Nel passato, almeno fino a 50-70 anni fa, nella stalla delle famiglie contadine meno abbienti, soprattutto di collina, era già tanto se si trovavano una vacca e una coppia di buoi da lavoro, qualche coniglio che scorrazzava tra le zampe dei bovini e, magari, un paio di capre che potevano fornire il latte per i bambini. Se si saliva più alto, sui territori scoscesi della Langa, le capre prendevano decisamente il posto dei bovini e, soprattutto ai confini con il Cuneese, non era raro trovare qualche piccolo gregge di pecore di razza langarola. Ai ragazzi spettava il compito di portare al pascolo gli animali, prerogativa delle donne era la vendita del latte in eccesso presso i vicini (le “poste”) e di preparare un po’ di formaggio. Non sono molte, a dire il vero, le testimonianze relative al “fare il formaggio in casa” da parte delle famiglie contadine dell’Astesana: qualche tomino a coagulazione acida, ottenuto cioè dalla naturale fermentazione del latte in ambiente caldo, un po’ di quagliata (la giuncà) o di ricotta ricavate dalla lacià, ossia il siero che cola dalla fuscella dove si è coagulato il latte.
Disponendo di latte di capra o di pecora, ci si arrangiava con il sistema di coagulazione più antico del mondo, quello con il caglio vegetale: messo il latte con un po’ di sale in un tupìn, si rimestava ogni giorno con un rametto fresco di fico decorticato, a cui si lasciava in cima un frutto non maturo, leggermente inciso; dopo circa una settimana il latte si coagulava e diventava una crema leggermente acidula, da mangiare con la polenta. Se poi si volevano recuperare tome o robiole non perfette e avere una sfiziosità per la dispensa dell’inverno, bastava spezzettarle, collocarle in un recipiente di terracotta aggiungendo un bicchiere di vino bianco o di grappa e lasciare rifermentare il tutto, mescolando dopo qualche giorno e rabboccando con un poco di latte.
Ecco il bruss, il “cacio fortissimo” (come lo definisce il cavalier Vittorio di Sant’Albino nel suo Grande dizionario piemontese-italiano scritto a inizio Ottocento) che si presenta come una piccante crema da spalmare sul pane.
A dire il vero, le indicazioni per ottenere il bruss variano a seconda della zona: c’è chi grattugia i formaggi e chi li lascia interi; alcuni aggiungono acqua e altri latte, altri ancora integrano con della ricotta; si è reperita una ricetta dell’Acquese che prevede il rafforzamento del piccante con grani di pepe nero e un po’ di peperoncino.
Il bruss, che si prepara tuttora, tanto da essere inserito nell’elenco dei Prodotti agroalimentari tradizionali piemontesi pubblicato dal Ministero per le politiche agricole, trova la sua espressione migliore se si utilizzano formaggi di pecora o di capra.
Torniamo allora nella nostra Langa, quella di Roccaverano, di Serole, di Bubbio, di Monastero Bormida, di Mombaldone, dove si annida un tesoro, la Robiola di Roccaverano, oggi a Denominazione di origine protetta. Qui, dove i crinali si fanno più netti e il paesaggio appare più selvaggio, con estese zone boschive e pascoli, la tradizione dell’allevamento caprino è secolare. Uno storico locale racconta che a fine Ottocento nel comune di Roccaverano si tenevano ben cinque fiere annuali, durante le quali si vendevano per l’esportazione “eccellenti formaggi di Robiole”. In verità, il termine diffuso popolarmente è sempre stato “formaggetta”, a indicare un piccolo e basso cilindro dalla pelle molto sottile di colore bianco latte o avorio che, con la maturazione, tende al paglierino e, vieppiù, al rossiccio (rubeolus, dice il latino), con una fioritura naturale di muffette chiare.
La sua pasta morbida e setosa, diventa cremosa nel sottocrosta se il formaggio si affina per 10-15 giorni, regalando eleganti sentori caprini e aromi fruttati o vegetali legati al pascolo. Il disciplinare di produzione autorizza l’utilizzo di latte crudo intero misto, caprino e vaccino/ovino, ma diversi allevatori-casari stanno difendendo la Roccaverano “storica e classica” prodotta con latte di capra in purezza.
Tutta un’altra cosa. Interessante, a proposito di razze caprine, l’attività di un centro sperimentale di selezione, finanziato dalla Comunità montana Langa Astigiana Valle Bormida, che lavora al recupero della razza autoctona di Roccaverano in pericolo di estinzione oltre che allevare capi di alta genealogia con attitudine lattifera, come le razze Saanen e Camosciata delle Alpi. Il territorio della provincia di Asti, comunque, è oggi punteggiato di piccole aziende casearie che, sull’onda della maggiore attenzione da parte dei consumatori per i prodotti artigianali e a chilometro zero, offrono formaggi interessanti, soprattutto caprini. Se ne trovano a Monale, a Capriglio, a Moncalvo, a Moasca, a Costigliole, a Loazzolo (dove si produce un buon erborinato, il Blu di Loazzolo), senza contare le Agrilatterie che propongono anche latte e yogurt. Rimanendo nell’ambito della tradizione, non si può non ricordare la Robiola di Cocconato: a latte vaccino, è un formaggio fresco, dalla consistenza molle e cremosa. Molto apprezzata dagli astigiani, è tuttora una specialità in produzione nel comune omonimo.