Lontano dai grattacieli di Dubai e Abu Dhabi l’emozione del deserto di una fotografa astigiana
Non so se sia stato davvero il mio “viaggio della vita”.
Ma credo si meriti questo titolo per avermi svelato una prospettiva del tutto inattesa su luoghi che credevo diversi. Gli Emirati Arabi. Un paese confinato nel corno sudorientale della penisola arabica e che si associa, con un certo automatismo, al lusso e agli sfrenati eccessi estetici.
Il mio desiderio era quello di scandagliare ciò che si trova dietro alle facciate ingioiellate di Dubai o Abu Dhabi, oltre quei grattacieli svettanti di vetri e ai cavalcavia annodati delle iper-trafficate periferie. Mi affascinano quegli angoli di mondo non attraversate dal
turismo e gli Emirati Arabi si sono rivelati una sorpresa.

Fuori dalle rotte turistiche, gli occhi degli abitanti si spalancano di stupore e la curiosità prende a fluire, disperdendosi in dialoghi che superano le difficoltà della lingua, conditi con tazze di tè al cardamomo, latte e zucchero, di caffè arabo e con montagne di datteri freschi. Ogni occasione pare essere quella giusta: un incontro fortuito per
strada, due passi in un villaggio, una visita a qualche museo o moschea. C’è sempre un vassoio che attende. È l’ospitalità mediorientale.
Spicchi di vita mediorientale tra tazze di tè e datteri offerti anche per strada
La prima città in cui ho sostato è Sharjah, piccola perla lungo la costa, a est di Dubai. Si contraddistingue per il suo cuore antico e scrupolosamente ristrutturato, costellato di
gallerie d’arte e vivaci suq, dove le tinte variopinte delle stoffe contrastano con il beige delle abitazioni costruite col fango. Una fetta di tempo immobile in cui spicca l’eleganza degli uomini arabi, con quei loro lunghi abiti bianchi, le barbe scure perfettamente sagomate, quella leggera matita nera sotto gli occhi e i toni delle voci modulate. Anche le donne portano con sé un fascino d’altri tempi. C’è una raffinatezza discreta che le ammanta.
Ma l’aspetto più folcloristico della città di Sharjah è nel porto, in quell’interminabile fila di vecchie imbarcazioni dove indugiano i pescatori indiani di ritorno dal Golfo Persico.
Sono barche di legno raffazzonate e caotiche che riportano alla mente quelle dei pirati, complice il vociare continuo delle ciurme. C’è chi rammenda le reti e chi stende i panni; chi si fa la doccia a secchiate sulla prua; chi lustra il ponte; chi sorseggia tè alla menta e chi legge su un divano piazzato davanti alla propria imbarcazione. Perché c’è sempre
un divano che attende l’ozio di chi vi transita davanti e sente il bisogno improvviso di una sosta: divani accanto alle case, ai negozi, nei parcheggi, fuori dalle moschee.
In questa porzione orientale degli Emirati c’è un luogo che ha attirato la mia attenzione per la sua bizzarra singolarità. E sottolineo bizzarra perché non capita tutti i giorni di trovarsi in un’enclave degli Emirati Arabi collocata dentro un’enclave dell’Oman, quest’ultima situata, ovviamente, negli Emirati Arabi. La strada che taglia in orizzontale questo territorio è così poco frequentata da non essere nemmeno asfaltata e si
inerpica coraggiosamente attraverso cumuli di montagne pietrose con i loro ripidi pendii e tremendi valloni che precipitano a tradimento a ridosso della carreggiata.
Sui palazzi e negli uffici, ovunque campeggia l’immagine dell’Emiro

Non un’anima viva. L’unica presenza è il silenzio. Poi, al primo confine, la strada si sdoppia: a sinistra, la dogana per coloro che restano nell’enclave dell’Oman e hanno
bisogno del visto; a destra, invece, una mulattiera per chi procede oltre, verso gli Emirati. Percorrerla significa dovere fare i conti con grosse pietre, sobbalzi a non finire e due alte pareti di cemento armato che costeggiano tutto il tratto, al termine del quale campeggia l’ennesima immagine dell’emiro Khalifa bin Zayed Al Nahyan. Il suo volto lo si incontra ovunque: lungo le strade, sui muri dei palazzi, in mezzo alle rotonde, nei musei, negozi, uffici pubblici, sulle auto e in formato ciclopico sulla grande diga di Hatta.
Ecco il deserto. Uno spazio impalpabile senza confini e senza perdono. Il suo nome è Rub’ al- Khali, ma è da tutti conosciuto come il Quarto Vuoto. Copre buona parte degli
Emirati, dell’Oman e dell’Arabia Saudita. L’inglese William Thesiger ne attraversò una lunga parte, a metà del secolo scorso: «Nel deserto ho incontrato una libertà irrealizzabile nella nostra civiltà», scriveva tra i suoi appunti. È una distesa di sabbia fin dove occhio può vedere, che inghiotte strade e sposta tracciati, ricalcando gli umori del vento. Poiché la sua natura è quella di mutare continuamente forma: ciò che si scorge
oggi, domani non c’è già più. In questa immensità violenta, il silenzio è una forza incontrollabile. Quando si alza il vento, le dune iniziano a sibilare. Sulla strada, vorticano spirali di sabbia.
Ferma in mezzo al deserto ad ascoltare il suono di un nulla sconfinato

Ne ho percorso in auto oltre 300 km, da est a ovest, da sud a nord. Non una casa. Non un distributore. Nulla. Un piacevole nulla. Un nulla che mi sono fermata ad ascoltare
decine e decine di volte, senza stancarmene mai. Le uniche forme di vita che si scorgono sono quelle dei cammellieri che trascorrono la maggior parte del loro tempo
qui, nelle loro tende di pelle e con i loro animali. Hanno il volto bruciato dal sole e solcato da rughe dalla parvenza secolare, indossano pantaloni larghi e casacche fino al ginocchio, dello stesso colore della sabbia, e si coprono il volto con bandane, lasciando scoperti solo gli occhi.
Non è raro incontrare falconieri che gareggiano con i loro rapaci, in nome di una tradizione che perdura da sempre. L’unica oasi che si staglia in lontananza come un miraggio è quella di Liwa. Da qui, procedendo verso sud per circa una trentina di
chilometri, si dispiega la drittissima linea di frontiera che separa gli Emirati Arabi dall’Arabia Saudita. Il posto di blocco è provvisorio, tatticamente posizionato in cima a un’altura ma dall’aspetto dimesso, dimentico e disfatto. Il cartello Check Point Ahead è storto e arrugginito; la barriera spezzata e la guardiola vuota.
Un’atmosfera da Berlino Est nel cuore caldo di uno dei luoghi più desolati del mondo. Del resto, non è un caso che proprio nel bel mezzo del Rub’ al-Khali, abbiano edificato la colonia penitenziaria degli Emirati. La si scorge a distanza, sufficientemente lontana dalla vita da scoraggiare qualsiasi tentativo di fuga.





