Maria Elvia ha mani grandi e forti. Rassicurano e accarezzano nello stesso momento. Come lo sguardo. È nata il 26 giugno del 1916 e nella sua lunga carriera di ostetrica ha fatto nascere migliaia di bambine e di bambini astigiani. L’ho incontrata per caso dalla parrucchiera, un sabato pomeriggio.
Una signora elegante, mocassini, camicetta bianca e la collana di perle, capelli corti color argento. È stata Olga, la titolare, a mettermi la pulce nell’orecchio: «Roberta – mi sussurra – ma lo sa che quella bella signora ha più di cento anni? È un’ostetrica che ha fatto nascere mezza città». D’istinto mi avvicino e mi presento: «Ho saputo che ha fatto nascere tanti bambini e forse tra quei bambini ci sono anche io – le dico –. Io sono venuta al mondo nell’anno della Luna alla clinica San Giuseppe». «Non so cara – mi risponde – io facevo nascere i bambini in casa e qualche volta in clinica. Niente di speciale, sa, solo il mio lavoro».
Va bene, siamo molto piemontesi vale la regola dell’“esageruma nen” ma una signora di quasi 103 anni che ha contribuito a far venire al mondo migliaia di bambini astigiani di cose e storie da raccontare ne avrà di sicuro. E così dopo qualche settimana – e un’altra messa in piega – un sabato pomeriggio a casa della figlia Luciana, ha accettato di aprire il suo libro della memoria per Astigiani, e questa rubrica “Confesso che ho vissuto” le si adatta a pennello. E siccome Elvia è una donna spiritosa ha anche accolto il fotografo per il ritratto di rito e non ha fatto una piega quando le è stato proposto di posare accanto alla riproduzione a grandezza naturale di una cicogna.
Per un’ostetrica un abbinamento perfetto. “Questa poi non me l’ha aspettavo proprio. Certo la cicogna è in tema perché è un animale che porta gioia, come i bambini”.
“Durante la guerra feci nascere un bambino ebreo, registrandolo sotto falso cognome”. “Ho lavorato in molti paesi e poi ad Asti Sud”
Maria Elvia dov’è nata?
«Sono nata a Calamandrana alta, in una cascina. La famiglia Cavallotti produceva e commerciava vino. Io ho realizzato il sogno di mia mamma, che era originaria di Rocchetta Palafea, e avrebbe voluto fare la levatrice, come si diceva allora».
È stata sua mamma a spingerla a studiare?
«Sì, è così. A 18 anni mi sono iscritta alla Scuola di ostetricia di Torino, andavo su tre volte alla settimana e dovevo prendere tre treni. Andavo a piedi fino alla stazione del paese, poi con un treno f ino a Nizza, poi con un altro fino ad Asti e con il terzo fino a Torino. La scuola era in una traversa di corso Vittorio. Ricordo i primi esami: anatomia, fisiologia, patologia. Dal terzo anno abbiamo iniziato con le guardie notturne. Mi sono diplomata a 21 anni. Ricordo ancora la data, il 21 giugno del 1937. Qualche settimana di tirocinio e il 25 agosto di quell’anno ho visto nascere il mio primo bambino. Chi lo avrebbe immaginato che le mie mani avrebbero contribuito a mettere al mondo altre migliaia di neonati».
Come si lavorava a quei tempi?
«Allora c’erano le ostetriche condotte che avevano ciascuna un proprio territorio di competenza. La politica demografica del Regime favoriva le nascite e le famiglie numerose e il lavoro non mancava, soprattutto nelle campagne. Noi giovani neo diplomate iniziavamo facendo guardie notturne e supplenze. Ad Asti la presidente del Collegio delle ostetriche si chiamava Luisa Bonicelli, mi prese in simpatia e mi aiutò a trovare lavoro. La prima supplenza è stata a Casorzo e poi a Montiglio. Il primo gennaio 1938 ottenni il mio primo incarico provvisorio a Castello d’Annone, dove sono rimasta per poco meno di tre anni. Lì ho conosciuto mio marito Giuseppe che lavorava a Torino per l’Ente nazionale prevenzione infortuni. Gli incarichi all’epoca duravano due anni e si accedeva per concorso, ogni Comune metteva a bando la condotta e l’incarico veniva affidato dal segretario comunale. Ho lavorato ad Agliano, Rocca d’Arazzo, poi ho vinto il concorso per Isola e mentre ero lì ho fatto anche il concorso per Torino».
E nel frattempo l’Italia era entrata in guerra…
«Ci siamo trasferiti a Venaria perché mio marito era stato richiamato alle armi, ma distaccato nell’ufficio dove già lavorava. L’8 settembre del 1943 il segretario comunale mi disse che c’era brutta aria, che era meglio lasciare le città. Con mio marito in bicicletta pedalammo fino ad Asti e da lì fino a Calamandrana. Ci siamo nascosti per un po’ e poi ci siamo trasferiti a Isola, dove è nata la mia prima figlia Luciana».
Ha partorito da sola?
«Eh no, ho dovuto chiedere l’aiuto del medico perché dopo due giorni di travaglio la bimba aveva fatto una rotazione sacrale, una di troppo. Non potevo fare da sola. Però poi mi sono ripresa in fretta e ho iniziato subito a lavorare».
“La regola del travaglio era che non doveva durare più di due tramonti del sole”
Durante la guerra andava in giro da sola, notte e giorno?
«Sempre, quando arrivava qualcuno a chiamare si partiva, a piedi o in bicicletta. Ricordo una notte di nebbia, a Isola alta c’era il comando dei partigiani. Mi puntarono addosso il fucile e mi intimarono l’altolà. Poi mi riconobbero e mi fecero passare perché la figura dell’ostetrica era rispettata. Però che spavento, Luciana aveva 40 giorni».
Avrà fatto nascere tanti bambini anche di famiglie sfollate…
«Tanti. Ho però un ricordo particolare per una famiglia ebrea che era nascosta in una cascina. Avevano splendida biancheria in lino, si capiva che erano benestanti, ma vivevano in condizioni davvero penose. Vidi nascere il loro secondo bambino e andai io a registrare la nascita dandogli un cognome diverso da quello dei genitori per non farlo scoprire».
Che altri parti avventurosi ricorda?
«Quello in una stalla di Agliano dove si era accampata una famiglia di pastori in transumanza. La mamma aveva preparato tutto con cura, stesi i materassi per terra, aveva preparato tante pezze di quel tessuto a righe che si utilizzava per gli strofinacci da cucina. Fu un parto facile perché quella donna semplice e coraggiosa aveva già avuto altri figli».
Quali erano gli strumenti del mestiere? Solo acqua calda e asciugamani, come descrive l’immaginario cinematografico?
«Poco di più. Olio di canfora per dare forza alla mamma, guanti, laccio emostatico, stetoscopio per ascoltare il battito cardiaco, alcol che si infiammava per sterilizzare bacinelle e attrezzi. Tutto il resto lo facevano le mani».
Perché ha preferito lavorare a domicilio piuttosto che in ospedale?
«Non mi piaceva andare in Maternità, dove si lavorava in tanti e nessuno si assumeva la responsabilità. È solo un mio pensiero, naturalmente. Mi è sempre piaciuto fare e decidere in autonomia, chiedendo l’aiuto del medico solo quando era davvero necessario. Sono stata fortunata perché è sempre andato tutto bene. La difficoltà maggiore era tenere a bada e tranquillizzare i familiari, soprattutto certi padri ansiosi. E a volte anche i nonni. Ricordo un famoso mobiliere di Asti che quando sua figlia partorì due bambine non si dava pace. Voleva il maschio e quando mi incontrò mi disse scherzando, ma non troppo… “ma lo sa che lei me l’ha fatta bella, passi una femmina ma due in un colpo solo, andremo in rovina con le doti” ».
“Non ho tenuto il conto esatto ma penso di aver fatto nascere almeno 2500 bambini”
Le donne erano più forti di oggi?
«C’erano donne terrorizzate che si abbandonavano totalmente. Io le tranquillizzavo: è la natura – dicevo – devi essere coraggiosa, devi fare uno sforzo deciso. Però la regola era che il sole non doveva tramontare due volte. Se il travaglio si prolungava oltre bisognava chiamare il medico e magari serviva il taglio cesareo».
Che tipo di assistenza veniva data a mamma e neonato?
«I primi due o tre giorni dopo il parto si passava a fare una visita di controllo due volte al giorno. Se non c’erano problemi particolari la mamma e il neonato venivano seguiti per almeno otto giorni, si controllava l’espulsione della placenta, la montata lattea, che non sopraggiungesse l’ittero…».
Quando ha ottenuto il suo incarico ad Asti?
«Nel 1949 ho fatto il concorso in Provincia e ho vinto il posto. Solo che per averlo dovevo avere domicilio in città nella zona della condotta che comprendeva parte di borgo Tanaro, il Torrazzo, San Marzanotto, Trincere e le zone vicine. Appena finita la guerra era difficile trovare alloggi. Allora con mio marito abbiamo comprato un terreno in corso Savona e costruito una casetta. Mio marito dopo la guerra aveva insegnato per un anno e poi era tornato al suo impiego a Torino all’ENPI. Ironia della sorte. Dopo pochi mesi che avevamo completato la casa, mio marito riceve un’offerta per un posto da dirigente all’Unilever a Milano, una fabbrica di saponi e detersivi. Il trasferimento di tutta la famiglia era complicato. Nel 1950 era nata Dina, la mia secondogenita. Sono rimasta ad Asti con le bimbe e mia suocera che mi aiutava. Mio marito tornava a casa il mercoledì sera e il venerdì per restare nel fine settimana. A quei tempi eravamo tra i pochi in corso Savona ad avere il telefono che per il mio lavoro era essenziale. All’inizio mi spostavo con la bicicletta poi con un motorino, poi nel 1954 ho preso la patente e ho avuto la mia prima auto, la mitica 600 della Fiat. Un’altra vita. Per tutti in corso Savona ero la madamin Conti e mi chiedevano consigli su tutto. Evidentemente avevano fiducia. Il nostro vicino di casa Giuseppe Salla che tutti conoscevano come il Puciu, una volta mi chiamò anche per la sua cagnetta che doveva partorire”.
Ha idea di quanti bimbi ha fatto nascere nella sua lunga carriera?
Non ho tenuto il conto preciso. Ogni tanto per strada trovavo mamme che mi riconoscevano e mi facevano vedere i bimbi che avevo fatto nascere anni prima. Era anche tradizione che invitassero l’ostetrica al battesimo. Ho decine di foto con in braccio il porta enfant del neonato di turno. Ricordo che il mio primo parto è stato a Calamandrana il 25 agosto del 1937 e l’ultimo quando avevo la bellezza di 78 anni, in una clinica privata di Asti. Sono andata in pensione con 43 anni di servizio, ma poi mi hanno ancora chiamata per consulenze o per sostituire colleghe. A naso direi che saranno stati circa 2500, tra questi ci sono i miei nipoti, Silvia e Andrea. Farli nascere è stata l’emozione più grande della mia vita, come dare alla luce Luciana e Dina».
Ma intanto è diventata anche bisnonna…
«Mia nipote Silvia ci ha regalato la gioia di Chiara, che oggi ha 13 anni, ed è bravissima a scuola, il nostro orgoglio. L’altro pronipote Stefano purtroppo è mancato a 6 anni…».
Dopo un silenzio che sembra infinito e con le lacrime agli occhi, Maria Elvia confida il dolore e la spietatezza della malattia che tutto l’amore del mondo non è riuscito a sconfiggere.
Il pensiero vola poi a Giuseppe, il compagno di una vita, mancato dopo soli 18 mesi dall’inizio della pensione: «Mio marito se n’è andato quando finalmente avremmo potuto stare insieme, senza l’ansia del lavoro. Però – prosegue Maria Elvia – ho una famiglia meravigliosa, che non mi fa mancare affetto e attenzioni. Le mie figlie si sono entrambe laureate e hanno insegnato lettere nelle scuole astigiane. È capitato che bambini che ho fatto nascere siano poi stati loro allievi. La domenica stiamo sempre tutti insieme e a breve ci sarà il matrimonio di mio nipote Andrea: che cosa posso volere di più? Tutti i pomeriggi dalla finestra guardo i bambini che escono dall’asilo. Sono bellissimi, i bambini sono la gioia della vita».
“Tutti i pomeriggi dalla finestra guardo i bambini che escono dall’asilo. Sono bellissimi, i bambini sono la gioia della vita”
Ai centenari si chiede sempre la ricetta della lunga vita.
«Tanta frutta, anche se oggi non si trova più buona come quella che da piccola raccoglievo nel giardino di casa, direttamente dall’albero. Poco caffè. Mangio un po’ di tutto, ma prediligo i sapori semplici e antichi, il pane e salame, il gorgonzola, e anche la bagna cauda. Sono gli ingredienti delle colazioni che mia mamma preparava al mattino per chi andava a lavorare nei campi. I miei peccati di gola: torrone e castagne bianche crude».
Al traguardo dei cento anni lei ha ricevuto il titolo di Patriarca dell’Astigiano.
«Mi ha telefonato il sindaco di Asti Brignolo ed è venuto a casa mia, c’era anche il presidente della Provincia Gabusi. Troppo onore, ho solo cercato di vivere in modo giusto. Certo lo so che a quelli dell’Inps faccio venire un po’ di rabbia, ma fin che potrò la pensione la prendo, me la sono guadagnata».
Si riconosce in questa società?
«Tante cose non mi piacciono: il lassismo, il disordine, lo spregio per le cose e per le persone. Quando ero giovane le persone erano meno colte, ma molto più educate. L’istruzione comunque è importante. Io sono rimasta iscritta per tanti anni all’Utea, frequentavo i corsi di Medicina, Psicologia ed Egittologia, mi piace la storia dell’antico Egitto».
Quale consiglio darebbe oggi a una giovane collega ostetrica?
«Di essere come la mamma delle mamme. Il nostro è un lavoro bellissimo che porta gioia. Come le cicogne, già proprio come le cicogne».