Dalla prossima stagione, sulla divisa degli arbitri di calcio compariranno anche tre stelle. Per i 35 mila arbitri italiani simboleggeranno tre momenti importanti legati a tre loro colleghi: Sergio Gonella, Pierluigi Collina e Nicola Rizzoli, che hanno arbitrato una finale dei campionati mondiali, il massimo che possa capitare nella vita professionale di un “fischietto” sui campi di calcio. Il primo italiano ad aver diretto una finale nel 1978 (Argentina-Olanda) è stato l’astigiano Sergio Gonella che, dopo aver vissuto per lavoro in varie città italiane, da una ventina d’anni è tornato a vivere in Monferrato. «Quando sarò in pensione – dicevo sempre – andrò a vivere nella casa di mia nonna a Calliano, che è il posto più bello del mondo!» Sergio Gonella conferma: quella casa di famiglia che si affaccia su uno dei più suggestivi scorci del Monferrato è per lui davvero il posto più bello del mondo.
Come è iniziato il suo rapporto con il mondo del calcio e come è diventato arbitro?
«Mio padre Giovanni era un bancario. Dirigeva l’agenzia di via Garibaldi della Cassa di Risparmio, ma era anche un dirigente dell’Asti Calcio. Si occupava del settore giovanile, era un talent-scout e aveva occhio per i campioncini. Mi portava a seguire le partite. Anch’io giocavo nei “ragazzi”, ma, arrivato a 18 anni, ero diventavo un fuori categoria. Il prof. Vada, anche lui arbitro, un giorno mi disse: “Perché non fai l’arbitro? Oltretutto, avresti anche la tessera che ti consente l’ingresso gratuito in tutti gli stadi”. Forse anche per questo io mi lasciai convincere, frequentai il corso, e iniziai arbitrando partite nel settore giovanile astigiano».
Da allora, davvero una lunga strada, una carriera in crescendo…
«Conservo molti scatoloni in cui sono raccolti giornali e documenti e ho anche tenuto le copie dei rapporti arbitrali di tutte le partite che ho diretto. In tutto ho arbitrato 175 partite in serie A, 163 in serie B e 98 incontri internazionali. Dal 1951, dai miei inizi a 18 anni, ho arbitrato in tutte le categorie fino ad arrivare, nel 1970, alla mia prima partita in serie A: Varese-Foggia. Per dieci anni ho avuto come guardalinee un altro astigiano, Luciano Remondino, con il quale ero molto affiatato. Avevamo dei segnali convenzionali, una sorta di codice segreto… allora non c’erano gli auricolari e i collegamenti audio»
Ricominciamo dagli inizi…
«Allora ci si doveva comprare tutto, dalle scarpe alla divisa. Nella prima partita che ho diretto non avevo ancora la giacchetta ufficiale. Un mio amico ferroviere mi prestò la sua giacca nera da lavoro e con quella arbitrai…. Ho sempre cercato di essere sereno e imparziale. Ricordo che decretai sette rigori nelle prime sette partite del campionato ’65-’66. E forse fu anche per questo che mi guadagnai la fama di arbitro severo. Ne ho viste e fischiate davvero tante, fino alla finale degli Europei di Belgrado tra Cecoslovacchia e Germania Ovest e alla finalissima del Mondiale del ’78 tra Argentina e Olanda».
A Buenos Aires l’Italia di Bearzot, di Bettega e del giovane Paolino Rossi si fermò alla finale per il terzo posto contro il Brasile, disputando comunque un buon mondiale
«Se gli Azzuri fossero arrivati alla finalissima naturalmente non avrebbe potuto esserci un arbitro italiano. Mi spiacque per la Nazionale, ma la cosa consentì alla Fifa di designarmi. Pochi giorni prima, ancora nessuno sapeva chi sarebbe stato mandato in campo ad arbitrare. Un assistente, Guiggiani di Siena, volle che andassi con lui a cena dai suoi parenti argentini ed io pregai il collega Rainea della Romania di farmi avere notizie appena ne avesse avute. Mentre mangiavamo l’asado, dalla finestra di una casa vicina si levò una voce: “La radio ha appena detto che sarà un arbitro italiano a dirigere la finale!”. Pensai subito a mia moglie e prenotai la chiamata telefonica, che arrivò dopo alcune ore. La svegliai alle tre di notte e lei fece subito rimbalzare la notizia ai figli, ai parenti, agli amici e ai colleghi arbitri. La bolletta telefonica post-mondiale mi fece capire quante chiamate mi costò quella designazione: 700 mila lire nel ’78 non erano poche!»
La mano sul cuore era il gesto dedicato alla moglie Dina. Come fu il suo stato d’animo in quella partita?
«Logicamente sentivo l’importanza della finale, ma non ero troppo emozionato. Ero già abbastanza abituato a situazioni e momenti delicati. Come sempre, però, entrando in campo tenni la mano destra sul cuore».
Aveva un significato?
«Quella mano sul cuore di fronte a centinaia di milioni di telespettatori era un segnale speciale per mia moglie, che solo noi due capivamo. Conobbi Dina nel ’55 (“era il 18 ottobre”, interviene la signora nella conversazione) mentre con un collega andavo in treno ad arbitrare a Torino, al Cenisia, una partita di seconda categoria. Nello scompartimento entrò una bellissima ragazza che io conoscevo di vista perché abitava anche lei a San Pietro e che incontravo a ballare qualche volta al Winter Garden. La invitai a venire a vedere la partita e lei accettò. La accompagnai in tribuna con l’intesa che ci saremmo rivisti a fine gara». «Io non lo vedevo tra i giocatori in campo – interviene ancora la signora Dina – che facesse l’arbitro non ci avevo nemmeno pensato. Alla fine del primo tempo mi alzai per uscire pensando “ma mi prende in giro? chi si crede di essere quello lì?”. In quel momento lo vidi andare verso gli spogliatoi e mentre mi fissava si accarezzava il cuore con la mano destra». «Quel gesto fu fatale – continua Gonella – e quattro anni dopo ci sposammo. Era il 2 giugno, festa della Repubblica, e io a 26 anni avevo ricostituito la monarchia, la sua. Tra poco saranno 56 anni».
Una vita intensa passata insieme
«Il calcio è stato una grande passione ma anche sacrificio. Io non ho mai fatto ferie normali con la famiglia. Le partite internazionali si giocavano di mercoledì e dovevo prendere giorni di ferie perché la banca non concedeva troppi permessi.”
I giorni di ferie da bancario spesi per andare ad arbitrare le partite. Come riusciva a dividersi tra famiglia, lavoro e arbitraggi?
«Credo di essere riuscito a conciliare le cose. I miei figli sono sempre stati i miei più grandi tifosi e mia moglie mi ha sovente seguito nelle trasferte facendomi in molte occasioni da taxista. E mi dovevo anche allenare per essere in forma e correre sul campo come i giocatori per seguire da vicino le azioni. A Torino, per esempio, ogni mattina mi facevo 4 chilometri a piedi per andare in banca e dopo il lavoro andavo al Filadelfia. Mia moglie mi portava in auto, che poi lasciava a me, e tornava a casa in tram. A La Spezia mi allenavo nella pausa pranzo e la moglie del custode dello stadio mi portava un panino. Una sera ho arbitrato una partita internazionale a Istanbul. Il mattino dopo, ho fatto colazione prestissimo sul terrazzo di un grande albergo accanto allo stadio, ho subito preso un aereo per Roma e poi uno per Torino. Sfruttando le due ore di fuso orario mi sono presentato in perfetto orario all’appuntamento che alle 10 avevo in banca con un cliente importante. “Lei non immagina mai più dove io ho fatto colazione stamattina!” gli dissi quando lo incontrai».
La vita da arbitro proseguiva anche fuori dal campo
«Quando ero a Torino, tutti i colleghi che venivano ad arbitrare le partite della Juve o del Toro venivano a cena da noi. I miei figli, entrambi juventini, erano ancora ragazzini e se la Juve non aveva vinto, e magari l’arbitraggio era stato contestato, salutavano a malapena l’ospite, e solo perché era un mio amico, ma non restavano a cena».
Quando ha capito di essere diventato un arbitro importante?
«Quando iniziarono a designarmi per le gare internazionali. Nel ’75 arbitrai Scozia-Inghilterra, una finale molto impegnativa dell’annuale torneo tra Inghilterra, Galles, Scozia e Irlanda. Tra le moltissime esperienze internazionali ricordo soprattutto la finale del campionato europeo del ’76 a Belgrado, con Cesare Gussoni come guardalinee, e poi nel ’75 Iran-Iraq, prima della guerra tra i due Paesi, per decidere chi sarebbe andato alle Olimpiadi l’anno dopo. Un altro mondo. A Teheran fui anche invitato a cena nella residenza dello Scià, un lusso incredibile! Ho diretto anche una finale di Supercoppa Europea, Bayern Monaco-Dinamo Kiev, che inaugurava il nuovo campo di Monaco. Vinsero gli ucraini 1-0 e in quella partita fui il primo ad ammonire Beckenbauer, che chiamavano il Kaiser per la sua autorevolezza in campo. Dopo, a cena in un ristorante in cima alla torre girevole, alcuni tifosi del Bayern mi riconobbero e non mi sorrisero. Uscendo, a qualcuno scappò un “macaròni”. Io risposi con un secco “kartofen” e finì così».
“Mi sono rivisto tante volte: in quella finale molto difficile arbitrai serenamente”
Ma torniamo a quella finale in Argentina. Certe sue decisioni a molti non sembrarono particolarmente azzeccate… si disse che favorì il gioco duro dei biancocelesti. La giunta militare usò quella vittoria per far accettare agli argentini la loro dittatura e accreditarsi al mondo.
«Ho rivisto la registrazione della partita tante volte e non mi sembra di aver sbagliato più di tanto. Sono sereno oggi come allora. Sull’1-1 l’Olanda sbagliò un gol a porta vuota. Si andò ai supplementari in un clima agonistico molto teso. Gli olandesi erano alla loro seconda finale e avrebbero meritato di vincere. Finì 3 a 1 per gli argentini e gli arancioni se la presero con l’arbitro. Tutto il gran parlare che si fece di quel mio arbitraggio è dovuto anche a un giornalista inglese, che volle prendersi una certa rivincita, ma che tempo dopo mi chiese scusa. Mi spiego: con gli altri arbitri durante il mondiale eravamo andati a visitare la sede della Federazione calcio argentina dov’erano esposti tutti i trofei conquistati. Quel giornalista prese la parola e disse tra l’altro che l’Italia aveva fino ad allora conquistato solo una Coppa del mondo. Io gli feci notare che erano due, ma lui insistette dicendo che quella del ’34 non valeva, perché l’aveva “ordinata” Mussolini. Non mi trattenni, gli diedi dell’imbecille e lui si vendicò sparlando di me. Inoltre quattro anni dopo ci sarebbe stata la guerra delle isole Falkland, tra inglesi e argentini non correva già buon sangue e l’Inghilterra era stata eliminata in quei mondiali nella fase iniziale proprio da Italia e Argentina».
Minacce al telefono dai tifosi napoletani: la famiglia finì sotto scorta
Qualche altra volta è stato contestato?
«Poche volte. Ho anche ricevuto certe lettere… Ricordo un Inter-Napoli del ’72-’73: a tre minuti dalla fine concedo un rigore all’Inter, che vince. Il mattino dopo a Torino squilla il telefono. A mia moglie dicono: “Siamo venuti da Napoli ad ammazzare suo marito per il rigore di ieri”. E lei con una prontezza incredibile risponde: “E se fosse stato un rigore per il Napoli, andava tutto bene?” Misero per un po’ la scorta a tutta la famiglia, ma non successe nulla, nemmeno quando qualche tempo dopo andai ad arbitrare a Napoli».
Qualche decisione sbagliata ci sarà pur stata. Si è mai ricreduto, a posteriori, sulle sue decisioni?
«Si sbaglia in tutto. Nel calcio anche i giocatori sbagliano. Sul momento sono sempre stato perfettamente convinto delle mie decisioni. Roma-Lazio del ’73: un mio guardalinee aveva sbagliato e anziché far rimettere la palla alla Lazio, la affidò alla Roma, che un attimo dopo fece gol. Fu un inferno! Interpellai il guardalinee, lui ammise di essersi confuso e io annullai il gol e decretai una nuova rimessa e tre minuti di recupero. Applausi fragorosi!».
Ha lasciato il fischietto dopo i Mondiali del ’78. Le sono mancati l’arbitraggio e il mondo del calcio?
«Avevo raggiunto l’apice e poi volevo stare di più con la mia famiglia. Però sono stato ancora a lungo nel mondo degli arbitri. Ancora oggi molti vengono a farmi visita qui a Calliano. Sono venuti persino quelli dell’Olanda. Il calcio continuo a vederlo in tv, ma con l’audio abbassato… per non sentire certi commenti, sovente piuttosto strampalati».
Tra le innovazioni da lei introdotte nell’Aia, l’associazione italiana arbitri, va ricordata l’elezione dei presidenti di sezione e quello nazionale.
«In tutte le associazioni il presidente viene eletto, solo nell’Aia era nominato. Ne parlai con Nizzola, allora presidente della Figc, che fu d’accordo con me. Portammo la proposta in consiglio federale e fu approvata. Da allora la base si sceglie il presidente di sezione, che a sua volta vota il presidente nazionale».
Cosa pensa del calcio di oggi, degli arbitri di porta, della moviola in campo?
«È cambiato molto, ora girano troppi soldi. Il comportamento dei giocatori oggi è ben diverso. Una volta, a parlare con l’arbitro si presentava solo il capitano, molto garbatamente, con le mani dietro la schiena. Sono decisamente contrario alla moviola, anche se come arbitro non ne avrei timore. Gli errori sono umani e fanno parte del gioco, rendono più “normale” una partita… come a scopa. Il calcio è bello perché è così, è umano».
Anche lei ha vinto la sua coppa.
«Il 2 dicembre 2013. A Firenze a Palazzo Vecchio, con tutti i protagonisti del calcio italiano, mi è stato consegnato il riconoscimento “Hall of fame”, una riproduzione della coppa del mondo in cristallo. È stata una grandissima emozione».
Da qualche anno Sergio Gonella, dopo chissà quanti chilometri di corsa sui campi di calcio di tutto il mondo, è costretto ai “domiciliari” nella sua casa di Calliano, per problemi di salute. Gli è amorevolmente accanto la sua Dina (in gioventù stilista in maglieria nella boutique della mamma in corso Alfieri) che gli confeziona anche maglie incredibilmente belle. Gli sono vicini i figli, le nuore e i quattro nipoti. Non mancano le visite di amici che hanno ancora tanta voglia di parlare di calcio con lui, che d’ora in poi sarà ricordato da una stella sulle divise dei 35 mila “colleghi” arbitri di tutta Italia.
La scomparsa nel 2018 e l’intitolazione dell’associazione arbitri astigiani nel 2023
Sergio Gonella è morto a Calliano il 19 giugno 2018 e il 28 maggio 2023 gli è stata intitola la sezione astigiana dell’Associazione Italiana Arbitri, in precedenza intitolata a Paolo Minà.
Ultimo aggiornamento: 27 luglio 2024
La Scheda