giovedì 31 Ottobre, 2024
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Memorie a Tavola

I buoni frutti dell’autunno

Uva e mele di stagione

Luglio e agosto sono passati, regalando i frutti più succulenti dell’estate: le albicocche, le pesche, le prugne, i fichi, i meloni, le angurie. Alle porte della città un tempo non c’era abitazione – cascinotta, casetta, villino che fosse – che non avesse qualche albero da frutto nel suo appezzamento di terreno, anche se piccolo. Un maestoso albero di fico poteva ombreggiare l’ingresso di un orto e sciami di api, vespe e qualche isolato calabrone si gettavano avidi sugli zuccherini fichi bianchi, quelli piccoli, dalla buccia verdina e dalla polpa rosata. Dal signor Tumalin, che abitava in un piccolo casale nei pressi del cimitero, non mancavano un paio di alberi di prugne gialle Reine Claude, le succose raneglòd: tutti le chiamavano così storpiando allegramente la denominazione francese, tanto che il termine è inserito a buon titolo nel volume curato da Crosa e Maioglio Parole e detti del dialetto astesan. E in via Bellini – una traversa di corso Torino – troneggiava un grande pergolato della precocissima uva luglienga, cui bastava una spruzzata di verderame per produrre lunghi grappoli dorati, dolci e sani, indenni da metcalfe e flavescenze. È un antico vitigno europeo la luglienga, tipico dei climi meno caldi e tollerante del freddo, particolarmente legato all’impiego familiare come uva da tavola, da serbo e perfino da vino.

E che dire dell’uva fragola? Presente in passato in quasi tutti i vigneti a conduzione familiare, insieme a qualche pianta di moscato e di barbarossa, i pochi tipi di uva da tavola frequentati dalle nostre parti prima della bianca uva Regina e del rosso moscato d’Amburgo, la fragola è prodiga di un bel fogliame scuro, ideale per ricoprire topie estese e ombrose. Ne persiste qualcuna in certi cortili del centro storico o in quell’enclave di praticelli, di fiori e di piante antiche che, affacciando dall’interno sull’ultimo tratto di corso Alfieri e su Porta Torino, si diparte dalla zona del Varrone. Se ci si spostava poi verso Variglie (e non solo), si trovavano i persi limonin, dalla forma ovale con apice sporgente a ricordare la forma del limone, pasta gialla carnosa e leggermente asciutta, sapore dolce, aromatico con tenue retrogusto amarognolo: pesche eccellenti da “mettere via” o da riempire con cacao e amaretti per una rapida cottura in forno.

Frutti della memoria? Non solo, per fortuna. Del resto, non è detto che la “memoria” – anche quella gastronomica – sia esclusivamente un insieme di reperti, di parole o di eventi da custodire, un commovente repertorio del “come eravamo”. Può significare salvaguardia e rinascita, anche per le deliziose pesche limonine che, nel secondo fine settimana di agosto, sono protagoniste della “Sagra del Limonin” proprio nella frazione di Variglie, dove diversi piccoli produttori non ne hanno perso la razza, come si suol dire, anzi hanno incrementato la coltivazione. Un grande frutteto della memoria, nel senso dinamico di cui si è detto, è ospitato a Vezzolano, nel complesso monumentale di Santa Maria, nei territori di Albugnano, Moncucco e Castelnuovo Don Bosco.

Nel 1996 la Soprintendenza ai Beni Architettonici e Ambientali del Piemonte avviò l’idea di realizzare un Giardino tradizionale nel terreno retrostante la Canonica di Vezzolano e affidò questo pezzo di terra a un’attività volontaria che lo ha in gran parte dedicato alle mele. Sono così ritornate tante varietà tradizionali di cui quasi si era persa la memoria, varietà antiche dai nomi evocativi: pom arnent e rusnent, ciocarin-a bianca e rossa, fulminei, carpandù, pom d’la bota, pom carlo, pom matan e tante altre. Hanno forme, consistenze, sapori, epoche di maturazione molto diverse, mille miglia lontano dall’uniformità un po’ triste delle poche varietà ibridate che occupano gli scaffali dei nostri supermercati. E, con un interessante progetto del tutto autonomo, pom marcon e pom del medic – insieme ad altre varietà frutticole e orticole, tra cui l’autoctono pomodoro Cerrato – si coltivano nell’orto del carcere di Quarto, curato dai detenuti sotto la guida di un agronomo. Uva, noci, nocciole, noci, pere, mele, ancora fichi sono i frutti del primo autunno e, guarda caso, sono gli ingredienti di una composta che da sempre si prepara nelle nostre terre: la mostarda.

Le mostarde sono una specialità tutta italiana che, come si sa, non ha niente a che vedere con la moutarde francese o la mustard inglese. In alcune la senape c’entra e dà il piccante alla frutta variamente trattata, ma per il resto è tutt’altra cosa. Mostarde al plurale, anche se la più conosciuta è la mostarda di Cremona che immerge nello sciroppo di canditura addizionato da essenza di senape vari frutti interi o a grossi pezzi. Simile è la mostarda di Voghera, mentre quella vicentina si presenta con la consistenza di un purè a base di mele cotogne e pere, e la mantovana – monofrutto – taglia a fettine mele campanine o cotogne o, ancora, zucca e melone immaturi. In altre regioni il termine “mostarda” identifica conserve, prive del piccante della senape, a base di mosto d’uva cotto, per lo più arricchito da pezzi di frutta autunnale: così la mostarda piemontese, la cognà langarola, la mostarda di Carpi, la toscana, la pugliese, la siciliana. Ancora uva, mosto e frutta per le tante declinazioni del “sapore” (savor, savurett, savour, savorett: tutti dell’Emilia Romagna); mosto cotto concentrato e aromatizzato per la saba (o sapa) della Romagna e della Sardegna e per il vincotto delle Marche, della Puglia e della Calabria. Tanta varietà e diffusione delle mostarde si spiega con il loro alto valore di condimento e accompagnamento.

Più o meno densa e fluida – a seconda della quantità di frutta aggiunta al mosto: in alcune zone della provincia si fa di sola uva –, la mostarda si offre come splendido accompagnamento della polenta, del bollito, dei formaggi e, recuperando la tradizione, come ingrediente per originali granite. Nelle Langhe la si chiama cognà, termine che evoca un frutto irrinunciabile, la cotogna. Ne esistono due varietà, la mela e la pera, la prima, più tondeggiante, ha una polpa più fine rispetto alla seconda che, con la sua lieve granulosità, ricorda la pera. Splendido frutto, il pum pudognon può profumare l’armadio della biancheria: basterà appendere per il picciolo una cotogna bella sana in cui si sono conficcati alcuni chiodi di garofano.  

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