Sul finire dell’Ottocento anche ad Asti si diffonde la consuetudine di celebrare il Carnevale a teatro e non più, o almeno non solo, nelle piazze e nelle vie.
In una società che si stava adattando a un nuovo stile di vita, a una economia in crescita e in via di trasformazione, il Carnevale assume la valenza di una festa non più soltanto a base popolare trasgressivo-propiziatoria collocata alla fine dell’inverno e prima della Quaresima, ma di un evento ludico ed estetico di alto livello in cui si rispecchia la nuova identità aristocratico-borghese dei notabili locali.
Ad aiutare questa rivoluzione dei costumi degli astigiani era certamente anche intervenuta l’apertura, avvenuta nel 1860, del Teatro sociale Vittorio Alfieri, rivitalizzante per l’aristocrazia e la neonata borghesia industriale e commerciale astesi che nel nuovo teatro, grande, elegante e bello, sentivano di vivere appieno la propria condizione di agiatezza secondo lo stile di vita mirabile che i giornali mostravano essere proprio delle grandi città italiane ed europee.
Gli industriali, i banchieri, i professionisti, i più agiati commercianti, insomma la gente bene di Asti, si “raffinava”, osi illudeva di farlo, nel suo teatro più importante, assistendo agli spettacoli accuratamente scelti dalla Società che gestiva il Teatro e dall’Amministrazione comunale che lo dirigeva e ne pagava le spese. Spettacoli appositamente allestiti dalle più
note compagnie. E, a Carnevale, anche l’offerta teatrale cambia.

Infatti, se all’Alfieri durante la stagione autunnale vengono messe in scena le più note e moderne opere liriche, da La Favorita di Donizetti passando per Aida, Macbeth, Rigoletto, La forza del destino di Verdi, senza tralasciare Norma di Bellini e se in primavera, di consueto, il cartellone propone opere più leggere che i documenti definiscono fantastiche o comiche con alternanza di canto e recitazione, quali Boccaccio di Von Suppé o Il babbeo e l’intrigante di Sarria, solo in poche occasioni intervallate da opere quali Il Barbiere di Siviglia di Rossini o Ernani di Verdi, per la stagione di Carnevale l’Amministrazione comunale contatta compagnie teatrali che offrono esclusivamente spettacoli di prosa.
I manifesti, le locandine e i contratti custoditi dall’Archivio storico del Comune di Asti, riferiti ai decenni a cavallo tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, testimoniano che la stagione inizia subito dopo Natale, e si conclude tra fine febbraio e inizio marzo. La richiesta rivolta alle compagnie è che si tratti di «rappresentazioni drammatiche (inteso alla greca quindi teatrali) colle migliori produzioni che dovranno proseguire senza interruzioni
seralmente sino al termine del Carnevale.»
Tra le altre prescrizioni si dice che «è proibito alla drammatica compagnia di dare feste da ballo in Teatro sia a loro vantaggio che per scopo di beneficenza.» A tale divieto si affianca l’obbligo «di fare riposo e permettere l’uso del Teatro in quella sera che la Società proprietaria e la Direzione municipale dello spettacolo lo concederanno per una festa da ballo od altro a scopo di beneficenza.»
Dagli Anni Ottanta dell’Ottocento, infatti, i balli – privati e pubblici – sono, sempre di più, tra gli eventi “selezionati” cui la ricca borghesia astigiana, che già qualche anno prima don Enrico Grimaldi aveva definito di buon tempo e buona borsa, non manca di partecipare.
Tra questi, il più ambito è certamente il Gran ballo di Carnevale organizzato nel Teatro Alfieri che viene trasformato togliendo le poltrone dalla platea per consentire le danze.
La festa da ballo di Carnevale interrompe, per un giorno almeno, la stagione teatrale carnevalesca e, mentre negli anni precedenti alle compagnie non è concesso alcun rimborso per questo “uso in proprio” che l’Amministrazione fa del Teatro Alfieri, gli accordi per la stagione di Carnevale 1888-1889 prevedono che la Compagnia «per tale concessione riceverà un indennizzo che si fissa in lire duecentocinquanta», a fronte di un compenso complessivo di duemila cinquecento lire: le entrate derivate dal ballo, dunque, dovevano certamente essere superiori.



Sono documentati gli affitti dei palchi per l’evento e il costo degli altri biglietti di ingresso. Ogni palco diventa per chi lo riserva uno status symbol, un piccolo salotto dove ricevere, vedere ciò che accade e soprattutto farsi vedere.
Il Veglione di Carnevale dell’Alfieri, destinato a essere ripreso con grande successo nel secondo dopoguerra, con i veglioni arricchiti da cantanti e orchestre dedicati alla Croce Verde o quelli dello Sport, si configura quindi, proprio a partire dagli ultimi decenni del XIX secolo, come l’occasione mondana per eccellenza, in cui lo sfoggio di lusso e ricchezza della classe dirigente astese viene parzialmente compensato dalla beneficenza rivolta verso i più bisognosi quelli a cui la sorte – scrivono i giornali dell’epoca – fu avara matrigna.
E se la stagione teatrale di Carnevale dell’Alfieri prosegue con questa denominazione solo fino al 1904 per poi diventare semplicemente stagione di prosa, il Veglione, fatta eccezione per gli anni più duri delle guerre, continuerà a essere un momento di festa di élite, ammantato dal fine della solidarietà, fino al termine della sua storia negli Anni Sessanta del secolo scorso.











































