domenica 23 Marzo, 2025
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Le antiche parole della vendemmia

Dalla brenta all’arbi

La stagione della vendemmia racchiude numerose parole della lingua piemontese con cui si indicano momenti e attrezzi di vigna e di cantina.

Possiamo cominciare da un proverbio che avvicina alla raccolta: a metà agosto, esattamente il 10, si festeggia San Lorenzo che, oltre alla tradizione delle stelle cadenti, ispira un antico detto popolare “A San Lurans l’uva a tans”. A San Lorenzo i grappoli d’uva cominciano a prendere colore, a tingersi.

È quella che gli enologi chiamano “invaiatura”. C’è anche un vecchio modo di dire legato al mondo contadino, quando il vino era una bevanda-alimento indispensabile a chi lavorava le campagne. Chi verso la fine di agosto si ritrovava ad aver ormai esaurito tutte le scorte in cantina ed era costretto a bere acqua, magari con aggiunta di qualche bustina di effervescente viscì, poteva decidere di andare ad “ammazzare il lupo”.

Era un modo di dire che indicava la scelta di chi andava nella vigna a raccogliere i primi grappoli, quelli che sembravano più maturi, per portarli a casa, pigiarli e riempire un butalin (da almeno 50 litri) in modo che nel giro di una manciata di giorni (il tempo della fermentazione) aveva la possibilità di bere un bicchiere di vino nuovo, magari ancora acerbo e aspro ma pur sempre vino.

In passato, a proposito di raccolte anticipate, si stava anche molto attenti ai ladri di grappoli e non erano pochi i contadini che montavano la guardia, anche di notte, alle loro vigne più belle cariche di grappoli e in molti statuti campestri dei nostri comuni erano previste pene severissime per chi fosse stato scoperto a rubare tra i filari.

Per pulire dalle vasche ai butalin: acqua, soda e l’aromatica burba

 

La pulizia in cantina era fondamentale per il buon esito della vinificazione e la successiva conservazione del vino. Quando ormai la vendemmia era alleporte si preparavano ogni sorta di contenitori, lavandoli bene con acqua bollente e soda, incominciando dalle botti più grandi, le vaséle (le grandi botti generalmente in legno di rovere che contenevano da 10 a 50 quintali di vino), poi le bùnzse (fusti da sette quintali pari a 14 brente), manovrabili in cantina da un solo uomo, e ancora i butàl (botti di varia capacità da 50 a 300 litri, cioè da una a sei brente).

La misura centrale era infatti la brenta capace di 50 litri che aveva molti sottomultipli più o meno grandi, con nomi anche diversi da zona a zona. I più diffusi erano butalin, sebbrot, bertuna, garroc, garroccetta o scietta, barlet ecc…

Tutti questi contenitori erano detti asi da vin, cioè capaci di contenere liquidi, mentre altri erano gli asi da mercansia, sempre in legno ma con doghe più sottili per granaglie, farine ecc. Oltre al normale lavaggio come descritto sopra, per dare un profumo particolare alle botti e agli altri contenitori, tutti i legni venivano risciacquati e passati con la burba. Con questo nome si indicava un infuso di foglie di pesco, foglie di noci e un’aggiunta di una caratteristica erba aromatica chiamata erba carera che dava un tocco odoroso di pulito, degno dei migliori odierni detergenti.

Durante la vendemmia, normalmente, a mezzogiorno si mangiava al sacco nella vigna, il menù era quasi sempre il solito. Pane, gorgonzola, acciughe, sòma d’aj e uva. I padroni delle vigne a questo proposito lasciavano che donne, ragazzi e brentau, gli addetti a portare le brente in spalla dai filari all’arbi (bigoncia), assaggiassero i grappoli, ma la tradizione vuole che nelle vigne durante la raccolta si cantasse, non solo per alleviare la fatica, ma anche perché così si evitava di mangiare l’uva: «Canté fiöj, canté matote!», strillavano i padroni in capo ai f ilari, le taragne. Un incitamento interessato!

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Nandino De Stefanis
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