Ci sono espressioni che confermano l’immediatezza e la fantasia del linguaggio popolare che sa cogliere immagini e accostamenti e utilizzarli in modo efficace. Eccone cinque.
Pei ’d n’usel an s’na rama, come un uccello su un ramo. Indica una situazione di instabilità, di precarietà, di incertezza e vulnerabilità. Anche se l’uccello non ha paura di cadere, perché se scivola può sempre ricorrere alle ali e volare, il modo di dire sottolinea l’insicurezza di chi dispone di un unico appiglio, di chi fatica a mantenere l’equilibrio, e soprattutto l’affanno di chi ha trovato un punto d’appoggio, ma sa benissimo che è provvisorio: non è il nido, è soltanto un ramo.
Pei d’in rat an t’na burnija, come un topo in un barattolo.
Come si può esprimere in modo migliore l’ansia, la paura, l’agitazione, il tormento, la sensazione di non avere una via di scampo! Il topolino nel barattolo vede la libertà attraverso il vetro, ma non riesce a sfuggire a quella prigione senza via d’uscita e continua a girare in tondo, disperato. Il detto viene usato a volte per gli innamorati, soprattutto per gli adolescenti alle prese con le prime cotte che creano anche tensioni, apprensioni, timori, nervosismo, agitazione, smarrimento.
Pei d’in pum an t’in tund, come una mela in un piatto.
Poesia pura. Un’immagine tanto solare, rasserenante, delicata arriva a un passo dal sublime verso «et durae quercus sudabunt roscida mella» che Virgilio ci regala nelle Bucoliche, «anche le dure querce trasuderanno miele rugiadoso».
E quel «roscida mella» vale il prezzo dell’edizione (tascabile) dell’opera.
La mela, colorata, luccicante, immagine della salute, adagiata nel candore di un piatto è il ritratto dell’agiatezza, della tranquillità, dell’affetto che ti circonda. L’espressione viene usata per indicare appunto una persona senza problemi e soprattutto per sottolineare le attenzioni che qualcuno riceve dagli altri: spesso infatti si dice di un anziano particolarmente seguito dalla famiglia, «lu tenu pei d’in pum an t’in tund».
Pei d’in crin an t’in arbi, come un maiale in una bigoncia, indica invece una situazione disperata a cui non c’è rimedio, irreversibile. Si rifà a quel periodo della civiltà contadina in cui l’uccisione del maiale era una festa (per tutti, ma non per l’animale) perché significava una scorta di carne e insaccati per l’inverno che stava per iniziare. L’animale veniva sgozzato, quindi appeso a testa in giù in modo che si potesse raccoglierne il sangue e infine gettato in una bigoncia piena di acqua bollente per essere scuoiato. Era l’ultimo atto.
Per sdrammatizzare queste immagini un po’ troppo realistiche e restando in tema di mele e maiali, chiudiamo con «Se jè ’n bel pum el va a finji an buc-a a ’n crin», se c’è una bella mela finisce in bocca a un maiale, come dire che la fortuna è cieca e spesso bacia chi non se lo merita.
Si usa ad esempio vedendo passare una ragazza bellissima con accanto un uomo brutto, e allora si stempera l’invidia prendendosela con la sorte.