sabato 27 Luglio, 2024
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1637

A Moncalvo il giorno dei giganti bianchi

La Fiera del bue grasso: una storia di 378 anni
In una mappa di Moncalvo del 1420 è indicata un’area per la vendita degli animali e un documento dell’archivio parrocchiale indica che nel 1622 si svolgevano nella città monferrina cinque fiere annuali per la vendita di buoi ingrassati destinati al macello. La data ufficiale della nascita della fiera del bue grasso è però del 1637. Da allora il numero delle fiere è man mano calato, fino ad arrivare al 1990, anno in cui si è arrivati a una sola, organizzata alla vigilia delle feste natalizie. Rientrando in un panorama di fiere del genere che si svolgono anche in altre zone, da semplice mercato si è arrivati a una festa turistica con degustazioni e altri appuntamenti. Differente dall’animale che un tempo lavorava nei campi, prima dell’avvento della tecnologia, il bue vincitore riceve una gualdrappa biancorossa e una coccarda.

Un tempo c’erano cinque fiere, dal 1990 è rimasta solo quella di metà dicembre

 

Nell’archivio storico del Comune di Moncalvo c’è una mappa attestante la presenza già nel 1420 di uno spazio attiguo al castello indicato come “mercatum bovum”. Era l’area di vendita degli animali da carne e da lavoro e di fatto il luogo di nascita di quella che è oggi la Fiera del Bue Grasso moncalvese. Una rassegna tra le più suggestive del panorama fieristico monferrino che per convenzione si è indicata quest’anno alla edizione numero 378.  Si è infatti preferito far slittare di oltre 2 secoli l’anno uno di nascita della fiera sulla base di un altro documento questa volta custodito nell’archivio parrocchiale datato 1622 che attesta lo svolgimento di cinque fiere annuali a Moncalvo, di cui la più tarda, a novembre, dedicata anche alla vendita dei buoi ingrassati e destinati al macello dopo una vita di lavoro nei campi e nelle vigne. Per ulteriore prudenza il Comune data la sua fiera non dal 1622, ma dal 1637, supponendo che causa guerre, pestilenze e carestie per 15 anni sia stata sospesa. Nel corso dei secoli le cinque fiere (ciascuna della durata di tre giorni) sono state progressivamente ridotte, tanto che nel 1928 la Cattedra ambulante di Agricoltura dell’Università di Torino ne indicava soltanto due: quella di maggio e quella del Bue grasso per animali da macello di dicembre. Nel 1990 il Consiglio comunale, sentiti gli operatori, decise di tenere in vita solo la seconda, concentrando gli sforzi promozionali e organizzativi su una sola grande rassegna zootecnica alla vigilia delle feste natalizie, che per tradizione rappresentano il momento di maggior richiesta e consumo del bollito e della carne di bue grasso. Il rito collettivo della fiera quest’anno è stato celebrato mercoledì 9 dicembre, con tutta la solennità del caso. I giganti bianchi da oltre 10 quintali sono stati mostrati nel ring, esibendo in passerella allo sguardo di curiosi ed esperti i loro muscoli e soprattutto la struttura del loro corpo coccolato e accudito per almeno 5 anni dagli allevatori. La Fiera da semplice mercato di bovini è diventata una kermesse turistico-gastronomica con vari operatori impegnati. L’organizzazione ha messo in piedi degustazioni di “Buji tut al dì”, pranzi sontuosi in una quindicina di ristoranti della zona, mercatini enogastronomici e agricoli, visite alle stalle e anche la “Giornata dell’olio” dedicata al migliori extravergini di oliva del Piemonte, su iniziativa di Valentino Veglio e di suo padre Piero, agricoltore in quel di Patro, frazione di Moncalvo, che ha messo a dimora su una collina ben esposta al sole un migliaio di olivi e ne ottiene un olio delicatissimo. In tutto tre giorni di festa che fanno della secolare rassegna zootecnica moncalvese una delle tappe più spettacolari di quel grande giro definito da alcuni raffinati gourmet “la mezzaluna del bollito”. È un giro che coinvolge una decina di zone dove osservanze dietetiche e filosofie vegetariane hanno scarsa presa. 

 

Uno scorcio della Fiera a Moncalvo negli Anni ‘30 sulla piazza Carlo Alberto (Fondo Parvalux)

 

Per diventare bue grasso da fiera ci vogliono almeno 5 anni di allevamento specifico per portare l’animale ad oltre 10 quintali di peso

La mezzaluna del bollito e il quadrilatero piemontese delle fiere: Montechiaro d’Acqui, Moncalvo, Nizza Monferrato e Carrù

 

Questo singolare tracciato s’inizia da Bologna e via Modena, Parma e Pavia arriva in Piemonte, dove trova un quadrilatero di fiere del Bue Grasso con quattro vertici: a Montechiaro d’Acqui, Moncalvo, Nizza Monferrato e Carrù, la rassegna che in questi anni ha avuto la maggiore copertura mediatica. 

 

Come il consumo di carne bovina è cambiato nei secoli

 

In queste fiere i protagonisti, allevatori e macellai acquirenti, sono spesso gli stessi. Si è creato una sorta di circuito dove il bue e il bollito sono l’apice di feste non solo gastronomiche. Il bue è tra gli animali simbolo della storia classica. Indicato ad esempio di possenza e forza fisica, ma anche di fedeltà e mitezza. Si pensi al bue che con l’asinello scalda con il proprio fiato la stalla dove, secondo la tradizione cristiana, è nato Gesù a Betlemme. E ancora prima è un filetto di bue che Agamennone, comandante dell’esercito greco, dona ad Aiace per aver battuto Ettore e sono i buoi gli alleati del condottiero romano Cincinnato, ritiratosi in campagna per allontanarsi dalle beghe della capitale.

 

Aldo Fara, sindaco di Moncalvo, dal palco della fiera con le gualdrappe che saranno assegnate ai campioni delle varie categorie bovine

 

Un’immagine degli animali sistemati sotto le arcate dei portici di piazza Umberto dove si svolge ogni anno la fiera

Nel Dopoguerra il boom della fettina e la mutazione negli allevamenti

 

Va detto anche che il consumo di carne bovina nella storia ha visto fortune altalenanti. I padri della Chiesa ritennero la carne una delle principali tentazioni al peccato e ne presero le distanze, tanto che nei monasteri medievali si usavano due cucine: una di grandi dimensioni per la verdura, l’altra più contenuta per le carni. Come dire che il puro andava separato dall’impuro. Sulle tavole dei nobili la carne preferita era la cacciagione e quella di bovino diverrà solo molto più avanti un simbolo della borghesia, segno distintivo del cittadino agiato e possidente che poteva permetterselo rispetto ai contadini che si cibavano di legumi e animali di bassa corte: polli, conigli, tacchini, anatre. Non a caso Roland Barthes ha individuato nella bistecca un concentrato di valori borghesi. È l’Ottocento il secolo della scoperta anche nella ristorazione piemontese dei bolliti con le loro succulente declinazioni. Nelle campagne, fino a pochi decenni fa, la carne bovina era un lusso concesso solo a Natale e a Pasqua, tra i ceti urbani più poveri poteva arrivare in tavola non più di una volta al mese. Un pezzo di carne si cucinava per estrarne il brodo, considerato ideale per rimettersi da ogni convalescenza. Nelle città c’erano anche le rivendite di “bassa macelleria” destinate allo smercio di animali morti per incidenti o malattie che non incidessero sulla salubrità delle carni.

 

I buoi un tempo venivano ingrassati dopo una vita di lavoro nei campi, oggi la selezione parte dai vitelli

Il bue da forza animale in campagna a campione da selezionare

 

Con il boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta cambia tutto. Il maggiore benessere avvicina milioni di persone alla fettina e alle costate. Cambiano anche gli allevamenti. Dalle piccole stalle familiari che portavano all’ingrasso pochi vitelli per volta, alla crescita di allevamenti industriali dove nella tecnica di ingrasso prevale il latte in polvere e alle tradizionali razze piemontesi si sostituiscono le francesi, più produttive e rapide di crescita. Non mancano gli scandali delle bistecche “gonfiate” e degli animali la cui crescita è favorita da iniezioni di estrogeni. E si pensi anche alle vittime, alla paura e ai danni causati dalla scandalo della “mucca pazza”, partito dall’Inghilterra.  Tutto questo deve restare fuori dal mondo che ruota attorno all’allevamento del bue grasso, anche se sono cambiate le motivazioni e c’è maggiore rispetto del benessere animale. La fiera d’inverno era il momento in cui arrivavano in piazza animali che dopo anni di lavori a tirar carri e aratri erano considerati a fine carriera e quindi lasciati a riposo e messi all’ingrasso per aumentarne il peso e affinarne la carne. Dal Monferrato molti buoi trovavano ancora un mercato verso zone agricole di pianura dove dovevano fare meno sforzi. Gli altri erano destinati alle macellerie.  L’espandersi della meccanizzazione in agricoltura ha di fatto annullato la necessità di produrre animali da tiro e da lavoro e l’allevamento del bue grasso si è molto ridotto e ancor più specializzato nella sola direzione di arrivare in macelleria prima di Natale, con un prodotto di qualità, controllato e sano. 

Il ring dove vengono mostrati i campioni che si contendono le gualdrappe alla fiera di Moncalvo

La leggenda dell’ingrasso finale con i tajarin all’uovo

 

Il bue grasso festeggiato nelle fiere odierne è un animale frutto di rigorose selezioni genetiche attuate in laboratori universitari. Il vitellino, di razza piemontese, che presenta una solida ossatura favorevole al giusto sviluppo, viene castrato tra i 4 e gli 8 mesi e da lì in poi l’allevatore usa la sua esperienza per seguirlo nelle varie fasi di ingrasso: diventa tecnicamente “castrato” a 18 mesi, manzo a 3 anni e bue grasso a 5. Il passaggio da manzo a bue è scandito dal passaggio da sei a otto incisivi, cresciuti solo sull’arcata inferiore. Ma sono pochi i vitellini che seppur “in carne” hanno le caratteristiche per diventare un gigante da 14 quintali. Non esiste una casistica precisa in materia. Marco Lanfranco, ex capo dei veterinari dell’Asl di Casale e oggi presidente della giuria alla Fiera di Moncalvo, commenta: «A seconda della linea genetica diventa un bel bue grasso solo un animale su venti tra quelli selezionati in partenza».

 

Il ring dei campioni con le gualdrappe atto finale della fiera

 

Sui metodi di ingrasso esistono leggende come quella che nella settimana prima della fiera l’ultima fase di finissaggio consisterebbe nella somministrazione di tajarin all’uovo, che darebbe al pelo il massimo della lucentezza. Gli animali vengono portati in fiera puliti, lavati e sbiancati anche con una passata di borotalco. È vero invece che, a quattro mesi dalla fiera, l’allevatore deve iniziare il finissaggio con alimenti naturali (una ventina di chili quotidiani tra fieno maggengo, farina di fave, crusca, granoturco), la cui percentuale può cambiare da bue a bue. È altrettanto vero, e qui l’animale si dimostra migliore all’uomo, che il bue non pecca mai di gola, tant’è che dà il segno del finissaggio ultimato mangiando di meno. La differenza tra un campione di ieri e di oggi, da sempre definiti “fenomeni”, sta nel forzato stile di vita. Il bue di ieri era un trattore a quattro zampe che trainava carri e aratri faticando assai. Nelle stalle i buoi non erano suddivisi da lavoro o da fiera. Uscivano di buon’ora ed erano tutti costretti a un estenuante lavoro che poteva protrarsi fino alla soglia degli 8 e anche 10 anni. Solo da lì in poi godeva, se ritenuto “da fiera”, di un po’ di riposo senza uscire dalla stalla. Veniva “finito” con pastoni migliori, prima del penultimo anno di vita. Il bue di ieri e di oggi sono uguali sotto un solo aspetto: la fine che li attende entro poche ore dalla fiera. Come l’antico campione olimpico, premiato con la corona d’alloro, il bue vincitore riceve per l’orgoglio del suo allevatore e dell’acquirente che la esporrà in macelleria la gualdrappa biancorossa e la coccarda. Ci sarà il giro d’onore dalla piazza della Fiera a quella del Teatro, atto finale, dopo la premiazione, di un rito durato poche ore e di una vita al servizio dell’uomo. La fiera di oggi si distingue dalle passate per uno spettacolo supplementare che precede la premiazione: l’uscita dei giganti bianchi di oltre 10 quintali dal porticato del castello per raggiungere l’anello al centro della piazza, dove la giuria analizza alla luce aperta la “forma” e il tenore del finissaggio dei capi in lizza per il Gran Premio assoluto e per il Premio speciale riservato al bue più pesante. Si tratta di un defilé unico tra le quattro storiche fiere. Di ritorno dal bagno di folla, i due vincitori e gli altri capi partono per i macelli di Piemonte, Lombardia ed Emilia dove dopo una giusta frollatura si trasformano in appetitose costate o nel mitico bollito misto. 

Durante la fiera Pro loco e ristoranti propongono assaggi di bollito il piatto tipico moncalvese

Giovanni Goria e la regola del bollito del 7 per 4

 

Nei primi anni Novanta del secolo scorso, grazie all’avvocato astigiano Giovanni Goria, allora vice presidente nazionale dell’Accademia italiana della cucina, la pantagruelica regola del “7 per 4”, inventata dai cuochi moncalvesi a metà Ottocento in omaggio al re Vittorio Emanuele II, è stata ufficialmente codificata e inserita nei manuali di storia della cucina. Da anni nessuno osa avventurarsi in una preparazione del genere, troppo impegnativa (sette tagli fondamentali, sette ammenicoli, sette verdure e sette salse) ma nei migliori locali un “3 per 4” è sufficiente a dare il meritato risalto a un piatto davvero straordinario. Oltre che gourmet e chef di alto profilo, il bollito misto ha sedotto scrittori e giornalisti gastronomici. Uno degli ultimi esempi è dovuto a Franco Piccinelli che nel romanzo Il prete, la sarta e il diavolo (Araba Fenice editore) scrive: «Il macellaio Torta le recapitò un bel trancio di sottopaletta, che una volta lessato si lasciava affettare che era un piacere. Ne veniva per giunta un brodo di eccellenza, intendendosi di una qualità assoluta, superiore alla prima qualità che pur doveva già ritenersi di gran riguardo, grazie alla libera pastura di bovini, d’una razza tutta autoctona che produceva i trionfi del bue grasso nelle fiere di Moncalvo e di Carrù»Non a caso lo scrittore di Neive citava le due fiere più famose, gemellate dal 2001, anno che avrebbe dovuto segnare la nascita del Disciplinare di produzione della Dop “Bue grasso di Carrù e Moncalvo”, coinvolgendo tre Regioni con otto Province piemontesi, tre liguri e una lombarda. 

Il diploma assegnato alla Fiera di Sant’Antonino di Moncalvo il 20 maggio 1937 ai fratelli Sorisio di Villadeati, Zanco

Il gemellaggio con Carrù per una DOP del bue grasso

 

Erano quasi tutti d’accordo, ma non se ne fece nulla. Forse val la pena di riprendere quel discorso stoppato sul nascere, se non altro perché sindaci e assessori di Carrù e Moncalvo continuano a ospitarsi a vicenda e a distanziare di una settimana lo svolgimento delle due grandi rassegne zootecniche. Quasi un secolo di vita Carrù, 378 anni ben portati a Moncalvo.

Le Schede

 

L'AUTORE DELL'ARTICOLO

Astigiani è un'associazione culturale aperta, senza scopo di lucro, che ha bisogno del sostegno di altri "Innamorati dell'Astigiano" per diffondere e divulgare la storia e le storie del territorio.
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