Ho ricordi nitidi di alcune chiese di Asti. Ricordo lo scricchiolio del pavimento di legno della sagrestia di San Silvestro, dove persisteva un odore pungente di incenso e ho vivi nella memoria anche la tonaca nera e il tricorno del parroco che ci insegnava catechismo. Lì ricevetti la “prima comunione”, infilata in un vestitino di pizzo molle e lucido, con in testa un velo che mi faceva assomigliare a una sposa-bambina. Il terrore di sfiorare l’ostia con i denti (allora considerato quasi peccato) mi angosciava. La foto ricordo ufficiale, da mandare ai parenti, non veniva scattata al termine della cerimonia, ma solo alcuni giorni dopo, quando, indossando lo stesso abito, i miei genitori mi portarono nello studio fotografico Ecclesia in via Cesare Battisti. Per me, significò entrare in un mondo di magia, esperienza indelebile che sicuramente fu l’incipit della mia vita trentennale di fotogiornalista. Il signor Ecclesia ci faceva accomodare in uno spazio rischiarato a giorno dall’alto, grazie a un soffitto di lastre di vetro, con fondali e tele mobili che lui disponeva controllando la luce e il controluce. Su un lato troneggiava una grande macchina fotografica di legno che non avevo mai visto prima.
Ci mise in posa e poi, spostando il cavalletto che la sosteneva, guardava dentro l’obiettivo coprendosi la testa con un grande telo nero. Metteva a fuoco, usciva dal buio, correggeva nuovamente la posa e di nuovo scompariva dietro l’obiettivo. «Fermi, guardate qui, sorridete». Quella foto è ancora sulla mia scrivania, ricordo di giorni lontani e della magica abilità di chi quei momenti di vita sapeva fermare con arte infinita.
Ricordo che alcune foto dello studio Ecclesia venivano esposte anche in una vetrina murale all’angolo di corso Dante con i Portici rossi. Erano in genere coppie di sposi, militari e le prime miss Asti degli Anni Cinquanta, tema inesauribile di commenti dei giovani astigiani, soliti stazionare sull’angolo opposto, chiamato allora “angolo dei fessi” per le chiacchiere che vi regnavano tra gli aperitivi e le partite a carte al Cocchi.
Nella chiesa di San Secondo andavo invece con i genitori per la messa della domenica, che si concludeva con il suono potente e grandioso dell’organo di Liborio Grisante, mentre a passo lento la gente si avviava all’uscita. Ci si conosceva un po’ tutti e ci si salutava. Mio padre alzando con tre dita il Borsalino, mia madre con sorrisi e strette di mano. Nostra tappa d’obbligo, dopo l’uscita, l’acquisto delle paste di Giordanino, l’aperitivo al caffè Roma e poi a tavola. La domenica c’erano quasi sempre: agnolotti, bollito misto e le bignole. Alla Madonna del Portone andavo per i casi estremi quando, al liceo, si trattava di una probabile interrogazione. Mettevo una monetina nella cassetta delle luci che incoronavano la Madonna e siccome il meccanismo era difettoso, molte volte la lampadina non si accendeva. Già questo era segno di cattivo presagio, cui rimediare scuotendo l’intera cassetta fino a ripristinare il contatto elettrico. La devozione per quella Madonna me la trasmise mia madre che mi raccontava facesse miracoli. A me bastava che andasse bene l’interrogazione.