Cercherò di raccontare la mia amicizia con Giovanni Goria con la giovialità e l’allegria che lo distinguevano.
Ci siamo conosciuti nel 1976 per organizzare assieme un corso di cucina per la circoscrizione Asti Est: lui il noto gastronomo reduce da brillanti trasmissioni culinarie radio e televisive, io sconosciuto appassionato di cucina con l’unico merito di aver avuto come Lucio Cappannari, chef e Cordon Bleu, che mi aveva preso in simpatia e spiegato che “cucinare” e “far da mangiare” sono due cose diverse.
Mi squadrò per bene e buttò lì, con noncuranza, alcune domande tecniche alle quali, per fortuna, risposi senza battere ciglio. Stavo passando l’esame.
Continuò a fissarmi ancora per una decina di secondi, poi il suo viso si allargò in un grande sorriso e tendendomi la mano disse: «Dovremo passare un po’ di tempo assieme, perciò è meglio darci del tu» e con una strizzatina d’occhio aggiunse «e dovremo anche assaggiare le ricette che insegneremo…».
Non ci volle molto per diventare amici, avevamo in comune il piacere della buona tavola e, si sa, la tavola è da sempre il miglior mezzo per creare convivialità e buon umore. E di questo Giovanni non era di certo sprovvisto, sempre pronto alla battuta e sempre col sorriso sulle labbra, e quando raccontava qualche aneddoto legato a una particolare ricetta tradizionale o ne elencava anche solo gli ingredienti, riusciva a far sorridere chi lo ascoltava.
Quella parcella pagata con la conserva di pomodoro
Un concentrato di cordialità e simpatia, anche nella professione legale, che svolgeva con passione e professionalità. Andavo sovente a trovarlo nel suo studio di via Giobert, di solito dopo le 18, ora in cui il fratello e le segretarie si erano già ritirati e noi potevamo tranquillamente parlare di cucina; una volta sola lo vidi arrabbiato, per qualche problema con un cliente, ma appena mi vide si rasserenò e aperto uno dei quattro o cinque scatoloni che ingombravano il piccolo ufficio, ne estrasse due barattoli di latta, senza etichetta, e porgendomeli disse: «Assaggia questa conserva, è buonissima, una con solo pomodoro e basilico e una con un pizzico di peperoncino…».
E mi spiegò che un suo cliente, con pochi soldi e una famiglia numerosa, aveva acquistato, a poco, una macchina per inscatolare e così, con la collaborazione di tutta la famiglia, produceva grandi quantità di salsa per il fabbisogno famigliare. E così la sua parcella, anziché in lire, venne pagata in conserva. E sono convinto che al mio amico avvocato andasse bene così.
Era anche goloso e spesso si lasciava tentare da qualche leccornia, dolce o salata, per questo veniva, sovente ma bonariamente, bacchettato da Rita, sua moglie.
Andava di frequente in un bar di piazza Catena, quando c’era ancora il tribunale, a prendere un caffè e a sfogliare il giornale, appoggiato al frigo dei gelati. Un giorno, mentre stava mangiando una focaccia farcita, entrò sua moglie e lui, rapidamente, si sbarazzò della prova che lo avrebbe dichiarato colpevole.
Alcuni giorni dopo, Daniele, il proprietario del bar, cercava di capire cosa ci facesse una focaccetta smangiucchiata nel frigo dei gelati… Giovanni aveva occultato il corpo del reato.
In quegli anni io avevo un capanno da pesca in riva al Tanaro, alle Rocche di Castagnito, dove il fiume non era inquinato, e d’estate organizzavo grandi mangiate di pesce d’acqua dolce, che Giovanni apprezzava particolarmente.
Facevamo anche il mitico “festival della gallina bollita” con un gruppo di amici canoisti. Un novembre freddo e nebbioso feci una bagna cauda “legale”, invitando anche gli avvocati Piero Bagnadentro e Gigi Gambino, con le rispettive mogli.
Giovanni portò un monumentale Monte Bianco di castagne che al momento del dolce, ormai sazi, venne appena intaccato. Quando tutti se ne furono andati e io e mia moglie iniziammo a rassettare, ci accorgemmo che la copertura di panna montata era sparita. Qualche giorno dopo lo vidi e mi confessò che: “ …era troppo buona per lasciarla inacidire…”.
Parlavamo molto, e non solo di cucina, soprattutto quando tenevamo dei corsi fuori Asti. Giovanni non amava molto guidare e così diventai il suo autista “ufficiale”: passavo a prenderlo con la mia auto e ci facevamo delle lunghe chiacchierate su famiglia, politica, religione, lavoro… senza mai nessun contrasto, ma chiedendo e accettando, reciprocamente, consigli e suggerimenti.
Nel 1997 mi fece l’onore di farmi invitare in Germania a preparare una cena della delegazione tedesca dell’Accademia Italiana della Cucina e mi presentò a Monaco a un ristoratore italiano che volle cucinassi nel suo locale tutte le specialità piemontesi. Furono le ferie più gustose della mia vita.
Insieme, per 20 anni abbiamo fatto corsi di cucina per l’UTEA, per la Coldiretti, per varie Associazioni ed Enti, trasmissioni per le tv locali e, per la Provincia, corsi di cucina negli agriturismi, proponendo ricette riscoperte o dimenticate, per offrire al pubblico piatti sempre nuovi nel rispetto della tradizione e della tipicità.
E proprio nei piatti e nelle ricette da lui riscoperte, c’è tutto il colore, il profumo e la giovialità del Piemonte e del Monferrato. Quando iniziai la mia collaborazione settimanale con La Stampa, erano un po’ di anni che non facevamo più niente assieme, lui aveva deciso di riposarsi e io avevo i miei doveri scolastici, sempre più impegnativi.
Mi telefonò dopo aver letto il mio primo articolo per complimentarsi e spronarmi a continuare ad interessarmi del “buon mangiare”.
Ho cercato di seguire il suo consiglio.
Giovanni per me è stato un buon Maestro, e non solo di cucina…