Nel 1962 si forma la coppia Barberina e Spumantino
Carnevale, l’antica festa di uscita dall’inverno, ha radici profonde anche nell’Astigiano. Tra il XIV e il XV secolo il commediografo Giovan Giorgio Alione scrive che Asti era terra di “solacz”, cioè di divertimento. Nella seconda metà del ’400 si citano scherzi verso ingenue donzelle compiuti da maschere soprannominate “barboire”. Non mancavano giochi e sfilate accompagnate da cibi e vino.
Nel ’700 portano in giro i personaggi del carnevale saltimbanchi e marionette. Anche il personaggio di Gianduja, divenuta poi la maschera ufficiale piemontese, nasce nel 1808 in questo contesto (si veda Astigiani n° 17, settembre 2016, pagina 38). Tra il XVIII e XIX secolo si annotano feste e rappresentazioni carnevalesche anche nei tre teatri astigiani dell’epoca: il Malabayla, il Roero e il San Bernardino. Nel 1860 con il nuovo Teatro Alfieri le feste di Carnevale avranno maggiore risonanza.
Si diffondono nel Novecento anche manifestazioni di più marcato carattere popolare, con balli, veglioni e sfilate in costume. La stagione dei veglioni in maschera al Teatro Alfieri ha colorato i decenni del secondo dopoguerra. Il momento di svolta del Carnevale astigiano è negli Anni Sessanta, quando ad Asti si deve decidere se puntare sulla rinascita del Palio oppure credere di più nei richiami delle maschere.
Con la fine della guerra la gente aveva ripreso ben presto le abitudini al divertimento e allo svago. Negli Anni ’50 si segnalano balli e veglioni al Teatro Alfieri e in circoli privati e una sfilata tutta astigiana di domenica per le vie principali. Un paio di bande musicali, qualche gruppo mascherato a piedi, un nutrita schiera di vespisti del Vespa Club Asti in maschera e alcuni carri proposti dalle parrocchie cittadine. I carri venivano allestiti sul cassone di camion prestati per lo più da imprese edili e i temi delle rappresentazioni erano poco satirici, destinati soprattutto ai bambini.
Nel 1960 diventa sindaco Giovanni Giraudi, direttore didattico. L’esponente della Dc vuole creare manifestazioni in grado di far conoscere Asti. Tra i suoi obiettivi anche ripristinare il Palio, sospeso nel ’36, oppure creare un grande Carnevale che sia in grado di competere con i maggiori corsi mascherati piemontesi, da Torino a Chivasso, da Mondovì al celebre lancio delle arance di Ivrea.. Bisognava però avere le maschere di riferimento visto che Gianduja e Giacometta, che la tradizione vuole originari di Callianetto, erano di fatto torinesi.
Per rappresentare Asti furono creati a tavolino i personaggi di Barberina e Spumantino. L’atto di nascita fu redatto dal notaio Vittorio Origlia in municipio il 24 febbraio 1962, con il segretario generale Francesco Rustichelli e il geom. Ugo Fassio, ufficiale di Stato Civile, come testimoni. A tenere a battesimo le nuove maschere vennero da Torino il gruppo di Gianduja e Giacometta. Il tutto ripreso dalle cineprese della Rai, ovviamente in bianco e nero.
Viene anche data un’aulica spiegazione storico-culturale: “Barberina e Spumantino – si legge nell’atto notarile – farsescamente simboleggianti i tipici superbi prodotti di questa terra ferace, specificando che il loro costume, con i relativi ornamenti, riflettenti la vivacità dei colori della città e la varietà di quelli che offre la natura, hanno il significato di un travestimento rituale per le feste carnevalesche e vendemmiali con particolare carattere agrario propiziatorio”. Allegati all’atto, i bozzetti dei due costumi, ideati e disegnati dal prof. Luigi De Stefano e realizzati dalla sartoria teatrale milanese Annamaria.
La famiglia delle maschere astigiane trae spunto dai personaggi di rioni e borghi
Il 2 febbraio 1964 venne poi costituita la Famija d’le maschere astesan-e che comprendeva quelle dei quattro principali rioni cittadini, che nel tempo avevano espresso personaggi di spicco rimasti nel ricordo popolare e rappresentavano le tipicità e le leggende del borgo. Per Santa Caterina c’erano Falamoca e Gigìn Pulemica, per San Martino-San Rocco Tòni Destùpa e Maria Gugheta, il Barcaiolo e la Bela Lavandera rappresentavano Tanaro, mentre a San Pietro c’erano Cicu per tèra e la Bela Filandera.
I loro costumi, anch’essi realizzati da Annamaria di Milano, furono ideati da Eugenio Guglielminetti. Tutto ciò mise in moto i “comitati” per il carnevale (presidente, vice, segretario, tesoriere e consiglieri), meccanismi indispensabili per raccogliere fondi tra i borghigiani, organizzare feste, manifestazioni benefiche e soprattutto realizzare la sfilata. Giraudi – sempre nell’ottica di far rinascere il Palio – creò tenzone per stimolare la supremazia fra i rioni e istituì un premio costituito da uno stendardo con il simbolo del carnevale e i colori dei rioni partecipanti.
Per qualche anno Asti organizzò grandi sfilate con maschere non solo del Piemonte, ma anche con gruppi di studenti goliardi. Alle maschere rionali, quando il Palio era già ripreso nel 1967, si aggiunsero nel 1970 Cicu Fuèt e Ghitin d’la Tur a rappresentare la Torretta, un borgo che si era ingrandito di molto in seguito alle nuove costruzioni in corso Torino e tra corso Ivrea e corso XXV Aprile.
Anche il rione Don Bosco, con l’espansione della zona a nord di via Conte Verde, nel 1981 ebbe le sue maschere, Trumlìn e Ginòta. Ultima nata nella “Famija”, Madama Limunin-a, creata in frazione Variglie nel 2004 per ricordare la produzione in quella zona delle pesche “limonine”, una varietà pregiata e autoctona.
La scelta tra Carnevale e Palio vide però prevalere quest’ultimo anche se va detto che le due manifestazioni hanno convissuto a lungo coinvolgendo spesso le stesse persone.
Il 24 settembre 1967 segna la ripresa del Palio. Sull’esempio e l’esperienza dei quattro comitati per il carnevale, si formarono i comitati dei rioni cittadini che si identificarono con i confini delle rispettive parrocchie. Il Carnevale astigiano negli anni ha patito la concorrenza diventando, nonostante qualche tentativo di rilancio, una festa per gli studenti e gli alunni delle scuole cittadine, che vengono coinvolti in colorate kermesse di piazza. Sono cambiati anche gli strumenti. Meno stelle filanti e più bombolette di schiuma colorata. Per molti anni in piazza Alfieri, dopo la sfilata si è tenuto il rogo di un grande pupazzo di cartapesta simboleggiante il carnevale con fuochi d’artificio. Negli ultimi Anni ’80 si tenne anche un “demential carnival” animato dagli studenti delle scuole superiori.
“Il sindaco Giraudi mi chiamò in ufficio e mi ordinò: lei sarà Barberina”
I primi a dar vita a Barberina e Spumantino nel ’62 furono Ilde Epoque, impiegata del Comune, e lo studente universitario Giancarlo Fassone, poi titolare dell’omonimo studio di ingegneria, assessore provinciale, mancato due anni fa.
«Lavoravo nell’ufficio dello stato civile da pochi mesi – ricorda Ilde Epoque – quando si presentò l’usciere per dirmi che dovevo andare subito dal Sindaco. Il mio rapporto di lavoro era ancora di tre mesi in tre mesi e mi tremarono le gambe. Quando entrai, mi trovai di fronte al sindaco Giraudi e al capogabinetto Ercole Bo che, dopo avermi squadrata ben bene dalla testa ai piedi, annuirono “sì, va bene!” e mi comunicarono che avrei dovuto indossare il costume di Barberina. Ancora attonita, cercai di spiegare che non me la sentivo, ma non erano ammesse perplessità. Mia madre si spaventò quando aprì la porta di casa e si trovò le telecamere della Rai che mi voleva intervistare… Poi, il debutto con la presentazione dal balcone del municipio con una piazza San Secondo stracolma di gente e, nel pomeriggio, la sfilata con Gianduja e Giacometta per la città su auto scoperte, contornate dalle “bicchierine”, un gruppo di ragazze con costumi da contadinelle voluto dall’Ente Turismo. Partecipammo a numerose sfilate di maschere in tutto il Piemonte e anche fuori: Venezia, Bergamo, Bologna, Modena… ma sempre accompagnate dalle nostre mamme quando si doveva pernottare fuori casa. Ricordo in particolare Venezia. In piazza San Marco, su un grande palco con il famoso presentatore Nunzio Filogamo, dovemmo anche esibirci in una breve recita. Per tre anni vestii quel costume e nacque un’amicizia con la ragazza che impersonava Giacometta e altre maschere italiane, che per anni frequentai anche al di là del carnevale. Tutti ricordi molto belli».
Per celebrare la nascita delle due maschere della città, uscì un disco con una canzone loro dedicata, composta dal poeta dialettale Menìn Pippo e dal maestro Ginella. A indossare i costumi di Barberina e Spumantino oggi sono Patrizia Pichierri e Michele Cantore, ma in questi anni sono state decine gli astigiani che hanno dato vita a queste maschere, antesignane di quello che oggi è definito marketing territoriale.
Emanuele Pastrone ha dato anima e verve a Falamoca
La tradizione storica vuole che alla porta ovest della città, quella di S. Antonio, prestasse servizio il doganiere Falamoca, che il 16 aprile 1795 all’osteria dei Trej ciuchìn (vicino alla chiesa di S. Caterina) uccise un certo Ottavianino, che lo aveva offeso cercando di entrare clandestinamente in città senza sottostare ai regolamenti della dogana, che imponevano a chi entrava di “reggere” una pesante pietra accanto alla porta.
Gigìn Pulemica era la bella figlia di un fabbro e di Lena di Brichèt (Maddalena dei fiammiferi) che viveva nei pressi della “bùla” della fornace di corso Torino. Giovane, bella, arguta e dalla facile favella – tanto da essere sempre in polemica per tutto – Gigìn si innamorò del doganiere Falamoca. Dopo la morte di Ottavianino, Falamoca fu processato, ma venne assolto e così si coronò il sogno d’amore dei due personaggi. Il primo a impersonare Falamoca fu Aldo Nebiolo, con Rita Giberti, e dopo qualche anno Emanuele Pastrone, figura indimenticabile per la sua naturalezza nella recitazione anche a teatro, fu Falamoca fino agli ultimi anni della sua vita.
Pastrone-Falamoca divenne molto popolare e guidò le maschere astigiane verso iniziative di solidarietà, a cominciare dalle visite alle scuole e alle case di riposo. Oggi le maschere di Santa Caterina sono interpretate da Adriano Rissone e Giovanna Cerrato.
A San Pietro Cicu Pertera e Bela Filandera
Cicu Pertera era il soprannome del padrone dell’osteria del Pùnt Vèrd, che rimase aperta fino agli Anni ’80 a metà di viale Pilone, accanto al ponte sul rio Valmanera. Era diventata famosa per un suo piatto particolare, gli agnolotti d’asino. Li cucinava lo stesso proprietario Cicu (Francesco) con un ripieno squisito. In quell’osteria negli Anni Trenta si è costituita anche la Banda di cusot, suonatori di zucche che divennero famosi con la rappresentazione degli Scolari di Val Masone (vedi Astigiani n° 8 dicembre 2016 , da pagina 44) Nel rione San Pietro, un tempo periferia della città, proprio vicino al Pùnt Vèrd, aveva sede una grande filanda (chiusa negli Anni ’30).
Tra le ragazze che vi lavoravano veniva scelta ogni anno la più bella alla festa del rione. Verso la fine dell’800 venne eletta “Bela Filandera” una certa Richéta (Enrichetta) che lavorava tutto il giorno tra i fili di seta dei cuchèt (bozzoli) e le ruote di legno che battevano e filavano le matasse. La bellezza e l’allegria di Richéta conquistarono subito il cuore dell’oste Cicu, che ogni giorno sospirava nel vederla passare per andare al lavoro. I primi a indossare i panni di Cicu Pertera e della Bela Filandera furono Mario Borghese e Caterina Gianoglio, mentre oggi le maschere sono impersonate da Vittorio Ravizza e Alessandra Rovera.
Tanaro fa sfilare il Barcaiolo e Bela Lavandera
Le due maschere di Tanaro non potevano che ispirarsi al fiume. Il Barcaiolo ricorda le attività che si svolgevano sul fiume, dalla pesca un tempo abbondante, all’estrazione della sabbia e della ghiaia, al trasporto delle persone da una riva all’altra. La figura del Barcaiolo vuole anche ricordare il coraggio dimostrato dalla gente di Tanaro, che ha salvato tante persone che stavano per annegare. Nel rione dove la vita è sempre stata molto legata al fiume, moltissime popolane erano lavandaie.
Specialmente sulla sponda destra, nella località Trincere, dove alle lavandaie è stata intitolata anche una piazzetta. Per secoli le lavandere hanno lavato i panni di tutta la città, battendoli sul loro “scàgn” di legno che tenevano al bordo del Tanaro e stendendoli poi al sole appesi a lunghe corde fissate sulla riva e tenute sospese dalle “cràve”, gli appositi sostegni ricavati da robusti rami. La Bela Lavandera rappresenta così il faticoso lavoro di quelle donne che puntualmente ogni settimana portavano i panni puliti nelle case degli astigiani facoltosi, ritirando quelli sporchi. Ivano Sacchetto e Mariella Bongiovanni indossano oggi i costumi di Tanaro, mentre i primi a vestirli furono Carlo Rocca e Mariuccia Amerio.
A San Rocco sono di casa Toni Destupa e Maria Gugheta
Secondo il canovaccio Toni aveva la più nota osteria di San Rocco. Era un esperto conoscitore di vini e sturava (destupàva) bottiglie di vino dal mattino alla sera con il “tirabussùn” (cavatappi) che aveva sempre appeso alla cintura dei pantaloni. Per garanzia dei suoi avventori, non mancava mai di assaggiare una bottiglia prima di servirla… per cui era sempre piuttosto allegro.
Maria Gughèta era un’ortolana del borgo San Rocco, abituata alla fatica del lavoro e orgogliosa delle verdure prodotte dalla sua famiglia. Divenne la moglie dell’oste Toni e con lui condivideva il piacere di “assaggiare” il vino buono. Anche per questo non le mancava mai il buonumore e la voglia di fare baldoria, “fé gughèta” appunto. A vestire per primo, e per anni, i panni di Toni Destùpa fu Ercole Ciffone, puro sanrocchese, noto per il suo banco di ambulante in piazza Alfieri, che interpretò mirabilmente la maschera, insieme ad Adriana Della Piana, pettinatrice nel cuore del rione. A interpretare le maschere di San Rocco sono oggi Giglio Grasso e Mafalda Leto.
Nel 1970 alla Torretta creano Cicu fuet e Ghitin d’la tur
Con i nuovi insediamenti e la nuova parrocchia N. S. di Lourdes, si è sviluppata l’identità territoriale del quartiere Torretta, non periferia della città con orti, prati e poche case. Con la polemica scissione da Santa Caterina in tema di Palio, anche per il carnevale la Torretta ha voluto diventare autonoma. Così, nel 1970 presero vita due maschere: Cìcu Fuèt e Ghitìn d’la Tur, impersonate per alcuni anni da Beppe Eliantonio e Gabriella Perosino.
Una delle principali attività della Torretta era la lavorazione del legno, per cui per le vie del borgo c’era un viavai di carri e carretti che trasportavano sia il legname che i prodotti finiti. Per il loro mestiere, i “cartuné” avevano sempre in mano la frusta, il “fuèt”, che sapevano maneggiare con maestria e che diede poi il nome alla maschera. Ghitìn, invece, era la proprietaria dell’osteria della Torre che, ovviamente, era frequentata soprattutto dai carrettieri che si fermavano a bere un bicchiere di vino tra un trasporto e l’altro. Ghitìn sposò il carrettiere Cicu Fuèt, ma poco dopo si innamorò di un ufficiale francese di passaggio da Asti e tradì il marito, che la rinchiuse dandole ogni giorno una razione di cibo ma anche di “fuetà”. Le due maschere oggi sono interpretate da Francesco Mendola e Teresa Lazzarato. Alla Torretta proseguono con tenacia anche la tradizione del polentone, il clou delle feste di carnevale.
Trumlin e Ginota inventati al Don Bosco nel 1981
Nel 1981 alla Famija d’le Maschere Astesan-e si aggiunsero altri due personaggi, Trumlìn e Ginòta, che rappresentavano il rione Don Bosco. Lui, un contadino, allevatore di bestiame, che rappresentava la comunità agricola della periferia nord della città, intorno al “Fontanino”, i contadini che nei giorni di mercato vendevano in città i loro prodotti. A far coppia con Trumlìn era Ginòta, una bella contadinotta anche lei di quei luoghi, sana e robusta, che si dedicava ai lavori della campagna. Le due maschere del Don Bosco hanno avuto vita breve. Dopo il carnevale del 1983 sono ricomparse quest’anno sulla scena impersonate da Simone Marchioro e Miriam Belvedere.
A Variglie ecco Madama Limunìn ultima nata tra le maschere
L’ultima nata della Famija d’le maschere astesan-e è Madama Limunin-a. È stata creata a Variglie, frazione di Asti, dove viene coltivata la pesca limonina, una qualità dalle caratteristiche particolari, che nel 2003 ha ottenuto la “de.co.”, la denominazione di origine comunale. A volere la maschera – per rappresentare quel particolare frutto, prodotto quasi esclusivamente nel territorio di Variglie – è stata la Pro loco – Adriano Rissone, Piercarlo Beccaris, Giovanna Arfinengo e altri – durante una riunione di metà agosto nel circolo della frazione.
Ed è proprio nella prima metà di agosto, quando matura la pesca limonina, che ormai da oltre dieci anni si tiene la sagra per esaltarne la qualità e la prelibatezza. Contemporaneamente al mercato della pesca limonina, si organizzano giochi per i bambini, polenta, spezzatino, bugie e vino gratis per tutti, oltre a una cena tutta a base di pesche, dall’antipasto al dolce. A indossare il costume di Madama Limunin, disegnato da Antonio Guarene, fin dal primo anno è stata Carla Raspino. Durante il carnevale la maschera si aggrega alla “Famija” per partecipare a sfilate e convegni.
Va ricordato che ad aprire ufficialmente il carnevale in Piemonte ogni anno sono Gianduja e Giacometta e lo fanno con la rituale visita al “ciabòt” di Callianetto, festeggiati dalle maschere astigiane e nella Famija d’le maschere Astesan-e, per iniziativa del Club del ’23, dal 1973 al 207 compare anche una versione astigiana della celebre coppia di maschere impersonate da Gep Amerio e dalla moglie Carla.
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