenta e negli Anni Quaranta – per giunta con l’aggravante della guerra – capita di sentir dire: «Ma per noi era Quaresima tutto l’anno! Di carne, pochissima: un pezzo di bollito la domenica o un coniglio allevato nella stalla. Nel periodo giusto, salsiccia e sanguinacci. Di certo non li mangiavamo dopo il Mercoledì delle Ceneri!».
Non restava che mettere in tavola, allora, pane, minestre e zuppe di verdure e legumi (su tutti, data la stagione, patate, cavoli, ceci e fagioli secchi messi ad ammollare), uno stufato dei predetti ortaggi, qualche composto di farina di grano, come la pasta fatta con pochissime uova.
La stagione della bagna cauda arrivava comodamente a superare la primavera così come la polenta. Polenta, e ancora polenta con i suoi companatici “magri”: latte, mostarda, due acciughe disciolte in un cucchiaino d’olio con abbondante conserva preparata nell’estate e,
naturalmente, il merluzzo.
Grande risorsa il baccalà (ovvero il merluzzo conservato sotto sale) per la cucina di magro nazionale, soprattutto quella dei ceti minori – cittadini e campagnoli – che, lontani dal mare, dovevano ricorrere al pesce conservato.
«Gli astigiani del Cinquecento – scrive Gianluigi Bera nel Codice della cucina autentica di Asti – furono conquistati da quel pesce “esotico” molto più grande, polposo e saporito dei pesci salati che si trovavano in giro all’epoca, e soprattutto molto più conveniente e versatile in cucina. Lo adottarono con entusiasmo, lo introdussero con ogni onore sulle proprie tavole, e lo diffusero capillarmente nella cucina popolare e contadina».
A riprova del suo successo, basta scorrere le pagine dedicate al pesce de Il cuoco piemontese perfezionato a Parigi (1766) per trovarvi almeno sei ricette a base di “mollua” (trascrizione fonetica del termine francese morue, merluzzo salato o essiccato) cucinata con salse a base di burro o di agresto, in beignet, farcita di un composto di funghi, cipolla e uova…
Se questi piatti erano destinati alle classi superiori, i nostri contadini rispondevano con merluzzo fritto con le cipolle, merluzzo cucinato al verde e merluzzo comodà, con gusti dell’orto e l’immancabile conserva di pomodoro, per ottenere una bagna abbondante.
In ogni caso, sia per le prescrizioni alimentari sia per i divieti riguardanti la sfera dei comportamenti – Va nen a r’ostu, dicevano le mogli ai mariti. T’vei nen a balé, dicevano le madri alle figlie – la Quaresima era vissuta come un periodo grigio, triste, che non finiva mai: lung cume ‘na Quarèisma, appunto.











































