Cento anni fa l’Astigiano viveva la sua guerra di retrovia
I cittadini di Asti chiamati alle armi furono circa 5500, almeno il doppio nei paesi del circondario. Nascono i comitati a favore dei soldati al fronte, che producono abiti pesanti e scalda-rancio.
Gli echi della guerra nei giornali locali e i primi necrologi. La manodopera nelle fabbriche è quasi tutta femminile, mentre aumentano i prezzi degli alimentari, crollano le produzioni agricole e nelle vigne imperversa la fillossera. Arrivano in città feriti e malati dal fronte, curati in dodici "ospidaletti di riserva".
C’è curiosità per i primi prigionieri austriaci (in realtà trentini e altoatesini), detenuti alla caserma Colli di Felizzano.
La ribellione delle donne in Asti e in vari paesi contro la guerra, gli imboscati, il caro prezzi. C’è anche chi è creduto morto, con nome sul monumento, e invece torna vivo dalla guerra.
Le notizie dal fronte, il caro prezzi, l’arrivo dei feriti e dei prigionieri
Cento anni fa nell’Astigiano non si udivano il rombo del cannone e neppure il crepitare delle mitragliatrici, ma la guerra di retrovia era una realtà ben presente e non solo perché furono richiamate durante gli anni del conflitto le leve dal 1856 al 1899 (i famosi “ragazzi del Novantanove”). Moltissimi avevano parenti al fronte, chi un figlio (e spesso anche più di uno) chi il marito o un fratello. Le comunicazioni non erano facili, lettere e cartoline provenienti dalle o dirette alle zone di guerra erano sottoposte a una rigida censura. Ufficialmente risulta che i cittadini astigiani chiamati a combattere furono 5500, ad essi vanno aggiunti i combattenti del circondario, in numero difficile da quantificare (Asti allora faceva parte della provincia di Alessandria) ma da calcolarsi in non meno di 10 000 unità. Per aiutare loro e le loro famiglie sorsero in città e nei vari centri del circondario numerosi comitati, alcuni organizzati dagli enti pubblici o dalla Croce Rossa, altri sorti spontaneamente tra la popolazione, con lo scopo di raccogliere fondi – con serate benefiche, aste, banchi di beneficenza – e confezionare indumenti da inviare alle truppe, soprattutto abiti invernali per far fronte al clima rigido degli inverni trascorsi sulle montagne e nelle trincee.
Valeva la regola dell’esercito sabaudo che consentiva agli arruolati di portarsi vestiario ed equipaggiamento da casa. Le classi più povere però si presentavano ai distretti senza nulla, bisognosi di scarpe, fasce, maglie, oltre che delle armi e delle divise. L’elmetto in metallo fu introdotto solo negli ultimi mesi del 1915. Molti ufficiali invece avevano una loro “dotazione” personale e i giornali iniziarono a ospitare pubblicità a pagamento di cinture, guanti, scaldamani da sentinella ecc. I giornali riportano la notizia – siamo nel marzo 1916 – che un comitato di Asti ha già spedito al fronte oltre centomila scalda-rancio, dei rotolini di carta imbevuti di paraffina che, accesi, permettevano ai soldati di scaldare il cibo nella gavetta, con un grazie alla Banca Credito Italiano fornitrice della carta e al canonico Mazzetti, direttore del Michelerio, che concesse al comitato l’uso della macchina tagliacarta. Gli scalda-rancio furono realizzati in milioni di pezzi in tutt’Italia.
Si spediscono ai soldati i rudimentali scalda-rancio di carta e paraffina
Fu creato anche un laboratorio comunale per la confezione di indumenti militari, in cui le operaie erano retribuite meglio che nei laboratori privati, e anche di quanto pagavano i comitati analoghi di Torino e di Alessandria. Questo fatto creò malcontento nelle ditte concorrenti, che trovarono una cassa di risonanza nel giornale Il Cittadino, al punto che l’attività del comitato fu di fatto paralizzata dalla forte diminuzione delle offerte in suo favore. Il Comune, retto dal sindaco socialista Annibale Vigna, cercò di evitare nuove imposizioni fiscali per far fronte alle aumentate necessità dell’assistenza. Soltanto nell’estate del 1918, quindi quasi alla fine della guerra, fu applicata un’imposta straordinaria patrimoniale, che tuttavia toccò soltanto i 410 maggiori contribuenti cittadini.
Per cercare di avere notizie dei propri congiunti sotto le armi, gli astigiani facevano la fila davanti all’ufficio postale telegrafico, che allora si trovava in piazza Medici, oppure leggevano le lettere dal fronte che pubblicavano i giornali locali, come Il Cittadino o LaGazzetta d’Asti (qualche copia veniva inviata anche ai soldati lontani, nel tentativo di non far loro perdere del tutto il contatto con la propria terra, la Gazzetta offriva ai familiari la possibilità di un abbonamento intestato al militare al fronte al prezzo ridotto di una lira, contro le tre dell’abbonamento normale). Anche La Stampa e La Gazzetta del Popolo pubblicavano paginate di messaggi che i soldati dal fronte inviavano alle famiglie all’evidente scopo di tranquillizzarle.
Compaiono i primi necrologi dei caduti
Secondo i dati ufficiali, gli astigiani morti in guerra dovrebbero essere 577 (per l’80 per cento soldati semplici) e circa 2700 i caduti del circondario. Di questi, circa 700 morirono già nel 1915, vale a dire nei primi sette mesi di guerra, da fine maggio a dicembre. I primi necrologi di caduti in guerra – siamo nel mese di giugno – sono quelli dell’alpino Enrico Degrossi e di Giuseppe Gay, artigliere di montagna (ne dà notizia il Foot-ball Club Astense, di cui il soldato era socio), e infine del sergente alpino Mario Oddone. Due casi particolari: due emigrati, uno di Incisa Scapaccino e l’altro di Mombaruzzo, caddero nel 1918 combattendo rispettivamente nelle file dell’esercito degli Stati Uniti e in quelle dell’esercito francese. Ed è singolare anche il caso di un costigliolese, Pasquale Gallo, dato per morto nel maggio del 1918, con tanto di comunicazione alla famiglia e di nome inciso sul monumento ai caduti del suo paese, rientrato invece a casa, a guerra finita da tempo, dopo una lunga prigionia.
Molti edifici pubblici furono requisiti dal regio esercito
Dal 1915 in avanti, a poco a poco, la città, che allora contava 41 000 abitanti, fu militarizzata, perché molti edifici pubblici, tra cui scuole, palestre, l’Alla (che divenne ricovero per il bestiame da macello destinato alla sussistenza militare) e parte dello stesso tribunale furono requisiti dall’esercito. Rischiò la chiusura anche il Collegio, sede della maggior parte delle scuole cittadine, che non fu requisito soltanto per la ferma opposizione del sindaco Vigna, che già in precedenza aveva inoltrato rimostranze perché l’esercito non pagava al Comune le indennità previste, pari a due centesimi al giorno per ogni militare di stanza in città.
Feriti e malati sono ricoverati in 12 Ospidaletti militari
Ad Asti, come in moltissime altre città del Regno, furono istituiti piccoli ospedali militari, detti Ospidaletti di Riserva, quasi tutti dislocati negli orfanotrofi cittadini. Furono 12, suddivisi in 18 reparti, per accogliere non soltanto i feriti ma anche i soldati che al fronte avevano contratto malattie come la tubercolosi e la meningite. Furono riservati reparti di medicina e chirurgia all’Ospedale Civile, al Buon Pastore, all’Opera Pia Caissotti, in Seminario, all’Opera Pia Isnardi, al Santa Chiara di corso Alfieri, all’Orfanotrofio Femminile di via Cattedrale (ora via Hope), al San Giuseppe, all’opera pia Tellini e nella villa di via Conte Verde messa a disposizione dall’imprenditore Giovanni Penna e dalla moglie. Il reparto oftalmico era stato ricavato nei locali del maglificio Omedè di via Brofferio. Gli ufficiali eano curati in un ospedale collocato dalle suore della Purificazione, allora in via XX Settembre. I primi a questi reparti ospedalieri furono 118 feriti e 88 ammalati, giunti in città nel giugno del 1915 e ospitati nell’Ospedale Civile e in Seminario. Si conoscono anche i nomi dei primi morti nei reparti ospedalieri astigiani: Francesco Mussi, di Piacenza, morto di polmonite, e il siciliano Pietro Mizzi. I giornali riferirono di funerali imponenti, con autorità, clero, picchetti armati e fanfare.
Nel corso dei tre anni e mezzo di guerra furono ricoverati ad Asti circa 40 000 militari e anche 800 profughi (la maggior parte giunti dopo la rotta di Caporetto), che trovarono in questi ospedali un centro di prima accoglienza, mentre si costituiva in municipio un ennesimo comitato per trovare loro alloggiamenti e masserizie. L’arrivo di tanti malati o feriti creò problemi di notevole gravità, perché i medici locali, tra cui i quattro medici condotti, furono tutti cooptati, accanto a quelli militari, per curare i nuovi arrivati e parte della popolazione restò senza la necessaria assistenza sanitaria, proprio quando il timore di diffondersi di epidemie come la meningite richiedeva una costante presenza medica. Dal 1917 si sviluppò anche nell’Astigiano l’epidemia della febbre detta “spagnola” che, secondo alcuni storici, causò in tutt’Europa più vittime della guerra sui vari fronti.
Proteste ad Asti e Costigliole, donne in piazza a chiedere la pace
La guerra mutò profondamente le attività economiche: i lavori nei campi erano per necessità effettuati dalle donne e dagli anziani e ciò generò, ad esempio, la crisi di una delle più redditizie attività tipiche dell’Astigiano, l’allevamento dei bachi da seta, proprio mentre nella campagne cominciava a imperversare il gravissimo flagello della fillossera. Il prezzo delle uve aumentò rapidamente (alla fine della guerra l’uva barbera era pagata 20 lire il miriagrammo), e così anche quello del vino che nel decennio tra il 1910 e il 1920 si decuplicò. Del resto nei tre anni e mezzo di guerra tutti i prezzi salirono alle stelle: se prima dell’inizio del conflitto il pane costava 1 lira e 90 al chilo, la carne 15 lire, la pasta 2,90, l’olio 2,45 al litro, al termine della guerra i prezzi erano perlomeno quadruplicati e per certi generi aumentati di otto volte. Difficilissimo vivere con un salario che mediamente non superava le 300-350 lire al mese, e per le donne si riduceva a poco più della metà. Da ciò il diffondersi di un malcontento che nel 1917, prima ancora della rotta di Caporetto, sfociò in proteste di piazza contro il governo e le amministrazioni locali accusate di trascurare le esigenze delle classi più povere.
Ma più ancora si trattava di manifestazioni volte a richiedere la fine della guerra, il ritorno degli uomini dal fronte, lo smascheramento dei troppi imboscati. Le notizie su queste manifestazioni furono tenute sotto sordina e circolarono solo negli ambienti di alcuni circoli cattolici e dei socialisti pacifisti, non convertiti alla svolta nazionalista voluta da Mussolini. Le persone arrestate nel corso di questi disordini, ancora una volta per la quasi totalità donne, furono accusate di disfattismo: il 6 gennaio del 1917 si tennero delle dimostrazioni ad Asti, al mattino in piazza 1° Maggio, dove si erano radunate circa 50 donne che chiedevano il ritorno della pace, e al pomeriggio in piazza Alfieri. Si trattava di donne provenienti dalla campagna (quelle di città erano quasi tutte impegnate nelle fabbriche), ma il giorno successivo parteciparono alle manifestazioni anche molte operaie: la protesta andò avanti cinque giorni, e per sedarla fu necessario l’intervento dei bersaglieri di stanza alla caserma del quartiere San Rocco.
Il sindaco Vigna andò a parlare con le manifestanti e promise che sarebbe intervenuto. Vi fu una stretta contro gli imboscati, ma solo parziale. Altre manifestazioni ebbero luogo a Tigliole, Castagnole Lanze e soprattutto a Costigliole, dove pare che le donne scese in piazza fossero qualche centinaio: l’8 gennaio le manifestanti – secondo i verbali, i giornali ignorarono del tutto l’accaduto – «si lasciarono andare ad atti di vandalismo» contro il municipio, la caserma dei carabinieri, alcuni negozi e la casa del parroco. Tentarono anche di entrare nel castello e non riuscendovi ne danneggiarono la serra: furono fermate 49 persone, 32 delle quali – 22 donne e 10 uomini – successivamente condannate.
Produzioni di guerra alla Way Assauto e nelle altre fabbriche
Solo apparentemente diverso il discorso per quanto riguarda l’industria: già prima dell’ingresso in guerra dell’Italia la Way Assauto si era riconvertita alla produzione bellica producendo spolette e detonatori per l’esercito francese e quando, nel maggio 1915, anche l’Italia diede inizio alle ostilità la fabbrica era già pronta a soddisfare le esigenze del nostro esercito, unica sul territorio nazionale a produrre questi inneschi, di cui costruiva circa 60 000 pezzi al giorno: i dipendenti, in gran parte donne, passarono da 400 a quasi 4000. Lo stesso discorso vale per altre fabbriche quali la Maina (che passò da 10 a 100 dipendenti) e le Ferriere Ercole, ed anche per la Vetreria, che, nonostante il calo della produzione vinicola, poté continuare la sua attività perché era rimasta tra le più importanti aziende d’Italia a produrre bottiglie e damigiane. Ma i salari erano pur sempre molto bassi, soprattutto per il personale femminile, e nello stesso tempo le manovre comunali per contenere i prezzi avevano scarsa efficacia.
Nel 1918 si registrarono scioperi al maglificio Omedé, che dava lavoro a un centinaio di donne, e alla Way Assauto. Fu una novità, nel giugno del ’15, l’arrivo in città dei primi prigionieri austriaci, in due scaglioni, uno di 300 uomini l’altro di 200, smistati dalla Cittadella di Alessandria che faceva da punto di raccolta. Ad Asti furono alloggiati nella caserma Colli di Felizzano. Al castello di Frinco vennero sistemate alcune decine di ufficiali. C’era la curiosità di vedere in faccia questi austriaci di cui si parlava tanto (molti erano tirolesi, qualche trentino che sapeva l’italiano e pochi bosniaci), anche perché i giornali del tempo tendevano a dipingere i nemici come gente sadica e crudele nei confronti dei soldati italiani reclusi nei loro campi di prigionia (tra cui compariva già il famigerato campo di Mauthausen). Una volta visti in faccia, gli austriaci suscitarono sentimenti di pietà, più che di avversione. Anche il vescovo Spandre li andò a visitare in caserma. Qualcuno ne approfittò per buttarla in politica: ci fu chi disse che gli austriaci mangiavano, bevevano e passavano il tempo a giocare a pallone, mentre gli italiani soffrivano la fame. Il Cittadino scrisse che avevano anche un pianoforte, e suonavano e cantavano tutto il giorno: in realtà anche i prigionieri austriaci non dovevano passarsela troppo bene. I comandi militari organizzarono anche lavori di manovalanza, come riparare strade, ripulire corsi d’acqua e massicciate ferroviarie.
Il perdurare della guerra ad Asti determinò anche cambiamenti di tipo politico: Vigna rimase sindaco per tutto il conflitto, ma si affievolì il progetto del socialismo autonomo da lui ispirato, entrò in crisi anche il movimento liberale di ispirazione risorgimentale, mentre prendeva consistenza il partito popolare d’area cattolica e metteva radici il partito dei contadini. Nell’ultimo anno di guerra, dopo la tenuta sulla “linea del Piave” e lo sfondamento delle linee nemiche che avrebbe portato alla vittoria del 4 novembre, altre nubi si addensavano sulla scena politica nazionale e internazionale: sarebbero arrivati la delusione della “vittoria mutilata”, D’Annunzio e i legionari di Fiume, i Sansepolcristi e le prime camicie nere. A tanti morti al fronte furono dedicati i viali e i parchi della Rimembranza, mentre sulle piazze di ogni paese comparvero monumenti e lapidi con i nomi dei caduti in quella che papa Benedetto XV nel 1917 aveva definito “l’inutile strage”.
Per saperne di più
L’elenco e le schede dei caduti astigiani della prima guerra mondiale sono contenuti nel XV volume dell’Albo d’oro dei Militari caduti nella guerra nazionale 1915-1918, edito dal Ministero della Guerra nel 1935. Le schede sono poi state informatizzate a cura dell’Istituto Storico della Resistenza di Asti, che ha realizzato anche una mostra fotografica itinerante dal titolo 1914-1918: «l’inutile massacro», il cui catalogo è pubblicato dalle edizioni Israt.
Fasano, ricercatrice dell’ISRAT, ha pubblicato il volume I caduti della Grande Guerra: Il caso astigiano.
Si veda anche: P. Arri, Società ed economia durante la grande guerra, in Tra sviluppo e marginalità, edito da ISRAT (2006), vol. I, pp.315-366.
Inoltre le annate dal 1915 al 1918 dei giornali locali, in particolare Il Cittadino e La Gazzetta d’Asti.
I protagonisti diretti di queste storie della Grande Guerra non ci sono più. È rimasto nelle case di tanti astigiani il loro ricordo e la memoria viva di quanto raccontarono delle loro esperienze di quegli anni. Un modo per ricordali e non dimenticare.
«Mi porti a trovare Gonella?». «Si, nonno» e con l’automobile di papà si andava in una frazione di Montegrosso, dal signor Gonella che era stato il capitano di mio nonno nelle trincee della prima guerra mondiale. Parlo nel nonno paterno Ottavio, classe 1888, morto nel 1978, che la guerra se la sorbì dall’inizio alla fine, quasi sempre al fronte, e credo sia scampato per una distrazione del destino e, forse, anche grazie al capitano Gonella.
Il racconto del nonno me lo ricordo parola per parola: «L’ attacco è per la mattina dopo, dobbiamo conquistare quella collina correndo su per i suoi fianchi, con in cima le mitragliatrici austriache ad aspettarci. Come al solito saremmo ritornati in pochi, ma io non ho soltanto la solita paura, sento che morirò. Prendo il coraggio a due mani e vado dal capitano Gonella, che era un astigiano, come me, e gli dico in piemontese: “Signor capitano, non mi faccia andare all’attacco, domani mattina mi lasci giù. Mia moglie qualche giorno fa mi ha scritto che è incinta. Se andrò su morirò, lo so”.
Il capitano mi guarda in silenzio, passano i minuti e poi: “Domani starai giù a fare un altro servizio”. Qualche mese dopo, il 3 giugno 1918, venne al mondo mio papà Giuseppe che avrebbe potuto essere orfano di padre, come tanti in quegli anni. Così mi racconta il nonno durante il viaggio, anzi, durante i viaggi perché il “Mi porti a trovare Gonella?” capita in media due volte l’anno.
Immagino il pensare del capitano a quella domanda: il dovere, la patria, gli altri soldati destinati all’attacco quasi suicida… Mio papà nel pancione ha avuto il sopravvento. L’incontro tra quei signori, che a me sembravano già molto vecchi, era sempre commovente: seduti l’uno di fronte all’altro i due si scambiano notizie della vita recente, il signor Gonella con baffi e folta capigliatura bianchi, fisico robusto, fare austero; il nonno più mingherlino, i capelli ancora abbastanza scuri, seduto sulla punta della seggiola.
Usano ancora, il nonno il “voi” del soldato e il signor Gonella il “tu” dell’ufficiale. Poi calano lunghi silenzi, i due vecchi si guardano negli occhi, ritornano in trincea e a quella notte. Al ritorno il nonno si lascia andare e racconta della trincea, in estate calda e secca come il peggior deserto, in inverno fredda, fangosa, l’umidità che morde le ossa: un po’ di conforto solo nei rifugi scavati, buchi per topi. E poi il tormento dei pidocchi! Bestiacce che non morivano neppure nei vestiti seppelliti sotto la neve: “Più noi deperivamo, più loro ingrassavano!”. Narrava la speranza – e la delusione – alla distribuzione della posta; i silenzi prima degli attacchi, pieni di quella paura che stringe lo stomaco, accorcia il respiro e rende tutti uguali; lo s-ciupatè degli austriaci che sconvolgeva la vita di trincea: s-ciupatè non è lo sparare disattento e sporadico ma è il colpo mirato, devastante del cecchino. “Quanti morti e feriti per quelle s-ciupatà!”
Ricordo anche il nonno materno Guido, un ragazzo del ’99, che morì nel 1963 quando avevo 14 anni. Troppo presto per me, ragazzino ospite dei nonni a Settime nel periodo estivo, distratto da mille fantastiche esperienze di vita campestre. Però non dimentico l’orgoglio della nonna Severina perché quello che sarebbe diventato suo marito partì soldatino e ritornò sergente. La prima guerra mondiale per me? Il rammarico di non aver saputo ascoltare con l’intensità dovuta i due nonni, pronti a consegnarmi ricordi preziosi e irripetibili. Ma, soprattutto, il legame intenso e immutato nel tempo tra un soldato e il suo capitano, quel “Mi porti a trovare Gonella?”»
Ho ascoltato i racconti della Grande Guerra da ragazzo nella nostra casa di Isola da mio padre Giovanni e dai miei zii: Luigi che era tornato dall’America e lo avevano messo a condurre i muli e zio Secondo che era stato autista dei primi camion militari.
Nessuno voleva e poteva dimenticare. Tanto meno mio padre Giovanni, classe 1895, che dalla guerra era tornato mutilato per una grave ferita alla coscia. Era partito di leva con gli Alpini a Cuneo poi allo scoppio del conflitto, a poco più di vent’anni, finì con il reparto in Trentino. Una granata gli ammazza commilitoni e comandante.
Colpito da itterizia, arriva in ospedale ad Asti. Guarisce e lo rispediscono al fronte sull’altopiano di Asiago come mitragliere. Durante un attacco una scheggia gli lacera la coscia destra. Rischia di morire dissanguato. Urla, rantola e lo salva un barelliere, anche lui di Isola, che ne riconosce la voce e riesce a farlo trasportare all’ospedaletto militare con la funivia. Gli cuciono la ferita ancora sporca di terra. A Milano gliela dovranno riaprire per disinfettarla. Tra le infermiere del reparto una giovane di Isola, suor Ausilia, che sarebbe diventata mia zia.
Con un treno ospedale attraversa l’Italia e finisce a Trapani in convalescenza. Dopo 18 mesi, è giudicato guarito, torna a Cuneo, dove rischia il tribunale militare per non aver salutato a dovere un ufficiale della caserma imboscato. Finisce la guerra all’Arsenale di Torino, come allievo tornitore. Riceverà come tutti i reduci la medaglia di Cavaliere di Vittorio Veneto.
A mio fratello Francesco nel 1943, chiamato alle armi, raccomandava di non bere mai la grappa. Ci ripeteva che in trincea, quando arrivavano le botticelle, significava che era imminente un attacco. Ne aveva visto tanti morire ubriachi di quel “surrogato di coraggio”.
«Te l’ho mai detto dov’ero il 24 maggio del 1915?». «Sì, nonno, un sacco di volte», ma lui tanto continuava lo stesso e a me in fin dei conti non dispiaceva starlo a sentire. «Ero in Puglia, la mia ferma di leva stava per finire, dovevo tornare a Pavia, ero ferroviere, assunto già dal ’13, ma non mi facevo illusioni, la guerra era nell’aria, lo sapevamo tutti. Eravamo acquartierati nel castello di Barletta. Dormivamo in camerate umide, dalle finestre strette, con poca luce e tanta puzza dentro. Era da poco spuntato il sole e ci stavamo alzando quando gridano. Ci sono gli austriaci! E noi tutti usciamo e saliamo di corsa sulle mura. Ci sono cinque navi in fila indiana: una più grossa dietro e quattro più piccole davanti. Arrivano da nord, dal Gargano. Si mettono parallele alla costa e all’improvviso vediamo sbuffi bianchi sulle canne dei cannoni. Sparano! Ma noi, con l’incoscienza dei vent’anni, nemmeno capiamo che il bersaglio poteva essere proprio il castello e restiamo lì in bella vista a guardare. Per fortuna tirano solo pochi colpi, poi da sud, da Brindisi, ecco il fumo di altre navi che si avvicinano. Sono i nostri! Le navi austriache virano verso nord e scappano inseguite da quelle italiane. Sarà durato un’ora in tutto. Il cielo limpido, le scie bianche delle navi nel blu del mare calmo, i pennacchi di fumo nero che usciva dai fumaioli. Era uno spettacolo, un sogno, sembrava una festa, ma era l’inizio della guerra». E Bianchi Romolo, classe 1894, bersagliere ciclista nel 12° reggimento bersaglieri, cavaliere di Vittorio Veneto, la guerra vera, quella delle trincee, degli assalti e dei cannoneggiamenti, l’avrebbe fatta sul Carso per due anni. Ma di quella non parlava mai.
La storia di mio zio è una storia qualunque. La ricostruisco unicamente con l’aiuto di quattro fogli di carta che ho ritrovato tra le carte di famiglia. Il capostipite, mio nonno, di nome faceva “Pietro Paolo Secondo, ma era conosciuto come “Dino, il setmin”. Di cognome faceva Rosso. Classe 1859, prima dell’Unità d’Italia. Si sposa con Trinchero Rosa e ha quattro figli: due maschi e due femmine. Resta però vedovo nel 1900. Si risposa con Borgo Rosa Maria (classe 1879), anche lei vedova con prole, e da questa unione nasce nel 1917 mio padre. All’epoca c’erano già queste famiglie allargate, con figli tuoi, miei e nostri. Mio padre è nato quando il suo fratellastro omonimo era già caduto in guerra.
Tre dei figli di primo letto di nonno Dino lasceranno l’Italia con piroscafi che partivano da Le Havre per l’America. Storie di ordinaria emigrazione. La fillossera aveva colpito le vigne di proprietà e quindi questi tre Rosso andarono a incrementare le fila di piemontesi in cerca di fortuna. Ne resta uno di figlio a casa: Francesco, classe 1883. Quando muore mamma Rosa lui ha 17 anni. Leggo sulla copia del suo foglio matricolare rilasciato dal Distretto militare di Casale Monferrato, alla data del 17 giugno 1905: “Soldato di leva 1° Categoria, classe 1883 distretto Casale. Mandato rivedibile per oligoemia.” Non conosco il significato di “oligoemia”: cerco e trovo che è diminuzione del sangue in circolazione, sinonimo di anemia. Ha poco più di vent’anni.
Leggo sullo stesso documento alla casella “Professione o Mestiere” che fa il “contadino”. La descrizione fisica è scarna: alto 1,59, capelli castani, forma liscia. Occhi grigi (come mio padre che porterà il suo nome per ricordarlo). Leggo ancora: colorito buono, dentatura: sana. All’atto dell’arruolamento sapeva leggere? Poco. Scrivere? Poco. Immagino che non fossero molti quelli che all’epoca avevano potuto frequentare regolari scuole. Mio nonno sì. Sapeva leggere, scrivere, aveva viaggiato, era stato anche a Parigi, possedeva un calesse e percorreva con quello la strada dalla frazione Lepre di Quarto ad Asti, fino in via Cavour, dove parcheggiava alla posta del Leon d’Oro e andava in un alloggetto all’inizio della stessa via, dove riceveva persone provenienti dai luoghi più disparati e che si rivolgevano a lui, “il settimino”, per curare, con le erbe che lui indicava, vari malanni che accusavano.
Ma torniamo al figlio “rivedibile”. Cambia la legge ed eccolo iscritto alla ferma per un anno. Chiamato alle armi il 2 dicembre 1905 è al 2° Rgt Fanteria. Ci resta quasi un anno e il 20 ottobre 1906 viene mandato in congedo. Torna quindi alla sua campagna. La famiglia è ancora unita anche se manca la mamma. Ma nel 1910 il fratello e le due sorelle si imbarcano. E lui viene richiamato alle armi per istruzione. Vi giunge il 12 agosto 1910. Ha ventisette anni. Non ha moglie. Ha terreni da coltivare. Dopo una ventina di giorni lo rimandano a casa in congedo illimitato che illimitato non è. Viene nuovamente richiamato nel 1913 (dal 5 agosto al 3 settembre). Sull’Europa soffiano i venti di guerra e Francesco il 22 maggio 1915 è “chiamato alle armi per mobilitazione”, arruolato nel 74° Rgt Fanteria il 24 ottobre 1915. Francesco ha trentadue anni.
Il foglio matricolare registra il trasferimento al 70° (20 novembre) e poi un’ultima data: 11 dicembre 1915. “I territorio dichiarato in stato di guerra, morto per malattia in località Valerisce come da atto di morte inscritto al n. 103 del registro degli atti di morte della sezione di Sanità della 9° Divisione.” Non sono rimaste sue foto, non un suo scritto. Nel 1917 nasce mio padre e lo chiamano Francesco, per omaggiare il “soldato Francesco”, il cui nome compare in tutti i luoghi di rimembranza della Grande Guerra.
Tra gli elenchi dei caduti che sono affissi ai muri perimetrali del cimitero di Asti. Nell’elenco scolpito sotto il monumento adiacente alla chiesa di Quarto Inferiore e infine su una spartana targhetta inchiodata a una croce, assieme a tante altre, nel viale della rimembranza a Quarto Superiore. A casa di mio padre arrivò una missiva su carta del 70° reggimento fanteria di linea: “ Arezzo, li 12 gennaio 1916, ufficio informazioni Prot. 4343”. Oggetto: decesso Inviata al Sindaco del Comune di Quarto d’Asti (AL) “Questo comando, con dolore, deve incaricare la S.V. di fare coi dovuti riguardi le opportune comunicazioni alla famiglia del militare del 70° Regg. Fant. Rosso Francesco di Secondo al n. 16884 di matricola morto per malattia l’11 dicembre alla Sezione di Sanità. Firmato: Tenente Colonnello Fuligni”. Da una mia ricerca fatta al Ministero della Difesa nel 2009 leggo che Valisce è frazione del Comune di San Floriano del Collio (Go). Mi viene comunicato: “Le Salme dei Caduti tumulate nei Cimiteri della zona sono state a suo tempo esumate e traslate al Sacrario Militare di Oslavia (GO), dove non figura il nominativo del Caduto Soldato Francesco ROSSO. Purtroppo al momento delle esumazioni, molti Resti, tra i quali probabilmente quelli del suo congiunto, non furono identificati per carenza di elementi idonei ad un riconoscimento certo e vennero collocati fra quelli degli “Ignoti” nel predetto Sacrario”.
La vita cominciò in salita per mio nonno Mario. Abbandonato, appena nato, in istituto, una giovane suora gli scelse il nome, Mario, e per cognome Donetti, un regalo del cielo. Aveva trascorso l’infanzia in una famiglia di contadini, lavorando duramente. Per lui cresciuto nell’Italia a cavallo tra i due secoli, la campagna voleva dire mani callose, schiena dolente e poco pane da dividere con i fratellastri. Dietro l’angolo della fantasia e della speranza il nuovo mondo, l’America, raggiunto attraverso l’infinito oceano sulle panche dure del piroscafo “Berlin”, due alberi e quattro motori. Mi sono imbattuto nelle tracce di nonno Mario digitando il suo nome sullo schermo del museo a Ellis Island, l’isola davanti a New York dove sbarcavano tutti gli emigranti per la quarantena: un nome, una data d’arrivo, 1911, l’età, il nome del piroscafo. So come è poi andata; me lo ha raccontato tante volte seduto sulla panchina, cappello in testa e mento appoggiato al pomello del bastone. In California solo, e ancora, terra da zappare, vigne sudore e fatica, mescolato a mezzo mondo di disperati come lui. Tornò in Italia allo scoppio della guerra mondiale, volontario, e con il viaggio pagato, perché altrimenti non avrebbe potuto permetterselo. Quando, in trincea, arrivò la granata volarono pezzi di carne. A lui la sorte portò via solo la parte davanti di una coscia. Gli austriaci passarono oltre quel carnaio. I nostri, il giorno appresso, poterono recuperare quel fante mezzo morto. Tornò a casa e rinacque con accanto la futura moglie Antonia Delaude e finì con il gestire per anni l’osteria di Rocca d’Arazzo. Gli rimase come ricordo della guerra una gamba claudicante. “Roberto, nipote mio” mi diceva da vecchio, “give me water”, “bread please”, o “danke”, e chissà se pensava ancora all’America e alla trincea.
Faletti Secondo detto “Gundu”, classe 1895, era mio nonno materno. I suoi genitori lavoravano come ortolani in corso Venezia per sfamare i cinque figli. Secondo aveva vent’anni quando venne chiamato alle armi, il 12 gennaio 1915. Era ortolano come suo padre, ma dichiarò di essere sellaio nella speranza di restare nelle retrovie a produrre selle e finimenti. Speranza vana: arruolato tra gli alpini, era di stanza a Pinerolo quando a maggio fu inviato con il suo battaglione sull’Isonzo. I primi scontri armati costarono la vita al comandante. Tra giugno e ottobre 1915, il battaglione Pinerolo occupò posizioni sul Monte Nero, bersagliato non solo dal nemico ma anche dalle folgori, poi sul monte Rosso. Di questo periodo è il racconto di quando si buttò dietro un masso, mentre era sotto il fuoco di mitragliatrici austriache: dietro a quel masso, coricato ed appoggiato al fucile per sparare, c’era già un bersagliere italiano: nonno Secondo lo ha “fatto in là” con una spallata per ripararsi anche lui, e quello è rotolato lungo il pendio, già fulminato da un proiettile mentre prendeva la mira. Nel terribile inverno 1916-1917 si trovava in prima linea. Alla fine di una notte di guardia, il capoposto negò il “grappino”. Secondo reagì male (uno sparo), venne punito da un ufficiale saggio con una botta di frustino e non con la corte marziale: il miglior modo per evitare a Secondo una punizione anche estrema e risparmiare al capoposto qualche “proiettile vagante” nella schiena al successivo attacco. Nel novembre 1917 il fronte si spostò al Tonale, dove si tornò a fare i conti con i gas asfissianti nemici: scendavano portati dal vento verso le trincee italiane, scivolando sul suolo come una nebbia verdastra spessa venti-trenta centimetri. Una volta, raccontava nonno Gundu, il gas ha sorpreso nel sonno un reparto, tutti soffocati in una morte orrenda, anche il più famoso degli alpini, grande e grosso come un tronco. Le ultime fasi della guerra videro mio nonno impegnato sul Tagliamento. Si sposò poi nel 1921 con Teresa Rissone, la morosa che aveva lasciato a casa nel 1915.
Dino Raviola
L'AUTORE DELL'ARTICOLO
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