La sera del martedì di Carnevale del ‘900 e qualcosa, in un paese del Monferrato a casa del Mando si preparò il gran cenone a base di agnolotti per salutare la festa e immergersi nel magro della Quaresima. Vi si convogliarono tutte le donne a impastare e tirare sottilissime sfoglie da ingobbire di ripieno.
Ma il Mando e il medico Carena, in vena di scherzi, lavorarono ancor più di testa a perfezionare tutti i particolari che dovevano essere assai curati per fare il colpo che si prefiggevano. Alla fine, per il buon fine della messa in scena, decisero che il medico non avrebbe partecipato alla cena perché indisposto e ognuno tornò ai fatti suoi, in attesa della sera. E il fatto suo del Mando fu di andare dal massacrìn a procurarsi una vescica di maiale, pulirla e lavarla per bene, assicurarsi della sua elasticità e legarla ai due lati con uno spago lungo. Il tutto in profondo segreto.
Alle otto arrivarono gli ospiti e si accomodarono attorno al tavolo della sala preparato con stoviglie e tovagliati di lusso. E le donne cominciarono a buttare gli agnolotti nelle pentole fumanti. Il Mando, a quel punto, smise per un attimo il ruolo di padrone di casa per andare in cucina e avvicinarsi alla moglie: «Prepara un piatto che vado a portarlo al Bino qui di fronte, pover’uomo, che gli agnolotti se li sogna». «Eh, bén… » disse la donna contenta dell’occasione di far del bene nell’abbondanza. Condì e informaggiò con cura la fondina, la coprì con un altro piatto perché non fosse subito morsa dal freddo, e la porse al marito che, senza farsi vedere da nessuno (per via, disse, della mano sinistra che non sappia l’operato della destra), sgattaiolò dalla porta di dietro e si rifugiò nella stalla.
Qui accese un lume sufficiente a vedere un po’ più che al tatto e, tirata fuori la vescica di maiale, la slegò da un lato e cominciò a riempirla di agnolotti belli e fumanti. Alla fine chiuse bene le due estremità, lasciando corda sufficiente a ognuna in modo da posarsi il fardello all’altezza dello stomaco, tra pelle e maglia, e legarsi i capi dietro la schiena, come fosse un grembiule. Rientrò soddisfatto e si mise a tavola con gli altri per dare il via alla cena, veramente ricca e abbondante. Finiti gli antipasti di salumi e sardine sott’olio, si spolverarono ben presto i grandi vassoi di agnolotti, mangiati contando le dozzine, chiedendo la misericordia di una pausa prima che arrivassero gli arrosti.
E lì, mentre tutti si davano a un gran vociare festoso, innaffiato di buone bottiglie di vino d’annata, il Mando recitò il suo capolavoro. Cominciò a contorcersi sulla sedia, fino a rotolare per terra, simulando dolori insostenibili allo stomaco. I convitati, è logico, furon presi da enorme spavento e la Gina corse al soccorso del marito letteralmente terrorizzata. «Muoio, muoio… – urlava il Mando da forsennato – Chiamate il medico mi hanno avvelenato…» Qualcuno corse subito dal dottor Carena che, febbre o non febbre, era sempre pronto ad accorrere, mentre gli altri si autoesaminavano in attesa, confrontandosi con i sintomi del Mando, che non la dicevano per niente buona. «Ma cosa senti?» «Dove?» «Delle fitte?»
Come un coltello?» Lui si rotolava sul pavimento come in preda al delirio. E le donne ripassavano tutti gli ingredienti che potevano aver scatenato quell’inferno. Ognuno era spaventato a morte, forse in attesa della morte stessa. Arrivò il medicò, con la sua borsa, intabarrato fino agli occhi.
Si inginocchiò al – si fa per dire – capezzale del Mando, gli tastò la parte dolente, facendolo ululare ancor di più, poi si sollevò e, con perentorietà di mestiere, decretò: «È un’ulcera perforata. Non spaventatevi. Sgomberate il tavolo e stendete un lenzuolo che devo operarlo». «Operarlo?» «Qui?» «Oh, Dio santo! Signur, iutemi!» «Non allarmatevi – imperversò il medico – c’è bisogno di tutti. Portatemi dell’acqua calda». E già si era svestito della giacca e si arrotolava le maniche della camicia fin sopra i gomiti. «Dottore, ma dovrò morire?» implorava il Mando. «No, ma bisogna fare in fretta».
Fu sparecchiato il tavolo, ricoperto di un lenzuolo che la Gina aveva tratto dal guardaroba, piangendo giaculatorie. Tutti restarono fermi alla consegna di non allontanarsi. Qualche donna più coraggiosa era pronta a far da infermiera e passare gli arnesi che il medico disponeva su un tavolino avvicinato a quello grande dove già stava steso il Mando, issatovi dalle robuste braccia tremolanti degli amici. «Non sentirai niente» gli disse paterno il dottor Carena, mentre imbeveva di etere un batuffolo di cotone. E che fosse etere nessuno aveva dubbi. Il Mando finse di addormentarsi f inalmente placato e il tavolo divenne il punto di attrazione al quale si incollarono tutti gli occhi e i cuori dei commensali.
«Passatemi dei tovaglioli bianchi puliti e abbassatemi il lume fin qui. Voi prendete delle candele e tenetele alte, ma non troppo vicino». Poi, con gesti decisi e sapienti, sollevò appena la maglia color pelle, scoprendo di poco quello che tutti credevano lo stomaco gonfio del Mando. Vi dispose attorno i tovaglioli bianchi, lasciando visibile appena un quadrato di dieci centimetri.
Nel silenzio quasi totale, dove si biascicavano a ronzio sottile e incessante le preghiere delle donne, il medico disse: «Passatemi il bisturi! Ecco: quello». E, lentamente, come se dovesse ragionare a fondo su quel che faceva, cominciò a tagliare. «Ehm!… – si lasciò appena sfuggire, come scontento della situazione che solo i suoi occhi stavano valutando. E poi perentorio: «Passatemi una forchetta!». «Disinfettata?». «Non importa…». E, impugnata la forchetta, la brandì con ghiotta sapienza.
«Sfido che aveva male! – sbottò – li ha mangiati tutti interi!» E, affondando il piccolo tridente nello stomaco aperto del Mando, trasse degli agnolotti conditi e informaggiati che cominciò a mangiare a sua volta di seconda mano, o meglio di seconda bocca. «Buoni, questi agnolotti, proprio cotti a puntino e ben conditi. Complimenti alla cuoca!». A questo punto, chi non svenne corse fuori a liberarsi fin l’anima. «Prendete, prendetene pure anche voi – invitava l’allegro chirurgo – Non sono avvelenati!»
Il giorno dopo il dottor Carena ebbe molto più lavoro e qualcuno inaugurò la Quaresima con un digiuno che non costò alcun sacrificio. Tra le donne circolava una convinzione convinta: «Per quest’anno, basta agnolotti! ‘Na bela m-nestrin-a ca la scauda ‘l stome…». E dentro pensavano che, se non ci si poteva fidare di un bravo e saggio medico di famiglia, mancava soltanto che il prete salisse sul campanile della chiesa a spargere ostie come coriandoli… Mah! Scherzi di Carnevale.