Casa mia era nella parte alta della città e spesso d’inverno la nebbia l’avvolgeva come una nuvola. Quando nevicava (al tempo dei miei dodici anni gli inverni erano rigidissimi, sovente ammantati di bianco), era un’impresa raggiungere la scuola media di via Roero.
Allora non esistevano genitori che accompagnassero i figli in macchina fin davanti al portone delle scuole. Scendevo da casa la lunga scalinata che la collegava a corso Milano, giravo a sinistra su corso Dante, passavo davanti a una casa strana con decori azzurri e i tetti a pagoda che paragonavo, con la fantasia, a quella vista in un libro di Salgari di mio fratello. Poi arrivavo in piazza Dante, allora colorata dalla casa rossa sulla sinistra dove era collocata in alto una punta di ferro che voleva ricordare la prua di un vascello in miniatura (così per lo meno è rimasta nei miei ricordi) e, sull’altro fronte, la casa color nocciola che aveva, se ben ricordo, dei leoni rampanti, o piccoli draghi dipinti in nero sotto la grondaia.
A questo punto giravo per via Massimo d’Azeglio e passavo davanti al giardino della casa di Giorgio e Paolo Conte. Mi sembra di ricordare una palma nel mezzo. Di sicuro sapevo quando in casa era giorno di bucato perché dai balconi scendevano candide lenzuola. A quel punto avevo i piedi congelati dal freddo. Allora non erano contemplati collant e scarponcini di para e pelliccia, né tanto meno i pantaloni per una ragazzina; le scarpe erano in cuoio con suola di gomma e le calze di lana pungevano i polpacci e si fermavano al ginocchio. Allora facevo tappa nella chiesa di San Secondo, un po’ per riscaldarmi e un po’ per pregare quel Sant’uomo di non essere interrogata.
Quindi attraversavo piazza Statuto inondata, in autunno, dal pungente odore dei tartufi che i trifulau smerciavano sotto i portici del Caffè San Carlo. Mi rimaneva da percorrere via Quintino Sella, che dopo la vendemmia esalava profumi di mosto che uscivano dalle cantine dei Bosia, superavo Palazzo Gazelli di Rossana, sfioravo la torre che dopo secoli era ancora lì a ricordare l’Asti turrita del Trecento e poi giravo a sinistra per via Roero. Là c’era la mia scuola.
Il portone aperto, le amiche in attesa (allora le classi non erano miste).
L’angoscia dell’interrogazione diventava terrore, ma c’era Grazia Grassini, compagna di banco, a sostenermi quando la professoressa Jona sfoderava il suo severo rigore con chi era interrogata (e, come me, sovente faceva scena muta). Una cosa mi incuriosiva di lei: un tatuaggio nero di lettere e numeri che aveva sull’avambraccio sinistro e di cui allora non sapevo spiegare la ragione. Da quegli anni, però, ogni volta che lessi o leggo un libro sulla Shoah mi torna in mente quel marchio scuro e indelebile. Non osai mai farmi raccontare.
E ora è troppo tardi.