«La prima volta che mio marito mi ha detto di pulire le piante, ho tolto i piantini e lasciato l’erba». Renata Triberti ride ancora al ricordo: «Non mi crede? Quando mi sono sposata non distinguevo una patata da un pomodoro: facevo la maestra e venivo da una famiglia di operai della Waya. Chi l’avrebbe mai detto che avrei passato la vita nell’orto e tra i fiori?».
C’è una piccola insegna “Floricultura Renata” che resiste in via Torchio tra condomini e asfalto. È l’ultimo scorcio di quella che fu la Asti contadina, i suoi ricchi orti che traevano vita e forza dal Tanaro amico. Un patrimonio perduto di sapienza della terra.
«Questo è quel che resta di 17 000 metri quadrati di campi e serre». Renata allarga le braccia quasi potesse rendere l’idea di quel che fu, per oltre quattrocento anni, la proprietà della famiglia del marito Lorenzo Longo.
Tutti, qui tacà Tani, lo conoscono come Enzo. Si definisce “un uomo dal sonno arretrato”: ha passato più di trent’anni “a non dormire” per andare a vendere l’insalata e gli altri ortaggi ai Mercati generali di Torino, partendo di notte per essere nella grande città prima dell’alba. Quella stessa insalata che Renata ha raccolto per una vita, dopo aver rinunciato definitivamente all’insegnamento per dedicarsi all’azienda e a crescere i figli Katja e Davide, oggi 39 e 38 anni. «Fino all’inizio degli Anni ’80 la nostra era un’azienda fiorente: avevamo un capannone agricolo di 400 metri, 7000 metri quadri di serre in vetro e un semenzaio riscaldato che era il cuore della nostra attività. Prendevamo il letame dalla stalla del vicino. Ecco, il semenzaio era lì, dove ora passa via Torchio».
Non resta che immaginare serre e piantine dove ora c’è la larga striscia d’asfalto che dalla rotonda di corso Venezia e corso Savona porta verso est. La strada quando arriva alla ferrovia piega a destra verso il Tanaro e a sinistra verso il passaggio a livello. In lontananza c’erano la vetreria e dall’altra parte dei binari la Way Assauto. Un mondo che si è fermato.
«Lottai contro gli espropri, mi dicevano che fermavo il progresso».
Nel ’94 la batosta dell’alluvione
Nel 1984 arrivò l’esproprio: «Fu l’inizio della fine: anni di proteste e cause legali per non farci portare via i sacrifici di una vita. Fu tutto inutile». I terreni furono espropriati e la strada venne costruita. All’epoca Renata capeggiò la dura protesta degli ortolani e dei pochi abitanti della cascine isolate. Divenne un caso, ne parlarono i giornali. «Mi dicevano che volevo fermare il progresso».
Ebbe la meglio quel “progresso”. «Ha vinto il cemento, gli orti oggi non esistono quasi più». Dieci anni dopo l’esproprio, nel novembre 1994, arrivò l’alluvione: «Distrusse tutto quello che era rimasto.
Le serre sommerse dal fango, i raccolti perduti, la nostra casa per metà allagata. Un disastro». L’attività rimase ferma per quasi un anno: «Fu Giovanni Dabbene, grande floricoltore e amico scomparso due anni fa, a convincermi a ricominciare e a voltare pagina. Così nell’autunno del 1995 uscì la mia prima produzione di fiori: 600 vasi di crisantemi. Non erano un granché,, ma li ho venduti tutti lo stesso». Renata racconta: «Vendevo in piazza del Palio vicino a Sergio Cerrato della Motta: lui aveva dei vasi bellissimi».
In questi ultimi vent’anni da quelle serre sono sbocciati decine di migliaia di gerani, surfinie, verbene, bacope, petunie, begonie. «Fino a cinque anni fa facevamo anche piante da appartamento ma, con la crisi, non si vendono quasi più».
Oggi è rimasto il lembo di terra dove Renata e il marito coltivano, da pensionati, gli ultimi fiori: «Per chi ci vuole trovare siamo in via Torchio angolo via Chiuminatti». D’estate è il “giardino” cittadino delle nonne di casa Rina, 93 anni, e Maddalena, 85, e dei nipotini Sara e Luca, 6 e 8.
Sulla carta urbanistica il futuro è già segnato “area vincolata a servizi”: «Finché si può, andremo avanti vecchia maniera: non abbiamo grandi impianti d’irrigazione, bagniamo a mano ogni piantina e poi c’è il nostro vecchio “picinin” che ci aiuta». Renata chiama così un vetusto trattore Massey Ferguson, comprato nel 1968 da papà Francesco Longo quando Enzo tornò da militare: «Ha accompagnato tutti i nostri anni di lavoro, tutte le nostre fatiche e vicissitudini: è stato anche alluvionato, ma funziona ancora benissimo. Ci siamo affezionati. Non lo cambieremmo con nessun trattore al mondo».
Anche su questo Renata ed Enzo sono d’accordo: in 45 anni di matrimonio non hanno mai litigato. O meglio quasi mai: «Una sola volta, guardando una partita di calcio». Mai nei momenti di difficoltà però: «Neppure quando il progresso spazzò via i nostri sogni». L’ultimo palazzo costruito in via Torchio getta un’ombra inquietante sulle serre di Renata ed Enzo: «È il cemento che toglie luce alla terra. Cosa ci vuol fare, noi ormai ci siamo abituati».
Lungo lo “stradone” altri palazzi a cinque o sei piani e decine di cartelli “vendesi” e “affittasi”.
Celentano cantò in Il ragazzo della via Gluck: «Là dove c’era l’erba adesso c’è…una città». Renata saluta e sorride ai gerani che, nonostante tutto, colorano la primavera.