Suonava la sua squillante trombetta. Una, due, tre volte.
«L’è ruvà Tantì». È arrivato Tantì. I bambini accorrevano in piazza a prendere la loro porzione di belecàuda, la bella calda, come si chiama la farinata di ceci in dialetto di
Nizza Monferrato. Valter era uno di quei bimbi. Se lo ricorda quell’omino piccolo e magro, il grembiule bianco, la coppola e il suo strano triciclo. Davanti aveva un grande contenitore per tenere al caldo la farinata. La avvolgeva in un pezzo di vecchia cartapaglia e via. Il suo soprannome derivava dal termine dialettale che indicava una porzione, un “tantì”.
È passato più di mezzo secolo ma Tantì, il venditore ambulante di belecàuda, è ancora oggi vivo nella memoria dei nicesi. E la belecàuda a Nizza Monferrato resta una irrinunciabile tradizione. È l’influenza della Liguria sul Basso Piemonte, come il marin, il vento che spira dal mare e supera gli Appennini, che accarezza i vigneti del Nizza Docg.
In linea d’aria, da Nizza alla costa ligure, siamo a neanche a 80 chilometri di distanza, basta andare verso il Sassello. Pare che l’origine della farinata di ceci sia molto antica.
Qualcuno la fa risalire all’epoca greco-romana.
La farinata di ceci nata dopo una battaglia navale
Ci sono tanti racconti, tante leggende sulla sua invenzione. Una curiosa la ricordano Massimo Corsi e Giuseppe Baldino nel libro Le Terre del Nizza: «Una leggenda narra che nel 1284, di ritorno dalla vittoriosa battaglia della Meloria, le navi della Repubblica Marinara di Genova si trovarono coinvolte in una tempesta, e alcuni barili di olio e farina di ceci si rovesciarono bagnandosi di acqua salata. I marinai, cercando di recuperare tutto il possibile, misero ad asciugare al sole l’intruglio, ottenendo così una specie di frittella. Nel tempo la fortuita e apprezzata ricetta venne migliorata, si pensò di cuocerla in forno, nel 1400 proprio a Genova venne emesso un decreto che ne disciplinava la produzione». Anche a Savona la fanno, ma con la farina di grano.
Nella città della paglia, ci sono numerosi locali che la propongono. Uno porta il nome “Tantì”, omaggio al singolare personaggio nicese. Meritano di essere ricordate la straordinaria belecàuda dell’Associazione Borgo San Michele e quella della Pro loco di
Nizza, premiata anche al Festival delle Sagre di Asti nel 2016. Ma c’e un posto da farinata che è divenuto un punto di riferimento: la pizzeria Sant’Ippolito. Da quasi quarant’anni, Valter Zaino sforna fumante belecàuda di ceci dal suo forno a legna. La pizzeria è nata nel vecchio locale in piazza della Verdura, davanti alla chiesa di Sant’Ippolito, da cui prende il nome: piccolissimo, neanche venti posti compreso il dehors, ma nella memoria di tutti resta il profumo di belecàuda.
Nel 2012, Valter con la moglie Rosangela Ratti, si sono trasferiti in riva al Belbo. Un altro locale storico che ha ospitato per decenni la Trattoria Savona. E ancor prima
Stevü che lì dentro a inizio secolo sfornava già farinata. Poco distante Gaviet, anche lui venditore di belecàuda.
Il trasferimento non è stato facile. «Molti nostri clienti erano affezionati alla vecchia Sant’Ippolito. Purtroppo, per essere a norma con le nuove disposizioni e leggi, abbiamo dovuto spostarci qui» spiegano Rosangela e Valter. Anche qui il locale è piccolo, al massimo 40 persone. Loro sono sempre gli stessi. Due piemontesi di poche parole.
L’intervista dura qualche ora. Bisogna conquistare la loro fiducia.
Ingredienti semplici e il segreto del legno di faggio
«Ho cominciato a fare la farinata quando avevo il Bar Sport – ricorda Valter –, in
seguito ho aggiunto le pizze al tegamino interpretando la tradizione piemontese».
Sono passati quarant’anni ed è ancora così. Nulla è cambiato. Gli ingredienti sono semplici: farina di ceci, olio extravergine di oliva, acqua, sale e rosmarino. L’impasto viene steso in una teglia di rame stagnato e poi cotto rigorosamente nel forno a legna.
Ma qual è il segreto per fare una buona farinata? «Devi capire quando la miscela degli ingredienti ha raggiunto la giusta liquidità e poi ci vuole esperienza a cuocerla bene e non bruciarla o farla troppo secca – racconta Valter –. Seleziono anche la legna: uso solo faggio ben essiccato». Che cosa si accompagna con la belecàuda? «Noi consigliamo sempre una Barbera d’Asti giovane in acciaio bevuta un po’ fresca».
Rosangela contribuisce al menù con pochi e semplici piatti: insalata russa, acciughe al verde, lingua in salsa, trippa, baccalà e la torta verde, altra ricetta ligure che si prepara a Nizza e dintorni. È la ricetta della mamma Antonietta, 83 anni, che lavora ancora
la sua vigna a Vinchio: «Riso, spinaci, porro, parmigiano, lardo e tanta pazienza» dice Rosangela. Qual è la vostra soddisfazione più grande? E qui le riserve dei due ristoratori nicesi si sono ormai sciolte: «Vedere che siamo arrivati alla terza generazione di clienti e continuano a venire. I padri portano i figli. Noi sono quarant’anni che siamo qui e
resistiamo. Ormai ci sentiamo una parte “storica” di Nizza».
In tanti sono entrati dalla porta della Sant’Ippolito: Marcello Rota, il direttore d’orchestra, l’attore Gipo Farassino, il jazzista Gianni Basso, Tullio Mussa, l’oste della Barbera. E negli ultimi anni crescono i turisti, soprattutto gli stranieri. Rosangela e Valter hanno due figli: Elisa, che studia design al Politecnico di Milano, e Alessio, studente al Politecnico di Torino. Il sabato e la domenica sono arruolati nello staff, ma
chissà se continueranno il lavoro dei genitori o prenderanno altre strade. Ancora non si sa. Per ora tutti i giorni, il forno della Sant’Ippolito continua ad accendersi. Solo il lunedì Rosangela e Valter si concedono una giornata di riposo e quando è bello vanno al mare, ma non hanno alcuna intenzione di mollare. La leggenda della belecàuda continua.