Ecco chi faceva il vino “Made in Asti”
Tra i tanti odori svaniti, ma rimasti nella memoria di chi conta più anni, Asti ha perso anche i pungenti afrori delle uve appena pigiate e della fermentazione dei mosti che richiamavano il carducciano “ribollir dei tini”. Erano i segnali dell’autunno, quando dalla campagne calavano in piazza i contadini per vendere il raccolto delle vigne che circondavano la città. Arrivavano soprattutto le barbere da Scurzolengo, Portacomaro, Migliandolo, Castiglione, Quarto, San Marzanotto, Azzano, Rocca d’Arazzo, Isola, Antignano.
Ma c’erano anche i grignolini, le freise, i dolcetti, i nebbioli.
E altri vignaioli venivano da più lontano (Vigliano, Mongardino, Montegrosso, Mombercelli, Vinchio, Nizza), partendo all’alba di ogni mercoledì e sabato con i carri trainati dai buoi e gli arbi colmi di grappoli. Sopra mettevano l’uva più bella e matura, un “trucco” che non ingannava i commercianti: loro avevano il coltello dalla parte del manico. Quell’uva sui carri i contadini sapevano che non avrebbero potuto riportarla indietro e il prezzo, calcolato in miria (10 chili), lo facevano gli altri. Dipendeva dalle richieste del mercato, dalla gradazione calcolata con il “Mulligan”, dalle piogge e soprattutto dalla “concorrenza” dei vini da taglio fatti arrivare dal Sud.
I negusiant si avvalevano di una schiera di mediatori che giravano le campagne per valutare e prenotare i grappoli ancora sulle viti.
C’erano i “mercuriali”, i listini ufficiali pubblicati dalla Camera di commercio che riportano per ogni varietà di uva il prezzo minimo-massino, la media e la stima delle quantità trattate sulla piazza.
È da questi documenti che emerge l’importanza del mercato delle uve ad Asti fino alla seconda metà del Novecento. Una “piazza” significativa e di riferimento per tutto il Piemonte e il Nord Italia.
Da statistiche ufficiali risulta che nella sola provincia di Asti nel 1958 la superficie vitata arrivò a 50 mila ettari, con una produzione di 3,5 milioni di quintali di uva e una resa di 2,3 milioni di ettolitri. Per fare una paragone, queste cifre si avvicinano a quanto produce oggi l’intero Piemonte.
Un ruolo di centro enologico avvalorato dalla presenza di numerosi vinificatori con sede in Asti e dintorni che comperavano le uve, le pigiavano, trasformavano i mosti in vino e provvedevano poi alla vendita all’ingrosso e al minuto con proprie etichette.
È questo mondo del vino “made in Asti” che è ora completamente scomparso e merita di essere raccontato.
Va detto che il legame tra Asti e la produzione vinicola si perde nei secoli, ma è metà dell’Ottocento che si consolida ed espande anche grazie alla ferrovia (la stazione di Asti sulla linea Torino-Genova fu inaugurata nel 1849). Il vino allora viaggiava in botti caricate sui carri merci e questo spiega la nascita di aziende come l’Enofila (sorta nel 1872, fallita nell’88 e divenuta poi Vetreria operaia federale dal 1906), costruite accanto alla ferrovia e dotata di binari di carico e scarico dedicati. Nel 1891 fu organizzata, sotto l’Alla in piazza Alfieri, una grande esposizione nazionale di vini e attrezzature di cantina (vedi il manifesto in copertina).
Le rassegne proseguirono per tutto il primo Novecento e anche nel secondo dopoguerra. La fiera del 1952 fu visitata dal presidente della Repubblica Luigi Einaudi che possedeva vigne nella sua Dogliani. La svolta promozionale si deve alla Camera di commercio guidata da Giovanni Borello che dal 1967 lancia la Douja d’or e poi il concorso nazionale dei vini i bottiglia con lo slogan “Bevete sotto la nostra responsabilità”. Asti in quel periodo viveva un stagione di mutazioni. Fino a pochi anni prima c’erano cantine di produzione attive anche nel cuore della città: occupavano cortili e porticati e si stendevano nei sotterranei dei palazzi che ospitavano botti da invecchiamento e vasche da fermentazione.
Una mappa dell’attività enologica è variegata e mutevole: molte aziende nei decenni hanno chiuso o si sono trasferite. La produzione di vino in città è proseguita intensamente fino alla fine degli Anni Sessanta, poi il declino trascinatosi fino agli Anni Ottanta. Le ragioni di questa scomparsa sono numerose: è mutato il mercato, sono cambiate le abitudini; il crescere delle Doc (la legge è del 1963) ha fatto emergere coloro che vinificano direttamente l’uva delle proprie vigne; le cantine sociali (la maggior parte sorte negli Anni Cinquanta) hanno preso quote di mercato, soprattutto nei vini da tavola.
Non sono mancati i guai, a cominciare dal devastante scandalo dell’Asti Nord che ha avuto tra le conseguenze l’abbandono delle campagne nella zona a nord del Tanaro, dove più forte sono stati i richiami dell’industria torinese, Fiat in testa, che offriva salario fisso, ferie pagate e mutua.
Prima che avvenisse questa mutazione genetica nella vocazione della città, con la successiva dolorosa delusione della deindustrializzazione ancora in atto, l’enologia e le attività indotte costituivano un tessuto produttivo importante.
Nel centro storico i Bosia vinificavano in via Quintino Sella e in via Brofferio dopo la divisione dall’azienda “Attilio Bosia & fratelli”.
Attilio lavorava nelle storiche cantine sotto palazzo Gazelli, Lorenzo e Gabriele avevano aperto in via Brofferio 45. Il padre Vincenzo Bosia, che ebbe 15 figli, fabbricava botti nel laboratorio accanto alla stazione con ingresso in corso Industria (oggi si può ancora vedere il frontale sopra il portone al numero 7a di corso Gramsci). Morì nel novembre del 1914. Ai funerali intervenne la “Società di mutuo soccorso” dei bottai con la bandiera e la società dei “Brentatori”, a testimonianza di quanto fossero rilevanti all’epoca tali corporazioni.
Lorenzo Bosia (1895-1971) e il fratello Gabriele avevano numerosi conferitori di uve nelle campagne astigiane. Avviarono anche una linea di esportazione con proprie etichette verso la Svizzera, la Francia e la Gran Bretagna. Lorenzo era estroso e versatile. La nipote Silvia Sarzanini, funzionaria all’assessorato all’Agricoltura della Provincia, che sta conducendo per conto dell’ente una vasta ricerca on line sulla storia del vino nell’Astigiano, ricorda che il nonno materno «partecipò anche a un “Carosello” in cui il vino era abbinato ai famosi biscotti Pavesini». Un’occasione favorita dalla conoscenza con Giuditta Rissone, attrice astigiana e prima moglie di Vittorio De Sica (vedi “Astigiani” numero 1 pagina 90)
Le cantine Bosia furono devastate dall’alluvione del Borbore del 4 settembre 1948, ma riuscirono a riaprire entro ottobre per riavviare la produzione che proseguì fino al 1960. Dopo anni quei locali di via Brofferio sono divenuti sede della Casa del Popolo. Le vecchie cantine di vinificazione si sono trasformate in un salone per spettacoli e rassegne.
Nel centro storico operava anche Ottavio Perosino in via San Martino. In via Bonzanigo, dove ora c’è un corniciaio, si aprivanole cantine Scagliola.
Un’altra realtà enologica nel centro di Asti era la ditta Taricco che produceva anche vermouth e spumanti e aveva le cantine in via Cesare Battisti.
Nella stessa zona era la sede originale della Perlino, anch’essa specializzata in vermouth e spumanti, poi trasferitasi, negli anni Sessanta, nel nuovo stabilimento (ancora attivo) lungo la statale per Casale in zona Casa Coppi. La Perlino è stata negli Anni Ottanta sponsor dell’Aba basket, poi passata ai Dezzani di Cocconato è ora della famiglia Facello, che ha interessi nel complesso turistico del lago di Codana.
In via Morelli, accanto alla chiesa di San Silvestro, operava la cantina Bossi, poi rilevata da Guido Ravizza (vedi intervista “Confesso che ho vissuto” in questa stessa rivista a pagina 70 ndr).
Altra zona ad alta intensità enologica era la parte est della città, nel rione San Pietro e in corso Alessandria dove c’era la falegnameria Conone, gli altri bottai storici di Asti.
In viale alla Vittoria c’era e c’è (ora è sede di una filiale bancaria) il bel palazzotto in stile Liberty della ditta Luigi Pistone che era tra i nomi più conosciuti anche tra gli spumantisti. Fondata nel 1860 era fornitrice della Real Casa ed esportava in Sud America. Michele Pistone nel Dopoguerra fu anche presidente dell’Asti calcio. Operò sul mercato fino al 1976, quando il figlio Luigi cedette il marchio alla Cortese di Canelli.
Sulla stesso viale, all’angolo con via Matteo Prandone, a pochi metri dall’ingresso del pronto soccorso del vecchio ospedale, c’erano le cantine della famiglia Zingari. Il fondatore Giuseppe e gli eredi Paolo e Angelo vendevano vini sfusi e in damigiane e imbottigliavano spumanti. Per anni come enologo consulente ci lavorò Adriano Rampone. Sono rimasti il vasto cortile, le tettoie e qualche vetusta attrezzatura enologica.
Nello stesso quartiere in via Roccavione, davanti a quello che allora era l’oratorio dei Salesiani, c’era la casa dipinta di rosso scuro della ditta Francesco Poncini, che ha prodotto e venduto vini fino al 1984.
Lungo l’asse di corso Alessandria ecco la ditta vinicola Visconti, nata come acetificio fondato nei primi del Novecento da Luigi Visconti. Il figlio Andrea (1911-1991) negli Anni Trenta la trasformò in impresa vincola. Botti e vasche furono sistemate nei locali di via Sant’Evasio. Il cortile dava sul corso (nella zona dell’hotel Genova). La produzione di barbere, freisa, brachetto e un po’ di moscato era venduta tutta in damigiane nella zona di Locarno e del Lago Maggiore, ben conosciuta dal fratello Francesco che aveva studiato a Intra. C’era da rispettare anche il “cartello” di spartizione dei territori commerciali che le principali aziende astigiane avevano adottato.
Visconti, appassionato rettore del borgo San Pietro nei primi anni della ripresa del Palio, con il fratello Francesco e il socio Bertoletti decise la cessione dell’azienda vinicola nel 1975 alla canellese Amerio Rocco con una curiosa clausola. «Mio padre volle garantire a me e ai miei fratelli Francesco e Marco la possibilità di rientrare in azienda e riprendersi il marchio Visconti al compimento del 18° anno di ciascuno di noi, una opzione che nessuno di noi fratelli ha però sfruttato visto che nella vita stiamo facendo altro» ricorda Gigi Visconti, il primogenito, consulente industriale.
Nascevano anche vermouth liquori e la famosa China d’Asti
A poca distanza, in via Malta, aveva sede la “Giulio Cocchi”, fondata nel 1891 in una cassa accanto al battistero di san Pietro. È l’azienda che ha lanciato il famoso “Americano” e dato il nome allo storico bar-caffè all’angolo di piazza Alfieri. Nel 1978 fu rilevata da Piero Bava, produttore di vino a Cocconato, con la partecipazione del moncalvese Vincenzo Ronco e dell’enologo Francesco Cima.
La Cocchi ha continuato a stoccare e imbottigliare anche il suo celebre Barolo Chinato fino al 2003, quando la cantina e tutta la produzione è stata spostata a Cocconato. La famiglia Bava ha continuato a valorizzare il marchio Cocchi anche nella linea spumanti. La vecchia sede è stata demolita per far posto a un palazzo.
Altri commercianti vinificatori erano i Garavelli in corso Casale, i Gerbi con bottiglieria in via Pallio e i Grossi, produttori di un “Asti” chinato. La liquoristica astigiana vide negli anni Cinquanta-Sessanta emergere il marchio Sis del gruppo Eridania che pubblicizzava anche in televisione il brandy “Cavallino Rosso” e la grappa “Orso Bruno” e aveva lo stabilimento nel vasto complesso di corso Palestro, accanto alla Way-Assauto, poi trasferito in zona dogana.
Altra etichetta molto particolare era la China d’Asti, prodotta su ricetta di Vincenzo Balestrino (1907-1969), il famoso “settimino” che ebbe il laboratorio di produzione prima a Valterza, poi in Asti in via Arò. Balestrino, personaggio notissimo, eletto anche in consiglio comunale, da tutti conosciuto come il barbun ’d Valgera, con i soci Sabbione e Ghiazza lanciò anche l’Amaro San Secondo, dalla suggestiva etichetta dipinta, e il Rabarbaro d’Asti. L’attività del liquorificio è proseguita dalla fine degli anni Sessanta a Nizza Monferrato e ancora continua ad opera del nipote Pietro Balestrino che ha mantenuto gli stessi marchi e sta facendo sorgere il museo aziendale della sua distilleria. Anche Molina produceva un vermouth “Alfieri”.
Anche nei dintorni della città c’erano aziende di vini e vermouth. Intensa la storia della tenuta “La Galleria” a Vallarone che il Mondini, in un volume del 1903, cita come esempio di coltivazione dei pinot da spumante “tipo Champagne”. Il proprietario commendator Giovannni Boschiero etichettava in effetti uno Champagne, premiatissimo all’epoca.
A Vallarone nasceva lo Champagne della “Galleria”
Passata di mano a famiglie di facoltosi genovesi che ne hanno valorizzato la suggestiva cantina, producendo un ottimo grignolino che era imbottigliato dai Coppo di Canelli, la tenuta (17 ettari, 11 a vigne) dal 1993 è di Alfio Orecchia, imprenditore con interessi vinicoli a Grazzano e nell’Oltrepo e risicoli in Lomellina. A Serravalle, lungo la statale per Chivasso, erano attive le cantine dei Fassio.
A San Marzanotto piana operava la Bano, fondata prima a Canelli dai cognati Ballarino e Nosenzo e poi passata di mano dopo anni di alterne fortune anche dal punto di vista della qualità dei prodotti: etichettava soprattutto Marsala all’uovo. Fallì nel 1984.
Nel dopoguerra a San Marzanotto imbottigliavano vino anche i fratelli Perotti che parteciparono alla fiera enologica del 1949 allestita ad Asti nei giardini. Dall’elenco dei partecipanti a quella rassegna emergono anche ditte di attrezzature per vigne e cantine o vetrerie come la Saciv di corso Felice Cavallotti, poi divenuta Avir.
La città aveva una rete di laboratori di analisi e di negozi di materiale enologico in gran parte scomparsa. Si ricorda il veterano degli enologi, il già citato Adriano Rampone, che con la moglie Renata condusse il negozio-laboratorio “Ottavi” in via Brofferio, angolo via Costa, l’Enotecnica di Nizza che ha mantenuto fino a qualche anno fa punto vendita e vetrine in corso Dante, il laboratorio dell’Unione Italiana Vini in via Massimo D’azeglio e l’Agriconsult di corso Einaudi, da poche settimane trasferitosi a Incisa Scapaccino. Un altro piccolo spicchio scomparso dell’Asti vinicola.