martedì 18 Novembre, 2025
HomeNumero 31"Uccidete me, salvate i miei parrocchiani"
1944-’45
Novecento

“Uccidete me, salvate i miei parrocchiani”

Il vano appello di don Camurati fucilato dai nazisti con dieci contadini a Villadeati
L’eccidio di Villadeati del 9 ottobre 1944. È uno degli episodi più cruenti e sangunosi della lotta di liberazionenel Monferrato. Un piccolo paese, colpevole di aver dato ospitalità e conforto ai partigini. È rastrellato e saccheggiato daii tedeschi e dai repubblichini. Dieci capifamiglia estratti a sorte sono trascinati all'ingresso del paese per eseere fucilati. Il parroco don Ernesto Camurati tente di salvarli, si propone come ostaggio. Sarà la decime vittima. Sette mesi dopo, a guerra finita, il 30 aprile 1945 l'ufficiale tedsco che aveva ordinato la strage, catturato dai partigiani, sarà riportato a Villadeati e giustiziato nello stesso luogo dove aveva ordinato la fucilazione delle 10 innocenti vittime. Come é stato scritto, “ANCHE I BOIA MUOIONO”.

Fine aprile 1945, l’ufficiale tedesco che ordinò la strage catturato e rinchiuso a Moncalvo

 

Lunedì 30 aprile 1945. Nel bunker di Berlino Adolf Hitler si uccide con una fiala di cianuro, ponendo fine alla tragica epopea del Terzo Reich. La guerra in Europa sta per finire. La Germania nazista è sconfitta e invasa. In Italia l’ordine di insurrezione generale è emanato dal Clnai il 25 aprile.

Le colonne degli Alleati, finalmente sfondata la linea gotica, superano il Po e arrivano quando già molte città sono in mano alle formazioni partigiane: Genova, Milano e Torino. Il 28 aprile Benito Mussolini e Claretta Petacci erano stati uccisi e i loro cadaveri appesi, con quelli di altri gerarchi, in piazzale Loreto a Milano. La scia di sangue della guerra non era destinata a prosciugarsi in fretta.

Quel giorno, il 30 aprile di 75 anni fa, sarà l’ultimo anche per un maggiore dell’esercito tedesco che sperava di lasciare le terre del Monferrato, dove aveva comandato la piazza militare di Casale, e tornarsene in Germania, come tanti altri criminali di guerra nazisti.

Ma il maggiore Wilhelm Mayer, arrogante e violento, che aveva legato il proprio nome ad alcuni dei più tristi episodi di rappresaglia a Pontestura, Cantavenna, Ozzano, Rosignano,
era stato anche il sanguinario protagonista di un eccidio che pochi mesi prima, il 9 ottobre 1944, aveva annichilito le genti del Monferrato: la strage di Villadeati.

Furono uccisi per rappresaglia undici abitanti del paese, compreso il parroco. Quei morti pretendevano giustizia. Bartolomeo Paschero Trumlin, vice comandante della 19ª Brigata Garibaldi, all’indomani dell’eccidio aveva promesso solennemente agli abitanti di
Villadeati che Mayer avrebbe reso conto a tutto il paese della sua crudeltà di nazista. I mesi erano passati: superato il terribile inverno, la primavera stava portando all’epilogo della guerra.

Mayer, è un uomo sulla quarantina, biondo, alto, robusto. Il 24 aprile il comando tedesco di Casale è assediato dalle formazioni partigiane ma rifiuta di arrendersi; grazie all’intervento del vescovo Giuseppe Angrisani si giunge a un debole compromesso: il comando si sarebbe arreso solo dopo che fosse giunto l’ordine superiore da Alessandria. Ma non ci sono più vie di scampo.

Finalmente, il 27 aprile Mayer è catturato e arrestato dai fratelli partigiani Firmino e Dea Rota che lo portano a Grana dove viene preso in consegna dai partigiani della Banda Tek Tek della 2ª Divisione autonoma Langhe. L’indomani, i partigiani della 3ª Brigata Lazzarini della Divisione Monferrato trasferiscono l’ufficiale nel piccolo carcere di Moncalvo, in attesa di ordini superiori. Anche il comandante Trumlin viene a sapere che il maggiore è a Moncalvo. Vuole mantenere la promessa fatta alla gente di Villadeati.

Si presenta a Moncalvo con una sua squadra e lo preleva. Pochi chilometri su un camion lungo le colline e arriva nel piccolo paese ai confini tra le province di Asti e Alessandria,
dominato dal castello che negli Anni Sessanta del Novecento diventerà dimora dei Feltrinelli, la famiglia di editori.

Soldati tedeschi impegnati in un rastrellamento alla ricerca di partigiani

Il comandante partigiano: “Vi ho portato il maggiore Mayer che ha ucciso i vostri compaesani. Facciamo in fretta”

 

Eccoci al 30 aprile 1945. I partigiani guidati da Trumlin arrivano a Villadeati a pomeriggio avanzato, all’ora dell’Angelus… «Paschero entra nella chiesa stipata di gente che, nel vederlo, si agita e si distrae. Il prete affretta la fine della funzione. Allora il comandante Trumlin annuncia “gente, io ho mantenuto la mia promessa, fuori c’è il maggiore Mayer. È tutto vostro, facciamo in fretta”. E la brava gente, la semplice, pacifica, laboriosa gente di
Villadeati fece in fretta».1

Il maggiore viene condotto nella località Rondò, proprio dove sette mesi prima aveva messo al muro undici innocenti. Farà la stessa fine. Sprezzante come sempre, rifiuta i conforti religiosi e muore fumando una sigaretta. Secondo alcune testimonianze, abbozza una difesa, dice che ha ricevuto ordini dalle SS: «Non potete uccidermi, sono padre di due figli». Gli gridano in faccia: «Quelli che hai ammazzato ne avevano diciotto di figli». 2

Il suo corpo viene sepolto in uno spazio esterno al cimitero di Villadeati, non in terra benedetta; solo nell’ottobre 1949 le spoglie furono riesumate e i resti del famigerato maggiore finirono nel cimitero militare germanico di Costermano nei
pressi di Verona.3

Ma come si era arrivati alla strage di Villadeati del 9 ottobre 1944?

Bisogna andare ai mesi convulsi che seguirono l’annuncio dell’armistizio dell’8 settembre 1943 che aveva visto tra i protagonisti della firma a Cassibile, tra gli Alleati e gli inviati
del governo Badoglio, anche il diplomatico moncalevse Franco Montanari (vedi Astigiani n. 21, settembre 2017). Anche nella zona collinare del triangolo Chivasso-CasaleAsti si sperava che la guerra fosse finita e fu spontaneo il generale rifiuto della popolazione di riconoscere sia il governo fascista repubblichino che l’occupante tedesco.

Altrettanto generale e spontaneo fu, dopo l’8 settembre, il rifiuto da parte di ufficiali e soldati italiani, tornati alle loro case o sbandati, di presentarsi ai carabinieri e ai distretti militari come imponevano i famigerati bandi Graziani per la ricostituzione delle forze
armate repubblichine. Da Brusasco a Pontestura, da Cocconato a Gabiano ad Alfiano Natta si aggregarono gruppi spontanei che si procurarono armi, aiutarono prigionieri alleati in fuga, liberarono ostaggi presi dai fascisti. Una guerriglia, fatta di sabotaggi, colpi di mano, azioni di disturbo alle linee di comunicazione.

La lapide che ricorda il sacrificio di don Ernesto Camurati, parroco di Villadeati. A lato il suo ritratto e a sinistra il breviario trafitto dalle pallottole

La cattura e poi la fuga di un soldato tedesco portò le SS nel paese monferrino per la rappresaglia

 

Pure il clero, anch’esso di estrazione contadina, si schierò, tranne rare eccezioni, con la Resistenza, mantenendo contatti, facendo da mediazione nello scambio di ostaggi, dando rifugio e assistenza ai partigiani. Tra gli altri vanno ricordati mons. Giuseppe Bolla, parroco a Moncalvo, don Giuseppe Raiteri, di Brusasco, don Francesco Finazzi, parroco di Zanco.

In questa zona fu attiva la VII Divisione Autonoma Monferrato, di sentimenti monarchici, fedele al Re e a Badoglio, comandata da Carlo Cotta “Gabriele” e dal fratello Sergio, di Robella d’Asti, ed è proprio dall’attività di questa formazione partigiana che ha origine la vicenda raccontata con lucidità da un testimone oculare, l’avvocato Carlo Schindler, commissario della VII Divisione Monferrato 4: «Nell’estate del 1944 il comando della VII Divisione Autonoma Monferrato si era trasferito presso Villadeati. Pochi giorni prima era stato catturato nel corso di un combattimento nei pressi di Cavagnolo un autocarro tedesco (nello scontro fu ucciso un sottufficiale nazista, ndr) e l’autista, rimasto illeso, era stato fatto prigioniero e portato al comando di Villadeati. Si chiamava Ernest, era un abile meccanico, si acquistò la fiducia di tutti tanto che girava liberamente per il paese, bene accolto nelle case, chi gli offriva un piatto di minestra, chi del pane appena sfornato, chi un bicchiere di vino o del tabacco ed Ernest accettava ringraziando, sorrideva, accarezzava i bambini; e tutto questo durò due mesi.

Il soldato Ernest non fu più rintracciato e il suo crimine restò impunito

 

Una notte però Ernest scomparve, raggiunse Casale, si presentò al comando delle SS e fece il suo rapporto. Il comando partigiano, accortosi della fuga, fece invano affannose ricerche, poi decise di abbandonare la zona. Intanto a Casale il maggiore Mayer (o Meyer) preparava
una spedizione di 400 SS più elementi repubblichini con autoblinde e autocarri.

L’eccidio di Villadeati rientra tra le stragi compiute in tutt’Italia dai nazifascisti tra il 1943 e il 1945. Ne sono state censite 135. Frutto dalla sanguinaria logica di repressione della lotta partigiana e dal tentavo di stroncare ogni appoggio dato alla Resistenza dalla popolazione, l’eccidio replica il rapporto di 10 a uno, cioè dieci uccisi per ogni militare nazifascista morto. È anche una delle stragi che vede tra le vittime sacerdoti e religiosi. Villadeati è però tra i pochi eccidi dove il responsabile tedesco è stato catturato a guerra appena finita e giustiziato sommariamente nello stesso luogo dove aveva ordinato la fucilazione

Giunsero a Villadeati alle sette del 9 ottobre, in una mattina grigia e piovosa, provenienti da Odalengo Piccolo. Frattanto l’allarme era scattato e, come avveniva in simili circostanze, i giovani erano fuggiti e in paese erano rimasti soltanto gli anziani, le donne e i bambini. Appena giunto, il maggiore Mayer fece radunare tutti gli uomini e ne fece estrarre a sorte dieci che dovevano essere fucilati per rappresaglia se entro mezzogiorno non fossero stati
resi noti i nascondigli dei partigiani. Nel frattempo il resto della spedizione per non perdere tempo iniziava il saccheggio delle case.

Sopraggiunse don Ernesto Camurati, il parroco di Villadeati, a difendere i suoi parrocchiani. Invano si rivolse al maggiore Mayer facendogli presente che quei padri di famiglia, armati
soltanto dei loro attrezzi di lavoro, non potevano opporsi agli armati di mitra che passavano sulle loro terre, di qualsiasi parte essi fossero.

Invano, poiché Ernst, il tedesco che aveva accettato sorridente le gentilezze e i doni di
quegli infelici, che aveva accarezzato i loro bambini, accusava ora implacabilmente i contadini di aver dato ospitalità e aver aiutato i partigiani: «Tu hai dato il pane ai partigiani, tu hai dato la carne e tu hai dato il vino, i tuoi ragazzi facevano le staffette ai partigiani».

All’ultimo momento si accorsero che i condannati già allineati per l’esecuzione erano undici
in seguito all’intervento di don Camurati e la meticolosità teutonica fece sì che l’ultimo della fila a destra ebbe salva la vita. Il sacerdote chiese al maggiore di concedere almeno ai condannati dieci minuti di colloquio con i familiari anche per regolare i loro interessi, ma anche questo venne negato, la risposta fu: «Se volete pregate e fate presto”».

Allora don Ernesto uscì con passo fermo dalla fila dei condannati e voltando le spalle al
plotone di esecuzione già allineato, si mise di fronte ai suoi parrocchiani, li guardò a uno a uno negli occhi e con voce calma e serena, quella stessa voce che tante volte avevano udito durante le funzioni domenicali, disse loro parole di speranza, recitò la preghiera dei morti, poi, tracciato nell’aria un gran segno di croce, andò a rimettersi in fila per affrontare il martirio…

Un secco comando, una scarica, il sacrificio era compiuto e altri undici martiri si aggiungevano all’eroica schiera dei caduti le testimonianze di alcuni congiunti delle vittime, esclamò: “Il pastore era duro a morire”. Poi vennero finiti anche gli altri con un colpo alla nuca» 5.

A differenza del maggiore Mayer che fu rintracciato e pagò con la vita la sua ferocia, il soldato Ernest, l’accusatore, che con il suo doppio gioco portò alla strage di Villadeati, riuscì a far perdere le proprie tracce e di lui non si è saputo più nulla.

Il vescovo di Casale mons. Giuseppe Angrisani, arrivò a Villadeati il giorno dopo l’eccidio e recuperò il breviario di don Camurati. Fu il vescovo a mediare e trattare la resa del presidio tedesco casalese il 24 aprile 1945 che portò alla successiva cattura del maggiore Mayer

Testimoni: il vescovo di Casale raccoglie il breviario del parroco crivellato dai colpi

 

Della strage di Villadeati ci sono numerose testimonianze scritte, ma anche il ricordo di chi quei fatti li ha vissuti in prima persona. Ecco ampi stralci delle più significative.

MONS. GIUSEPPE ANGRISANI
Vescovo di Casale Monferrato dal 1940 al 1971

 

«La notizia della feroce esecuzione compiuta dai tedeschi contro il Parroco di Villadeati e nove suoi parrocchiani mi trapassò il cuore come una lama di coltello. Non potevo credere che si fosse compiuta tanta barbarie.

Il giorno dopo, doveva essere la sepoltura delle vittime a Villadeati. Non volevo, non
potevo mancare. Di buon mattino mi misi in viaggio. Quel mattino una fitta nebbia
velava colli e vallette, quasi per ritardare la vista del desolato paese, sconvolto dalla
bufera di sangue. Giunto alla piazzetta, un gruppo di gente mi si fece attorno.

Quando s’accorsero che c’era il Vescovo, fu uno scoppio alto, straziante, di urla e singhiozzi. La piccola folla cresceva e cresceva la fiumana del pianto. Mi dissero che si era tramandata la sepoltura al giorno dopo per paura di complicazioni e mi condussero alla chiesa parrocchiale.

Là, guidato dalla sorella e dalla zia in pianto, mi trovai davanti alla salma di don Ernesto. Era steso sul letto, vestito colle insegne vicariali e sembrava che sorridesse. Alcuni fori, ancora pieni di sangue nerastro, gli deformavano la faccia. Vicino a quel mio caro Sacerdote trovai tanto dolce pregare e piangere.

Io non potevo commiserarlo: lo invidiavo. Non era la sua, la più bella delle morti per un vero Ministro di Dio? Mi mostrano i suoi indumenti crivellati di fori. Mi mostrano il breviario, che egli si portava sul cuore: anch’esso passato da parte a parte da una tremenda sventagliata di mitraglia. Ora mi raccontano dettagliatamente come si svolse la tragedia.

Preso in chiesa, fu portato in piazza con molti suoi parrocchiani. Accusato da un tedesco
di essere sempre coi partigiani, rispose serenamente che egli vi era andaton qualche volta unicamente per compiere i suoi doveri di Sacerdote. Intanto il comandante tedesco ha fatto la sua cernita. Trattiene in piazza il parroco con dieci capi-famiglia. Gli altri, terrorizzati, li
lascia andare a casa.

Don Ernesto comprende che la sua ora è scoccata. Spinto dalla sua fede ardente e dall’amore paterno per i suoi figliuoli, grida due o tre volte, rivolto al comandante: “Io sono innocente! Ma uccidete me solo! Lasciate andare a casa questi capi di famiglia”.

Le iene, assetate di sangue, non sono capaci di rilevare la sublimità di questa invocazione. Visto inutile ogni tentativo di salvare i suoi, don Ernesto li esorta al dolore dei loro peccati e li assolve in nome di Dio. Poi rivolto alla cappella di S. Remigio, Patrono del paese, raccomanda a Lui la sua Parrocchia, confortando i suoi compagni con parole di fiducia in Dio.

La tremenda falciata della mitraglia li stende a terra. A don Ernesto, ancora palpitante, furono scaricati due colpi nella nuca. Il boia che compì la triste bisogna diceva ghignando:
“il Pastore era duro a morire!” […]

Dopo una breve visita in Chiesa comincio la visita alle famiglie degli uccisi. Finché vivrò non dimenticherò mai più questa Via Crucis tra le case del paese. In una casa del centro, dentro una povera stanza, il cadavere dell’ucciso pare che la occupi tutta. La vedova piange
silenziosamente. Ma v’è la figlia che non cessa dall’urlare. È un grido inumano, di belva ferita, che trapassa il cranio.

In un’altra casa giacciono due bare, una accanto all’altra. Sono due fratelli, schiantati dalla stessa rabbia omicida.

Mentre prego sulle povere salme, avanza la mamma, sostenuta a braccia. È la figura vivente dell’Addolorata. Non ha parole; non ha lamenti. Solamente le mani scarne si levano a coprire la faccia in un gesto desolato d’infinita pietà […]

Ma dove il mio cuore ha subito le scosse più violente della sensibilità è in una casa di contadini, quasi al fondo del paese. Nella stanza rustica è distesa la salma. Attorno, con la vedova, due giovani ragazzi. In un angolo, vicino al cadavere, sta immoto il vecchio padre. Ha la faccia bruciata dal sole, scavata dalla fatica. Gli poso una mano sulla spalla e gli dico le parole più umili che la fede suggerisce in questi momenti.

A un certo punto il vecchio allarga le braccia e le alza al cielo e, come pregando, dice così: “Signore, se è necessario questo dolore perché la sua anima sia salva, sia fatta la tua volontà!”.

Pare un Patriarca antico, ispirato come un Profeta. Discendiamo nella piazza che è all’entrata del paese. Lì è stato consumato il delitto. Sul luogo dell’esecuzione vi sono
ancora degli zoccoli, qualche berretto, alcuni brandelli di vesti. Ha piovuto tutta la
notte; ma il sangue è ancora ben visibile sul terreno. Su quella terra, ben degna di
essere paragonata alla terra bagnata dal sangue dei martiri, recitiamo una ultima
preghiera; poi, sui pochi presenti e sul paese, levo la mano a benedire…».

Al coraggioso parroco la medaglia d’oro al valor civile
Quella d’argento al gonfalone del Comune di Villadeati

VINCENZO GIPPA
Il panettiere

 

«Avevo 48 anni, sono stato uno dei primi a essere preso perché davo il pane ai
partigiani. Mi hanno rubato tutto: sono rimasto con i pantaloni che avevo indosso.

I tedeschi e i repubblichini di Casale hanno vuotato le case. Entravano, si facevano dare un lenzuolo, lo stendevano per terra e ci rovesciavano sopra i cassetti. Poi andavano nella stalla, abbattevano i vitelli con un colpo di mitra, li squartavano con le accette e li caricavano sui camion».

VALENTINA CAMURATI
Sorella di don Ernesto

 

«Era lunedì, pioveva e c’era nebbia. Qualche giorno prima avevamo raccolto l’uva. Alle nove di mattina sentii suonare il campanello della canonica.

Aprii: c’erano quattro tedeschi che urlavano: “Pastore! Pastore!”. Dissi che mio fratello era in chiesa. Lo presero mentre leggeva il breviario. Lo vidi passare in mezzo ai soldati, un po’ pallido. Poi non so più.

Dopo mezzogiorno lo riportarono a casa in un lenzuolo. Tutta la veste era sporca di
sangue»8

RINALDO RONCO
“Capitano Orlandi” della 79ª Brigata Garibaldi

 

«Nel 1944, curato del paese (da 12 anni ndr) era don Ernesto Camurati. Tutti gli volevano bene. La casa parrocchiale era aperta a tutti, sempre. Un giorno corse, nel paese, una brutta notizia a cui seguìuna grande paura: i partigiani avevano ucciso un soldato tedesco, e ne avevano catturato un altro. E anche se il fatto era accaduto a Cavagnolo, il prigioniero
era stato condotto a Villadeati, dove i partigiani si erano accantonati da un po’ di tempo.

Gli abitanti del luogo temevano rappresaglie da parte dei tedeschi. Ma, trascorsi alcuni giorni senza che nulla accadesse, si rassicurarono. Vana speranza!

Lunedì 9 ottobre 1944. Pioveva. Da per tutto, silenzio: soltanto lo scrosciare della pioggia. Quand’ecco laggiù un nuvolone di fumo che saliva lasciando sotto di sé lingue di fuoco.
– Una casa che brucia! Un crepitar di mitragliatrice… grida di spavento… un fuggi fuggi… troncarono le parole.

I nazisti avevano invaso il paese. Erano circa trecento, quelli di Casale e quelli di Valenza, al comando del maggiore Mayer. Le SS catturavano gli uomini, e li conducevano nella piazza. Da tutte le parti giungevano pattuglie di nazisti con uno, due, tre uomini catturati. Erano
già una quarantina, tutti lì, ammassati come bestiame.

La lapide, sormontata da una grande croce, che riporta nomi e foto delle vittime dell’eccidio alle porte di Villadeati. I nomi sono 11. Ai quelli delle dieci vittime della fucilazione si è aggiunto anche quello di una vittima di un successivo rastrellamento

Sulla lapide compaiono 11 nomi

 

Ed ecco arrivare l’ultima pattuglia, che spingeva con scherno don Camurati. Aveva appena somministrato la Comunione alla vecchia inferma, e stava pregando presso l’altare quando le SS lo costrinsero ad andare con loro. Ormai non si sparava più: la caccia all’uomo era conclusa, la gente era lì ammutolita.

Il maggiore Mayer stava davanti a loro, con a fianco un altro ufficiale. Dietro i due, ad arco, una fila di SS con le armi spianate. Non erano ancora arrivati fuori del paese, ed eccoli tutti fermi, al bivio della strada che conduce a valle. Qui i nazisti si disposero in due file, con in mezzo gli sventurati. Si fece avanti il plotone di esecuzione, che chiuse lo schieramento a ferro di cavallo. Il destino era segnato: tutti sapevano di essere lì in fila per morire.

L’istinto di conservazione vinse la paura, tutti si strinsero attorno al loro parroco, alcuni si aggrapparono alla sua veste. A quella vista e a quello strazio, don Camurati si scostò dal gruppo e fece un passo avanti. “Per amor di Dio, abbiate pietà di questi innocenti. Uccidete me solo. Pensate ai loro figli…”

Un crepitio di fucileria troncò la parola e la vita di don Ernesto e dei suoi dieci parrocchiani.
Caddero uno sull’altro, uniti nella morte, come erano stati uniti nella vita».9

A don Ernesto Camurati è stata conferita la Medaglia d’Oro al Valor Civile e al gonfalone del Comune di Villadeati, che celebra ogni anno il ricordo della strage, è stata assegnata la Medaglia d’Argento al Valor Civile.

Sul luogo dell’eccidio una lapide, sormontata da una grande croce, riporta i nomi e i volti di 11 vittime. L’undicesimo nome che compare sulla lapide a Villadeati è di Quarello Luigi Pietro, ucciso il 24 ottobre 1944 dai “repubblichini” di Asti in un successivo rastrellamento e
inserito tra le vittime del paese, insieme agli altri fucilati del 9 ottobre11.

Volti dai lineamenti duri di gente di collina, volti che ci ammoniscono, per non dimenticare
mai, ricordando le parole di Primo Levi: «meditate che questo è stato».

 

 

 

l'autore dell'articolo

Claudio Borio
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Astigiani è un'associazione culturale aperta, senza scopo di lucro, che ha bisogno del sostegno di altri "Innamorati dell'Astigiano" per diffondere e divulgare la storia e le storie del territorio.
Tra i suoi obiettivi: la pubblicazione della rivista trimestrale Astigiani, "finalizzata alla raccolta e diffusione di informazioni e ricerche di storia e cultura astigiana dal passato remoto a quello prossimo, con uno sguardo al presente e la visione verso il futuro (dallo statuto), la raccolta di materiale per la creazione di un archivio fotografico, video e documentale collegato al progetto "Granai della memoria", la realizzazione di presentazioni pubbliche e altri eventi legati al recupero della memoria del territorio.

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