Un monferrino finito quasi per caso alla corte dei grandi registi, a cominciare da Sergio Leone
Una vita in 155 ciak. Carlo Leva, classe 1930, occhi azzurri che hanno visto il mondo; più di mezzo secolo passato tra studi cinematografici e sui set più disparati per ricostruire scenari, palazzi, saloon, villaggi e città immaginarie. Una vita da scenografo, a contatto con grandi registi e attori famosi. Creatore di scene memorabili.
Carlo Leva si è spento il 4 aprile 2020, aveva 90 anni.
Ultimo aggiornamento: 18 marzo 2022
Come si entra nel mondo del cinema partendo da un piccolo paese del Monferrato?
“Un po’ per caso, un po’ per fortuna e anche grazie a tanta voglia di riuscire. Io sono nato a Bergamasco, nel Sud del Piemonte, tra Acqui e Nizza, il 21 febbraio 1930. Papà Alberto e mamma Angela vivevano a Genova, ma quando ci fu da farmi nascere tornarono a Bergamasco perché mia nonna Vittoria era l’ostetrica del paese: metteva al mondo tutti, ci mancava che non lo facesse per suo nipote. Gli altri nonni erano di La Spezia, Carlo e nonna Clelia era della famiglia Macchi, quelli della Aermacchi che facevano gli aeroplani”.
Dunque una nascita monferrina in salsa ligure?
“Io mi sento piemontese, o meglio monferrino. Bergamasco è il mio paese. Ci sono tornato a vivere. Mi piacciono le colline e la gente. Da ragazzino ci venivo per le vacanze. A Genova, come tutti quelli della mia età, a quei tempi, mi facevano fare il Balilla, ma preferivo il paese che giocare a far la guerra in camicia nera”.
Purtroppo poi la guerra, quella vera, arrivò nel 1940.
“Genova era bombardata dagli aerei e dal mare, noi sfollammo a Bergamasco. Mia madre per farmi studiare mi mise in collegio dai Salesiani a Canelli. Ricordo certe notti insonni perché nelle nostre camerate i preti ospitavano anche qualche giovane partigiano, fuggito ai bandi di leva obbligatoria di Graziani”.
Scene da film, ma il giovane Carlo a quei tempi il cinema lo vedeva solo da spettatore…
“Calma, calma. La storia si dipana. Tutto merito di due mie zie che stavano a Bruno, il paese vicino a Bergamasco e facevano le merciaie. Ricordo quel negozio: i colori i profumi di stoffa e cera. Zia Armanda e zia Maria videro che disegnavo bene e insistettero con mio padre per farmi iscrivere al liceo artistico.
Andò così?
“Mio padre era di altra idea: con tutte le distruzioni causate dalla guerra bisognerà ricostruire, pensava. Figliolo diventa geometra. E geometra fu, ma di malavoglia. Le zie però non si diedero per vinte e mi fecero prendere lezioni di disegno e così riuscii a dare l’esame al liceo artistico da privatista e quindi iscrivermi all’Università ad architettura”.
Scusi, ma al cinema non ci siamo ancora arrivati…
“Eccoci. In quegli anni a Genova fui tra i fondatori di un film club studentesco: eravamo affamati di cinema: proiettavamo di tutto dal neorealismo italiano ai giovani registi francesi, senza dimenticare il film d’azione americano o i gialli di Hitchcock. Io mi ricordai che mio nonno Carlo aveva in soffitta un vecchio proiettore acquistato a Parigi nientemeno che dai fratelli Lumière. Non serviva, ma mi fece sentire nell’ambiente giusto. E quel proiettore lo conservo ancora come una reliquia”.
Dunque come Carlo Leva, poco più che ventenne, entra su un set?
“Vidi girare un film a Genova “Le mura di Malapaga” con Isa Miranda e Jean Gabin. Mi appassionai. Vinsi una borsa di studio per andare a Roma. Qui venni a sapere che alla Rai stavano lanciando la televisione. Si era nel 1952, avevano bisogno di scenografi. Partecipai alla selezione e vinsi. Il primo lavoro fu curare lo studio di una trasmissione sperimentale “Anche oggi e domenica”. Ricordo la presentatrice Nicoletta Orsomando.
Dunque fu assunto in Rai?
“Un contrattino. La televisione a quei tempi era roba da poche ore al giorno. Il cinema invece lo andavano a vedere tutti. Per campare facevo anche il disegnatore di ambienti nelle trattorie e nei locali da ballo in cambio dei pasti garantiti e un po’ di soldi. Un locale in particolare “La grotta del piccione” divenne famosa e frequentata da tutto il bel mondo, attori, registi. Feci anche l’arredamento di altri posti come il Kit Kat, la Nave a Fregene e mi chiamarono perfino sulla costiera amalfitana a disegnare ambienti mediterranei, per un posto da vip ‘O sarracino”. Si era in piena Dolce Vita. Mi divertivo e sbarcavo il lunario”.
Finalmente arriva un lavoro a Cinecittà?
“Sì, per un Carosello del brodo Liebig con Lina Morelli e Paolo Stoppa. Da allora non mi sono più fermato. Il primo film vero fu “Sodoma e Gomorra” una kolossal biblico come andava ai quei tempi. Io venni ingaggiato dalla Titanus come aiuto scenografo della unità che doveva girare le scene di massa in Marocco. Il capo scenografo, era un torinese Gino Brosio, fratello di Manlio che era in diplomazia e divenne ambasciatore. Fu Gino a presentarmi Sergio Leone, l’aiuto regista di quella troupe”.
È stato l’incontro professionale più importante della sua vita?
“Direi di sì, visto come sono andate le cose. Sergio era un romanaccio simpatico e tosto. Aveva già in mente di girare grandi western, un settore lasciato libero dagli americani di Hollywood dopo l’epopea di H. Ford. Mi chiese se ero disponibile. “Me te compro” mi disse e iniziammo a lavorare insieme con Carlo Simi altro esperto scenografo da film d’azione”.
Nei cinema italiani arrivano a metà degli anni Sessanta titoli divenuti leggendari e allora liquidati come spaghetti-western: “Per un Pugno di dollari”, “Per qualche dollaro in più”, “Il Buono, il Brutto il cattivo”. Più tardi “C’era una volta il west”. Tutti girati in Spagna.
“Allora costava meno e c’erano scenari naturali splendidi tra rocce e deserto. Ma il villaggio western, quello con la strada centrale polverosa, le case, i saloon, gli empori, la banca da rapinare, la chiesa sul fondo. Quello lo abbiamo disegnato e progettato noi. Fatto e rifatto perché i film e le sceneggiature cambiavano, ma la scenografia di base era sempre la stessa. Certo si spostavano le insegne, nuovi colori, diversi i punti dove sistemare le macchine da presa. Leone affittò quegli spazi anche ad altri registi per girarci i loro film western più alla buona. Lui invece era pignolissimo. Controllava ogni cosa: le pistole dovevano essere quelle giuste dell’epoca, i costumi, i treni, e anche gli oggetti anche più minuti e all’apparenza insignificanti: un cappello, un guanto, una bottiglia, uno sperone. Io ero in contatto con l’addetto culturale dell’ambasciata americana per farmi mandare documentazione, disegni, libri, non c’era mica Internet”.
L’attrice che recitò con il suo scheletro
Racconta ad “Astigiani” l’episodio dello scheletro nel film “Il buono il brutto e il cattivo”?
“La scena finale si girava in un desolato cimitero vicino a Burgos che avevo progettato ad anfiteatro, con le tombe messe a raggiera nel deserto. Erano migliaia di tumuli e lapidi. Per realizzarlo ci lavorò per due giorni una compagnia del genio dell’esercito spagnolo. Era di grande suggestione. Clint Eastwood e si suoi compari cercavano il tesoro che sapevano sepolto in una tomba. Scavavano e al primo tentativo era previsto che scoperchiassero una bara con dentro uno scheletro. Leone mi disse “Ah Ca’ qui ce metti uno scheletro vero, mica di plastica eh..” Era in agosto. Dove lo trovo uno scheletro vero nel Sud della Spagna? Un tecnico della troupe mi disse d’aver sentito dire che forse a Madrid c’è uno che ce l’aveva uno scheletro in casa. Telefonate, ricerche, affanni. La scena si doveva girare il giorno dopo. Trovammo un signore che custodiva lo scheletro della sorella attrice, ben felice di farla recitare anche da morta. Partì una macchina. Cinquecento chilometri per recuperare quelle ossa, sperando di non venire fermati dalla polizia. All’alba la scena. Gli attori scavano, spunta lo scheletro. Zoom sul teschio. “Stop! Buona la prima” ordina Sergio Leone. Era andata”.
E poi lo scudo di “mira al cuore Ramon” nell’epica di “Per un Pugno di dollari”
“Quello l’ho tenuto come ricordo. E’ una specie di giubbotto antiproiettile in ferro indossato da Clint Eastwood. Un grande professionista. Uno che studiava i personaggi. Sergio Leone per prenderlo in giro diceva che aveva solo due espressioni: con e senza il cappello, ma non era vero. Ci volevamo bene. Conobbi anche Ennio Morricone. Il successo di quei film si deve anche alle sue colonne sonore”.
A proposito di musica, le sue scenografie hanno dato corpo anche a filmetti leggeri quelli che chiamavano “musicarelli”, storie languide con i cantanti del momento.
“Ho girato con Gianni Morandi, Al Bano e Romina. Il lavoro è lavoro io ho sempre amato ciò che stava facendo. Si passava dal film impegnato con Fellini al suspence internazionale con Alain Delon e la Bardot. Ho fatto cose anche in America. Sono diventato amico di tanti da Gina Lollobrigida a Massimo Girotti a Ugo Tognazzi. Mi ricordo certe cene qui a Bergamasco. Lo lasciavo cucinare, era uno spettacolo”.
Ecco siamo tornati nel Monferrato con gli amici del posto e molti astigiani dal medico Gianni Miroglio a Paolo Conte.
“Bergamasco è la mia Itaca, mi piace ritrovare gli amici”
Carlo Leva, nel 1961, con i primi soldi guadagnati si è comperato la grande casa marchionale al centro del paese. Saloni affrescati e un giardino con patio sulla vallata che ricorda una residenza dei nobili spagnoli. La cucina, la stufa a legna, il camino. Qui vive con la moglie Teresa, conosciuta a Torino, fuori dagli ambienti del cinema. Un amore a prima vista. Sono insieme da 26 anni. Lei lo coccola ed è diventa la memoria storica di una vita racchiusa in ottomila tra bozzetti e disegni, centinai di oggetti di scena, locandine, manifesti di mostre, foto di incontri, targhe e premi. Perfino corazze, elmi, spade usate in un allestimento de “La cena delle beffe”. Una casa dei ricordi che è anche un suggestivo museo del cinema del secondo Novecento con Carlo Leva nel ruolo di Cicerone, che ama raccontare e si diverte a stupire. “Non ho rimpianti se non quello di non aver mai la fatto la regia di un film tutto mio. Ho contribuito a creare illusioni lavorando con la matita e le mani. Modellando carta, legno, metalli, plastilina, perfino fango. Io sono un artigiano, oggi le grandi scenografie le fanno al computer in digitale. Una mia Cappella Sistina allestita per le scene del film “Il tormento e l’estasi” è stata smontata, caricata su cinque Tir e spedita a Hollywood dove l’hanno messa in mostra come un’opera d’arte, manco fossi Michelangelo”.
Carlo Leva si è spento il 4 aprile 2020