Architetture di vigneti e declivi collinari ci sorprendono ogni volta: nella filigrana dorata del pomeriggio, manti erbosi e gelsi ricurvi, presenze memori dell’antica fatica contadina, si affacciano sugli anfiteatri monferrini, scanditi da radure e coltivi, punteggiati dai casolari, sotto l’argilla brunita dei coppi, a corona intorno al campanile della pieve. Sono immagini d’infanzia, d’adolescenza, al di là della mura urbane, ma rappresentano le nostre radici, la mentalità riservata e schietta di chi conosce l’austerità ciclica delle stagioni, quasi un linguaggio georgico ed arcano che sa discernere il moto delle nubi ed il presagio della grandine.
Il lessico di Giuseppe Manzone (Asti 1887-Torino 1983) svela l’emozione perenne della natura, del colloquio con la propria terra. È la sottintesa coralità di ideali e di aspirazioni che affiora dalla sua formazione astigiana accanto al ritrattista Paolo Arri, alle lezioni di Giacomo Grosso, di Gaidano e Marchisio all’Accademia Albertina di Torino (1901-1906), al perfezionamento, con il lascito municipale “Michelangelo Pittatore”, a Firenze (1913), ove consolida la naturale sintassi costruttiva nello studio dal vero degli affreschi di Giotto e la concezione lineare della composizione naturalistica d’impianto verista dell’ultimo Ottocento italiano.
Nel cuore del Monferrato, tra le due guerre e nel secondo dopoguerra, Giuseppe Manzone declina la sua tavolozza, maturata con tenacia e umiltà, sul motivo di paesaggio, ritagliandovi angolature visive e scorci prospettici, còlti al cavalletto sulla tela con serena e ariosa pennellata: Gelsi in un campo di grano, custodito dalla Pinacoteca di Asti ed esposto al pubblico nella rassegna Segni forme colori del ’900, promossa dal Comune di Asti alla Sala d’Arte di Palazzo Mazzetti (giugno-settembre 1997), costituisce un’emblematica percezione naturalistica e lirica, vivida nei timbri terrigni, nell’onda pastosa delle messi, nell’avvolgente chiaroscuro dei tronchi. Una sosta quieta.
Neppure un’orma umana o animale, eppure, tra gli steli e i fili d’erba, nello stormire lieve delle fronde, lungo le candide cascine a valle s’intuisce la vita, il ronzio degli insetti, l’abbaiare dei cani, le voci delle madri nell’aia. Questa è la prosa, domestica e severa, di Giuseppe Manzone, cantore del Monferrato, pur grande protagonista delle Biennali internazionali di Venezia e delle Quadriennali romane, celebrato interprete della pittura contemporanea, per tutta la vita coerente e sincero con la sua terra.
Così conclude Emilio Zanzi sulla Gazzetta del Popolo del 10 novembre 1930 la visita allo studio di Manzone: «Giuseppe Manzone a un certo momento dice guardando un quadro: “Queste strade astigiane sono davvero care amiche: conducono a casa… Non si vedono: ma allo svolto, dietro le piante e dentro i cascinali, ci sono buoi, mucche, galline e tacchini pomposi”.
Proprio così. Quando all’imbrunire lascio la sua casa ospitale, il pittore mi scaraventa nell’auto, dono inatteso e originalissimo, un grosso e stupendo tacchino vivo»