Fino a meno di cinquant’anni fa la vendemmia si affrontava con strumenti ben lontani dalle attuali attrezzature hi-tech. Non c’era la plastica e tutte le attrezzature erano rigorosamente in legno o metallo. Contenitori realizzati da sapienti artigiani e ceste piccole o grandi. Si trovano ancora spesso riadattate come elementi di arredamento di cantinette e case in campagna. La raccolta dell’uva richiedeva tanta mano d’opera. Le famiglie erano molto numerose e lo scambio tra parenti e vicini era consueto – ci si aiutava vicendevolmente – e, una volta portata l’uva a casa, lunghe tavolate allestite sotto i porticati accoglievano gli affamati vendemiao (vendemmiatori). Le portate erano poche ma semplici e sostanziose (soma d’aj, acciughe al verde, pane e salame, minestrone di tajarin e fagioli, uova e tirà), anche perché dopo la cena bisognava ancora pigiare l’uva negli arbi (bigonce), operazione che veniva anticipata dai bambini, che a piedi nudi salivano sui carri e, calati negli arbi di legno, incominciavano la pigiatura con l’allegria di un gioco. Al mattino, alle prime luci dell’alba, una volta radunate le ceste di gura (intrecciate in legno di castagno) si caricavano sul carrettone trainato dall’instancabile bue. Un animale dalla forza inestimabile, in grado di trainare su e giù da scoscese colline un carro con una bigoncia piena d’uva del peso di parecchi quintali. I buoi, nelle campagne, erano una risorsa importante e rappresentavano un simbolo di solidità economica per quelle famiglie che potevano permetterseli.
Alla vendemmia partecipavano tutti i componenti della famiglia: alle operazioni di maggiore fatica, come il trasporto in spalla delle ceste colme d’uva, ci pensavano uomini e ragazzi. Una specialità era il trasporto della brenta, una sorta di zaino allungato in legno che si issava sulle spalle colmo d’uva: bisognava avere l’abilità di svuotarla nell’arbi facendo scendere i grappoli tra spalla e testa del brentau.
Nonni, donne e bambini invece staccavano con coltelli, puarin e forbici i grappoli dai filari, raccogliendo con attenzione, lasciando solo le rape ‘d san Martin, i grappolini che sarebbero maturati a novembre inoltrato. I nonni, simpaticamente, invitavano i bambini a cantare per evitare che si distraessero o mangiassero troppa uva durante il lavoro.
Cappellina di paglia per gli uomini e foulard per le donne, scarpe vecchie e abiti usurati, costituivano l’abbigliamento ideale per affrontare la vendemmia, che a cominciare con il moscato e il brachetto ai primi di settembre, si sarebbe inoltrata fino ai primi di novembre con le ultime barbere e i nebbioli.
La vendemmia, oltre che impegnativa, ha sempre rappresentato un traguardo importante per il lavoro in vigna, al punto da richiamare la festa al momento della conclusione, solitamente rappresentata dalle gioiose livraje, le cene di fine vendemmia animate da musiche e canti, con la bagna cauda a fare da trionfo gastronomico, accompagnata dal vino nuovo, le verdure classiche e i primi cardi gobbi raccolti in Valle Belbo.