Difficile da immaginare, ma c’è stato un tempo, subito dopo la guerra, in cui Moncalvo ebbe una sala da gioco. Forse è troppo definirlo un casinò, ma certamente, visto come sono andate le cose, dal Monferrato è partita la scintilla che ha poi fatto riaprire quello di Saint Vincent. Non c’è da immaginarsi un ambiente raffinatissimo con grandi giocatori e belle donne al seguito, maestri della poussette in cerca di una vincita corsara, avventurieri di ogni tipo e la variegata fauna che popola, o popolava, i grandi casinò. A Moncalvo le cose furono forse più modeste, ma non meno affascinanti, considerando che questa sala da gioco fu la prima a essere aperta a metà del 1945, subito dopo la fine della guerra. A poter raccontare questa storia dal vivo sono rimasti due novantenni: Vincenzo “Censo” Testa, ex barista della casa da gioco e l’ex partigiano Mario Bertana. Il filo della memoria si riavvolge e riporta a quel breve lasso di tempo intercorso tra il 25 Aprile 1945 e l’inizio di dicembre dello stesso anno. Poco più di 7 mesi in cui a Moncalvo ebbe vita breve, ma intensa e pittoresca, il primo casinò attivo in Italia in quei mesi convulsi del dopoguerra. Facciamo un passo indietro. Nel 1940, con lo scoppio della guerra, Mussolini aveva imposto la chiusura delle quattro storiche case da gioco: Campione d’Italia, San Remo, Venezia e Saint Vincent. L’Italia e gli italiani dovevano rispettare l’imperativo “Vincere!” e non erano ammesse distrazioni da disfattisti dediti al gioco d’azzardo. Cinque anni dopo, a guerra appena finita, la priorità non fu certo di riaprire i casinò. Quello di Moncalvo fu messo liberamente in piedi al civico 3 di via Carlo Ferraris, a palazzo Manacorda, un gioiello dell’architettura tardo barocca piemontese, che l’avvocato Manacorda, con secondo studio a Casale, decise di affittare. Era ammobiliato con grande sfarzo e gusto dalla moglie Cecilia, arredatrice d’interni tra le più richieste dall’alta borghesia milanese. La posizione un po’ defilata dal centro cittadino e la bellezza della casa gentilizia fu considerata ideale dal conte Carlo Gabriele Cotta, fresco di lotta tra le file dei partigiani. Il nobiluomo prese in affitto il palazzo per sistemarvi, in tre stanze, due tavoli da chemin de fer e una roulette, oltre ad adattare un piccolo locale a bar.
L’aristocratico che aprì le sale a palazzo Manacorda
Il personaggio, Carlo Gabriele Cotta, era originario di Robella d’Asti. Di famiglia ricca, azionista dell’Agip, dopo l’8 settembre era diventato capo partigiano comandante, con il nome di battaglia “Gabriele,” la VII Divisione autonoma Monferrato, di stanza a Cantavenna. La formazione di ispirazione monarchica – Cotta fu definito “un aristocratico ligio al conservatorismo sabaudo” – operava nella fascia che da Verrua Savoia attraversava la Valle Cerrina e proseguiva verso il Casalese, lambendo le colline dell’Astigiano, con centro Moncalvo. A guerra appena finita Cotta non ebbe esitazioni. Conosceva da anni e frequentava il mondo del gioco d’azzardo e in pochi giorni, probabilmente senza badar troppo a permessi e licenze, allestì il suo casinò che nei sette mesi di attività fu frequentato da una clientela di fascia alta proveniente da mezza Italia. Arrivavano da Bologna in su, attirati da un tam tam silenzioso e segreto che diffondeva la voce tra i fanatici della roulette: a Moncalvo si gioca. I testimoni ricordano che un centinaio di persone al giorno, o meglio a notte, animavano quelle tre sale dalle 21 in avanti andandosene all’alba. “Censo”, impegnato al bar, più che le bottiglie di Champagne ricorda i generosi panini al salame e il caffè che tornava a essere vero, dopo gli anni delle tessere annonarie e dei surrogati. Il destino del barista. Il conte si era affidato a dei professionisti, facendo arrivare a Moncalvo un direttore lombardo, con moglie e figlia al seguito, e quattro croupiers, dei quali uno svizzero, provenienti dalle case da gioco bloccate durante la guerra.
La sicurezza della sala da gioco affidata ad ex partigiani
Il personale del piccolo casinò aveva preso casa a Moncalvo. Ma la singolarità di quella casa da gioco monferrina era data da tre uomini della “sicurezza” che erano stati e che ancora si sentivano “suoi uomini”, provenienti dalle stesse file partigiane. Tre personaggi molto diversi l’uno dall’altro e tutti fidatissimi. Il più noto era Luigi Acuto, di Grana, passato alla storia per le sue ardite imprese e per il nome “TekTek”, datogli dagli uomini della sua banda autonoma, a simulare il rumore del grilletto della pistola mitragliatrice. In ambiente partigiano si diceva, forse esagerando, che avesse eliminato “centinaia di tedeschi”. “Tek Tek” era tipo sanguigno, spavaldo, dotato di un coraggio leonino, aggiunto a un mix di astuzia e cinismo. Il secondo partigiano al servizio del conte era moncalvese, Alberto Della Valle, detto “Giusto”, agricoltore, comandante la III Brigata della Monferrato. Legatissimo a TekTek, aveva compiuto con lui molte azioni di guerriglia partigiana. Il terzo uomo era un tenore costretto a interrompere l’attività artistica allo scoppio della guerra. Si chiamava Mario Foieri, era nativo di Lanzo Torinese. Entrò nei partigiani con il nome di battaglia “Filo” e divenne vice comandante della Divisione Garibaldi “Leo Lanfranco”. Questo singolare terzetto curava la sicurezza del casinò, funzione spesso esibita in modo esplicito, portando la pistola bene in vista alla cintola dei pantaloni. Di certo si sa che mai ne fecero uso. Nemmeno quella sera quando TekTek, che amava il gioco d’azzardo, perse la testa. Siccome prelevava (con il consenso del direttore e del conte) soldi dalla cassa per giocarli e subito perderli, una sera in cui era più fumantino del solito, prima dell’apertura, estrasse la pistola, mise spalle al muro, nella sala della roulette, direttore e croupier minacciandoli – secondo il racconto testuale dei testimoni – con queste parole: «Adesso basta. O mi fate vincere o vi faccio fuori tutti». Qualche vincita concordata gli ridiede il buon umore. Al suo casinò il conte Cotta non si faceva quasi mai vedere, ma avvisava il personale quando i clienti importanti erano in arrivo. Nel casinò che la gente della cittadina chiamò “dei partigiani” non risulta abbiano messo piede i primi sindaci di Moncalvo nominati dal Cln dopo la Liberazione: il droghiere Giovanni Prosio, di area democristiana, sostituito dopo due mesi da Luigi Fiorino, commissario politico della Matteotti, socialista. Molti ragazzini moncalvesi stazionavano invece sotto le finestre di palazzo Manacorda, attendendo che i giocatori buttassero via qualche cicca. Il casinò di Moncalvo non era una bisca. Tutto avveniva alla luce del sole anche se la regolarità della roulette e degli altri giochi non era garantita. Il conte Cotta, grande frequentatore delle sale da gioco prima della guerra, ben conosceva la legge dei grandi numeri, che assicura al banco sempre un vantaggio e buoni incassi se le puntate sono alte e i giocatori molti. Cotta impose a croupier e direttore di lasciar vincere, di tanto in tanto e con una certa facilità, la clientela più disposta a sfidare la fortuna. Non si è mai saputo dove siano finiti gli incassi. Presumibilmente il nobiluomo ne versò parte ai suoi compagni d’armi, ma è ovvio supporre che un’altra parte gli sia servita per l’attività che di lì a poco avrebbe iniziato a Saint Vincent, con altri finanziamenti provenienti da ambienti industriali.
Il conte Cotta passò poi da Moncalvo a Saint Vincent
Si disse che Cotta trasferì la licenza da Moncalvo a Saint Vincent, ma non risulta alcuna cessione visto che, probabilmente, non c’era nessuna licenza regolare. Il casinò di via Ferraris era una creatura tutta del conte, che poté permettersi di aprirlo, in tempi ancora incerti, in virtù delle sue molteplici ed altolocate relazioni. La sala di Moncalvo chiuse nei primi giorni del dicembre. Secondo voci che si diffusero in zona, un giocatore che aveva perso alla roulette il valore di una casa minacciò il suicidio, causando un notevole trambusto. Forse era quanto aspettava la Questura di Asti per irrompere nel casinò e farlo chiuderlo per sempre. La cosa forse non disturbò più di tanto Cotta che già guardava altrove. Il 6 novembre, un mese prima del blitz a Moncalvo, il sindaco di Saint Vincent aveva fatto domanda di riapertura del suo casinò al ministero dell’Interno. Il conte ne parlò direttamente con Alcide De Gasperi, che male vedeva la riapertura delle sale da gioco. Avevano però già riaperto San Remo e Venezia e i valdostani non volevano essere da meno. Il 3 aprile il presidente della neonata Regione autonoma, Federico Chabod, emanò il decreto di apertura. Due mesi dopo, il 13 maggio ’46, il Consiglio regionale diede il via definitivo. Saint Vincent accolse nelle sale dell’Hotel Billia i primi giocatori il 29 marzo 1947. Il primo fu un industriale tessile biellese. Cotta, lo ritroviamo in primo piano come patron del casinò e responsabile delle relazioni esterne della Sitav, la Società gerente il casinò per conto della Regione. L’ex comandante partigiano fu tra le teste pensanti del casinò valdostano per decenni, inventandosi numerose operazioni promozionali come le Grolle d’oro e altri premi. Non si dimenticò dei suoi compagni d’arme. Trovò posti di lavoro ai sui ex partigiani, che però prima di uscire dal suo ufficio dovevano promettergli che per nessun motivo avrebbero più messo piedi nel casinò. Ce li misero, invece, entrambi assunti da lui come croupiers, il figlio di “Giusto” e il tenore Filo, che finita la vigilanza al casinò di Moncalvo era andato ad allevare bestiame in Venezuela. Ritornò in Italia dopo tre anni. Cotta contribuì a far assegnare a “Giusto” una pompa di benzina nel Canavese e un’altra famiglia di Moncalvo aprì a Saint Vincent un emporio di frutta e verdura. Ci poteva essere, sempre in Valle, una sistemazione anche per TekTek, ma rifiutò. Finì i suoi giorni modestamente, a Grana, dove morì nel 1982. Del casinò di Moncalvo, non è stato possibile reperire immagini. Restano i ricordi. Il bel palazzo Manacorda c’è ancora ed è diventato la sede della società Acquedotto del Monferrato.