Io e il Tanaro. Conosco il fiume, ci ho vissuto vicino per tutta la vita. Da bambini ci era “proibito”. Le raccomandazioni di mio papà di non andare a Tanaro a fare i bagni erano giornaliere. Il pericolo dei “mulinelli” sempre in agguato e ogni tanto qualcuno ci rimaneva annegato.
Conoscevo i suoi orari di lavoro, dicevo a mia madre che andavo all’oratorio e invece andavo al fiume. Per me era una festa. Me lo ricordo bene: c’erano i barcaioli con i loro navet, pescatori sulla riva, bagnanti. Le coppiette che riuscivano a defilarsi, si appartavano dietro alle ciuende e ai gurei, i cespugli di canne. I signori arrivavano alla trattoria del Gener con le prime auto.
Si raccontava che ai tavoli di quel locale c’erano passati anche Valletta e gli Agnelli, venuti da Torino con le prime auto Fiat per mangiare le alborelle fritte e la anguille in carpione , il pollo alla cacciatora, gli agnolotti di Romilda e del “ barba Toni”. Forse erano solo fantasie, ma i piatti delle specialità quelli erano veri.
Altri stendevano tovaglie sulla sabbia della spiaggia e dai cestini di vimini facevano uscire prelibatezze fatte in casa. Di soldi ce ne erano pochi, e non tutti si potevano permettere il tavolo del Gener.
Un giorno ho fatto male i calcoli degli orari di mio papà. Anche quel pomeriggio, non ressi all’idea di andare a fare un bagno in Tanaro. Tutti i miei amici erano già in acqua, anche loro erano disubbidienti al consigli paterni. Ritornai a casa con le mutandine (il costume non lo avevamo quasi mai) ancora umide, con l’odore della nitta che non nascondeva il bagno fatto.
Papà aveva anticipato il rientro. Nel vedermi mi chiese «da dua at ruvi ?» Non attese la risposta e mi prese per un braccio sollevandomi quasi da terra. Mia madre lo pregò di non picchiarmi. Cominciò a darmi delle sberle sulle cosce. Finito il “massaggio” mi sono seduto sulla lastra di luserna del balcone, con le gambe a penzoloni per farmele raffreddare. Mio papà usava solo le mani, alcuni altri papà la cinghia dei pantaloni, per non dire i sars (rami di salici). Mi voleva bene e quella lezione, che avrei meritato già altre volte, mi insegnò l’ubbidienza e la prudenza e anche la voglia di non passare mai più per le mani di papà. Il mio, senza offesa a nessuno, era un papà di un tempo.
Ricordo anche che alla fine della guerra, avevo sei o sette anni, il Comune di Asti aveva creato “I solari”, per le cure elioterapiche. Era una specie di colonia vicina a “Gino” una trattoria tra le acacie, alla foce del Borbore che si immetteva nel Tanaro. Era stato ricavato un laghetto con l’acqua che non superava i 30 cm. di profondità. C’erano le assistenti e noi bambini giocavamo in sicurezza.
Ricordo una signorina che di cognome faceva Amerio. Tutte le mattine nel transitare davanti a casa nostra, riceveva da mia mamma la raccomandazione di stare sempre con un occhio sul suo Piero. Ero uno dei bambini più vivaci di borgo Tanaro. Ricordo un pomeriggio fuori periodo “colonia” mia mamma con alcune amiche vicine di casadecisero di portare i figli a fare il bagno da Gino.
Avevamo già indossato da casa il costumino nero con tanto di pettorina. Eravamo senza scarpe e alle due del pomeriggio, dopo 50 metri di cammino sull’asfalto reso bollente dai raggi del sole ci lamentavano. Le madri ci dicevano: Fevi furb, custa a le la natura (fatevi furbi questa è la natura). C’era il bagno che ci aspettava e c’era il fiume che era il nostro grande compagno di giochi. Il destino mi ha riservato una vita da ristoratore, proprio in riva al Tanaro. L’ho visto ferito dall’incuria e dai troppi inquinamenti e feroce nella sua rabbia alluvionale, ma continuo a considerarlo il fiume della mia vita.