Al paese lo chiamavano tutti Livé per via di quel difetto nella pronuncia della faticosa “erre”. Era della leva del 1914 e dovette andare a far la naja in una guerra che, come tanti, non capiva. Non seppero mai in famiglia la verità su quel proiettore da cinema avventurosamente portato a casa al ritorno dalla guerra. Forse arrivava dall’Abissinia. A Roberto, suo figlio, disse un giorno che lo aveva rubato ai tedeschi dopo essere sfuggito al campo di internamento. Livé con quel proiettore voleva raggiungere il suo sogno meraviglioso: far nascere un cinema a Castel Boglione, il suo paese natale. I giovani allora per vedere una pellicola dovevano andare nella vicina Nizza, oppure a Canelli, pochissimi si spingevano fino ad Acqui.
Tornò dalla guerra con un proiettore recuperato chissà dove
Tenne nascosto quel misterioso proiettore in cantina per un paio di anni. Nel frattempo per racimolare i quattrini necessari a comprare la sala del futuro cinema, decise di aprire un forno per cuocere il pane. Erano gli anni del dopoguerra, si riprendeva a vivere e il pane bianco era il simbolo del ritorno alla normalità. Si mise a cuocere il pane in cambio di un piccolo compenso. La gente arrivava al mattino, poi veniva più tardi e ritirava il pane bello e cotto. Livé, tratteneva ogni volta dalle pagnotte un pezzettino che riservava per sé e famiglia. Tempi duri e come diceva Totò: “A volte è difficile fare la scelta giusta perché o sei roso dai morsi della coscienza o da quelli della fame”. Nel frattempo si mise a macellare carne al piano sottostante il piccolo forno. Lavorò faticosamente, ogni giorno, insieme alla moglie e ai figli e infine si comprò una casa con al piano terra un grande garage che finalmente divenne, come ha raccontato Tornatore nel suo film, il suo “Cinema Paradiso”. O a detta di molti, a cominciare dal parroco, il cinema dell’inferno visto che vi venivano proiettati anche film vietati dalla rigida morale dell’epoca.
Pare che anche le processioni evitassero di passare davanti a quel “luogo di perdizione”. In realtà Livé aveva soprattutto un amore sfrenato per i Uester, come scriveva lui stesso sul cartellone che appendeva fuori dal garage-cinema. Sicuramente avrebbe voluto essere come Gion Uein. Castel Boglione con quella sua strada, in salita o in discesa a seconda di come la si percorreva, e le vecchie case come abbandonate diventavano lo scenario immaginario di duelli e avventure del selvaggio Far West.Si era alla metà degli Anni Cinquanta. Perfino tra le vigne di Castel Boglione, arrivavano echi dalle città dove stava maturando il primo boom economico. La gente aveva qualche soldo in tasca in più e una gran voglia di divertirsi.
Il ricordo di quella sala da ballo anche nel libro di Enzo Bianchi
Livé dopo il cinema non si fermò e acquistò un bar e una pista da ballo. Era uomo di poche parole, anzi pochissime parole, ma sapeva quel che voleva. Lo ricorda il compaesano Enzo Bianchi, ora priore della comunità di Bose, nel suo libro Ogni cosa alla sua stagione: “…il parroco tuonava inutilmente… fu tutto inutile: le canzoni americane risuonavano allegre, i giovani le cantavano senza neanche conoscere una parola di inglese, il ballo era sempre più un’occasione per avvicinare i corpi. Il buon prete attivò anche una sorta di concorrenza da opporre alla balera: un grande televisore installato nella sala parrocchiale, ma chi andava a vederlo, visto che molte famiglie cominciavano ormai ad averne una loro?…” Livé chiamò la sua balera, anzi la sua sala da ballo: La Lucciola. Un palchetto allietato da file colorate di lampadine e un bel giardino intorno dove tutti i ragazzi e le ragazze ricordano di aver dato il primo bacio. Le mamme e le zie, con lo scialle di lana leggera celeste sulle spalle, vigilavano sedute ai tavoli con occhio attento a “fulminare” ogni tentativo di distanze troppo ravvicinate. Molte ragazze hanno trovato marito proprio in quella sala da ballo. Veri amori nascevano a La Lucciola.
La festa della Leva veniva attesa come l’evento dell’anno con i primi balli rock’n roll suonati da orchestrine dai nomi americani dalla grafia quasi sempre sbagliata. Le feste danzanti di Ferragosto erano per gli abitanti di Castervé e dintorni importanti come la notte degli Oscar a Hollywood. Il bar di Livé era aperto tutto l’anno, senza mai un solo giorno di chiusura. Stretto e lungo, come a voler ricordare la geofisica del paese. Quando pioveva la moglie Lena metteva la segatura sul pavimento. All’entrata tutti scivolavano, molti cadevano. Si formava una pista grumosa e marrone attorno al frigo dei gelati. Della Castel Boglione di quegli anni va ricordata anche la bottega “Da Pina”. Si apriva una porta e si lasciava fuori tutto il paese. Si scendevano tre piccoli gradini. Uno, due, tre. Il pavimento era in graniglia, lo stesso delle chiese di campagna. Si apriva un mondo.
I bambini andavano matti per il cioccolato a scaglie bicolore che oggi non si trova più. La proprietaria della bottega, la signora Pina. Simile a un grosso pomodoro, fianchi larghi, mantenne sempre la stessa età per anni, come i cinesi. Aveva un sorriso splendido che ammaliava i bambini come la balena di Pinocchio. Il tempo passava, ma tutto pareva restare uguale in paese. Alla fine degli Anni 80 Livé fece l’unico cattivo affare della sua vita a 74 anni quando, investendo metà dei risparmi, si comprò un impianto audio turbosound con luci stroboscopiche per aprire una discoteca.
L’anima di Livé salì in cielo il 27 marzo del 1989 e con lui l’idea della discoteca. È rimasto nella memoria del paese e dei suoi abitanti, vecchi e giovani lo ricordano ancora e anch’io lo immagino: giovane e sorridente com’è nelle vecchie foto da militare, arrivare a casa a guerra finita dicendo di avere qualcosa con sé e un bel sogno da realizzare. Livé era mio nonno.