Una volta, nelle campagne, le feste di Natale erano semplici e sentite. Donne e bambini partecipavano alla Novena. I nove giorni che precedevano il Natale andavano in chiesa dalle 4 alle 5 del pomeriggio.
I piccoli aspettavano i regali da Gesù Bambino. Piccoli oggetti: per le bimbe una bambolina fatta con le pannocchie e le foglie del mais, per i maschietti un cavallino di legno o cartapesta, i grandicelli più fortunati che andavano già a scuola potevano sperare in una scatola di matite “Giotto” da 6 colori.
Non mancavano i sacchetti con i bon-bon di zucchero con una foglia secca di rosmarino, qualche mandarino e i biscocc (castagne cotte due volte, prima bollite, poi messe al forno o affumicate).
Anche gli adulti erano in fermento, gli uomini a togliere la neve sul sentiero di casa, fare scorta di legna per il camino, preparare le bottiglie di vino del pranzo di Natale, le donne ai fornelli. Il menù classico era: vitello tonnato, finanziera, agnolotti, cappone.
A proposito di finanziera e capponi, ad Antignano viveva una donna che era una vera virtuosa nel capuné (castrare) i galletti, si chiamava Maggiorina Ramello. Tutti andavano
da lei. Lei operava e si teneva per sé i bargigli e la cresta del galletto che insieme al prè, il ventriglio dei polli, sono la base per la finanziera.
E poi il dolce, la classica tirà con l’uvetta passa. La frutta era stagionale e del territorio, vale a dire noci, nocciole, mandorle, pere, mele, ciapulin di prugne, pum smujà, puciu messi nella paglia e cachi.
La notte di Natale era quasi d’obbligo partecipare alla messa di mezzanotte e all’uscita dalla chiesa si scambiavano gli auguri. Molti al ritorno a casa facevano l’arsinon, una seconda cena, spesso a base di salsiccia e patate “fricassate” sulla stufa.