Astigiani pubblica in anteprima uno dei capitoli del libro “Pane e pere a colazione” in uscita per i tipi dell’editore cuneese Araba Fenice. L’autore è la scrittrice astigiana Franca Garesio. La prefazione di Pier Carlo Grimaldi.
Per quanto si fosse poveri e per quanto fosse numerosa la famiglia, anzi proprio per questo, la donna, che aveva la responsabilità del ménage della casa, ogni giorno doveva fare in modo che almeno un pasto fosse degno di questo nome.
Se per la colazione, come si è visto, più o meno qualcosa si riusciva a rimediare, ben più arduo era il compito di garantire tutti i giorni un pasto decente a chi lavorava sodo e a chi doveva crescere sano e robusto.
Non sempre c’erano un primo e un secondo; anzi più spesso, almeno dalla fine dell’Ottocento ai primi decenni del Novecento, in molte famiglie c’era il piatto unico della polenta (ancora polenta!) quasi sempre con un contorno di scarso valore nutritivo. Essa fu per secoli simbolo di cibo povero, ma in genere facilmente accessibile, specie nell’Italia del nord dove la produzione di granoturco era notevole; del resto un piatto o due di polenta davano la sensazione di aver mangiato a sufficienza, sebbene circolasse l’adagio: Polenta polentà, pansa pien-a e mal disnà.
Pare che anche in Piemonte, oltre che in Lombardia e nel Veneto, ci fosse un’usanza tipica dei tempi più poveri, quando si usava accompagnare la polenta con il vago sapore di una
saracca (acciuga o aringa essiccata ndr). In pratica si racconta che una saracca venisse sospesa a pochi centimetri al di sopra del tavolo e su di essa ciascuno sfregasse la propria fetta di polenta per insaporirla.
In realtà, almeno dagli Anni Venti del secolo scorso, anche nelle famiglie più povere, con la polenta si mangiava un po’ di tutto: latte, toma, insalata di cavoli crudi conditi con la bagna del diau (fatta di aceto, acciuga e aglio, portati a ebollizione e versati all’ultimo momento sui cavoli tagliati finissimi).
Qualcuno trovava squisito accompagnare la polenta con cipolle fritte e sangue di maiale cotto, con il sanguinaccio, o con cavoli e cotechino caldo. Altri la insaporivano con la tartara (da non confondere con l’omonima salsa), pietanza molto sostanziosa: uno sformato di
latte (1/2 litro), sangue di maiale (1/2 litro), 3 uova e cipolla fritta nell’olio, sale e pepe, il tutto ben rimescolato e cotto lentamente a bagnomaria in un recipiente di terracotta, su cui si era messo un coperchio ricoperto di brace.
La tartara aveva un unico inconveniente: che la si poteva cucinare solo quando si uccideva
il maiale, o lo uccideva qualcuno del paese. Allora le donne facevano la fila per prendere un po’ di sangue in un pentolino. Quel giorno, era certo, si mangiava polenta e tartara.
Molto diffuso, specie tra gli anziani, era il consumo del bross, detto anche formagg mars, una specie di cacio fortissimo e fermentato, ottenuto con scarti di formaggi vecchi d’ogni genere tagliati a scaglie, cui veniva aggiunto un po’ di latte e che si lasciava fermentare una ventina di giorni prima di consumarlo.
Ma il contadino verace, amante dei gusti forti, vi aggiungeva periodicamente anche un po’ di grappa, rimescolando bene il tutto. Lo si conservava in cantina, in un recipiente di terracotta con coperchio o proteggendo semplicemente l’imboccatura con un foglio oleoso di carta velina, tenuta ferma da un giro di spago sotto l’orlo del collo.
Del resto non si doveva sterilizzare nulla, anzi la ricca presenza di batteri ne favoriva la fermentazione, per cui era del tutto naturale trovarci poi numerosi vermi; nulla di drammatico: si toglievano e si spalmava, sulla polenta o sul pane, il molle e saporitissimo bross.
Qualcosa di simile accadeva anche per le tome, che quasi tutte le donne confezionavano in casa. Il sistema era semplice e antico: prendevano una tela di canapa a trama un po’ rada, teila da seirass, in cui versavano il latte cagliato e scremato, riunivano le cocche e legavano la tela in modo da poterla appendere e far sgocciolare per alcuni giorni tutto il siero.
A questo punto non restava che mettere la toma in un piatto e farla asciugare ulteriormente all’ombra e all’aria aperta per qualche giorno. Ma se la stagionatura era troppo lunga e non ben curata, poteva accadere che vi comparisse un po’ di muffa o dei vermiciattoli, considerati anch’essi del tutto naturali, per cui, senza alcun problema, venivano tolti, e si mangiava la toma tranquillamente.
Se la polenta fu il cibo più frequente sulla tavola dei poveri, è anche vero che certi abbinamenti con pietanze caratteristiche, che in passato erano di ripiego, oggi sono diventati piatti ricercati, motivo di originalità, oltre che evocatori di tempi semplici e genuini.
Uno dei più conosciuti e rispondente ai gusti forti dei contadini, è polenta e bagna cauda, un intingolo a base di aglio, olio e acciughe (con aggiunta a piacere di un bel pezzo di burro o un po’ di latte), il tutto cotto lentamente anche per due ore. Si mangiava, come si mangia ancora oggi, con varie verdure: cardi, sedani, peperoni, topinambur, finocchi ecc.
In genere si metteva al centro del tavolo il recipiente di terracotta (ër dian) contenente la
bagna cauda e ciascuno vi bagnava il proprio pezzo di verdura accompagnandolo con la polenta; ma se qualcuno cercava di prendere più intingolo del dovuto, gli si diceva subito: «Ehi, bagna rivé!», intingi appena.
Ce ne doveva essere per tutti!
Un altro abbinamento, oggi un piatto raro e prelibato, era polenta e grive, fatte secondo un’antica tradizione popolare secentesca, a quanto pare molto diffusa all’epoca nelle Langhe; era nata per imitazione ironica dei gustosi tordi arrosto (detti appunto grive), di cui si cibavano i signori. Le grive del popolo erano invece un cibo povero fatto con varie
parti di recupero del maiale: fegato, frattaglie, grasso, carne di gola, uova, pan grattato e bacche di ginepro per imitare il gusto dei tordi che si cibavano di queste bacche per cui la
loro carne ne assorbiva il sapore. Il tutto, ben amalgamato, veniva poi modellato in fagottini avvolti nell’omento di maiale e fatti rosolare lentamente nello strutto. Buone da leccarsi le dita, in barba ai tordi dei signori!