L’elmo etrusco ha riacceso l’attenzione sui ritrovamenti, ma il fiume svela altre sorprese.
I geologi lo sanno: il corso di un fiume non è mai uguale a se stesso, si modifica, sposta il proprio alveo, si trasforma. Un lavorìo durante il quale il fiume non trascina con sé soltanto rocce, sabbia e terra, ma anche tutto ciò che l’uomo ha lasciato alla portata delle sue acque. E quanto più la civiltà si affaccia sulle sponde, tanto più è cospicuo il “bottino” delle correnti. A volte il caso o la curiosità o la tenacia scientifica degli uomini fanno sì che il fiume restituisca ciò che ha preso e custodito.
Il più clamoroso ritrovamento nell’area del Tanaro astigiano risale al 1875: è l’elmo crestato che fu deposto accanto al greto del fiume agli inizi dell’VIII secolo avanti Cristo. A quel tempo Asti non esisteva ancora, o meglio era poco più che un villaggio, raccolto sulle pendici dell’altura che oggi possiamo circoscrivere in un’area piuttosto modesta a sud di piazza Lugano e le antiche mura dietro la Cattedrale. E come il resto del Piemonte meridionale, anche quel luogo era abitato da una popolazione di ceppo ligure; avevano chiamato il posto “Ast”, il cui significato era “altura”. Vivevano di caccia e pastorizia.
Più tardi, quando i liguri-astigiani vennero colonizzati dai romani, questi ultimi traslitterarono il nome in “Hasta”, e allargarono la città inglobandone la Via Fulvia, che ne divenne il “decumano”, attraversandola da est a ovest, lungo il tracciato dell’attuale corso Alfieri.
L’area tra l’antica “Ast” e il fiume era ancora di là dall’essere colmata da case, piazze, rotonde e cavalcavia. Lungo il Tanaro, che scorreva tra due basse sponde limacciose, c’era una vasta zona acquitrinosa con salici, ontani e pioppi.
Chi portò al fiume quell’elmo deve essersi fatto un varco tra la vegetazione per raggiungere le sponde e trovare il posto adatto, o più probabilmente sapeva di dover arrivare ad un luogo già utilizzato per altre cerimonie rituali sacre o funerarie. Quell’elmo crestato era il segno di un riconoscimento tra pari: un mercante etrusco, si suppone, e un capo indigeno abitante del villaggio protoastigiano. Un riferimento al rituale con cui fu interrato il copricapo lo si trova anche nel volume Etruschi in Piemonte, di Alessandro Mandolesi: “Il pezzo fu ritrovato in perfetto stato di conservazione […] in una fossa posta in prossimità dell’alveo fluviale del Tanaro, all’interno della quale l’elmo era stato deposto intenzionalmente. […] In queste deposizioni il copricapo veniva utilizzato come coperchio di cinerari di forma perlopiù biconica, ed era un simbolo del ruolo sociale importante raggiunto dal defunto”. Quell’incontro tra le due figure, il mercante etrusco e l’autorità locale, era una delle prime forme di contatto commerciale che più tardi, nel VII secolo a. C., diede vita ad una complessa rete di rapporti. Ma fino ad allora, gli oggetti che dall’Etruria arrivavano fino all’area subalpina non erano – diremmo oggi – destinati all’export. Piuttosto, vanno considerati come doni destinati ai più alti esponenti delle comunità locali, e intesi come offerta. Il gesto serviva a facilitare i rapporti tra le due popolazioni, con gli Etruschi alla ricerca di nuovi sbocchi per il commercio tirrenico.
Prosegue Mandolesi, sull’elmo di Asti: “Le modalità di rinvenimento dei manufatti villanoviani in Piemonte fanno presumere […] che, una volta penetrati nelle società indigene, la destinazione finale dei doni esotici fosse principalmente quella votiva, ossia delle offerte deposte da stranieri o da capi-sacerdoti del posto in luoghi sacri, secondo la tradizione centroeuropea di lasciare omaggi in metallo presso gli alvei dei fiumi”.
L’elmo, dunque, venne interrato tra le pietre e le sabbie del Tanaro. E lì rimase, nonostante lo scorrere delle acque e la forza tumultuosa delle innumerevoli piene. Passarono quasi tremila anni, durante il quale tutto, dagli uomini alle colline, aveva cambiato aspetto. L’elmo in bronzo venne estratto casualmente nelle vicinanze dell’attuale ponte di corso Savona, e fin da subito lo si valutò come uno dei migliori ritrovamenti d’epoca etrusca in Piemonte. È un manufatto realizzato con cura: prevedeva un’imbottitura interna in materiali morbidi; tutto porta a pensare che fosse destinato a un capo guerriero o un sacerdote. Probabilmente l’oggetto proviene da una bottega di Veio, importante centro etrusco a 20 chilometri a nord di Roma.
È rimasto intatto il fascino e il mistero irrisolto di quel ritrovamento.
non sempre il fiume è stato così generoso da restituire reperti di importanza archeologica. Sono rari i ritrovamenti davvero significativi lungo le sponde astigiane: le acque nel corso dei secoli hanno inghiottito molto e restituito poco. Tra le cause da tenere in considerazione, il rapporto degli uomini con il fiume, sempre meno intenso. La pesca, il lavaggio dei panni e anche la balneazione sono ormai attività rare o improponibili oggi; abbondano invece cave e lavori sugli argini. È sparita la funzione di via comunicazione: erano numerosi i traghetti e le chiatte che solcavano le acque. Sono rimaste nei documenti del passato tabelle che testimoniano il costo per trasbordare da una riva all’altra uomini, animali e masserizie.
Due importanti porti-mulini, oggi dimenticati, valgono la citazione: quelli ai piedi del castello di Bellangero, nella piana di San Marzanotto e l’altro più a valle, nei pressi dell’abbazia di Azzano del tutto scomparsa.
Il Tanaro riserva anche altre sorprese. È successo non più tardi di due anni fa, più a monte, tra Santa Vittoria d’Alba e Verduno. Durante scavi di ripristino di una diga, sono affiorate le ossa di uno scheletro fossile, un mastodonte risalente a cinque milioni e mezzo di anni fa. Si trattava di una creatura alta tre metri e simile nell’aspetto al mammut.
I frammenti del mastodonte sono stati esposti durante una mostra ad Alba, intitolata non a caso “I tesori del Tanaro”. Nella zona albese il letto del fiume aveva già riconsegnato una spada dell’età del bronzo, collocabile intorno al secondo millennio avanti Cristo, oggi esposta al Museo Archeologico di Alba. Negli stessi luoghi emerse il cippo funerario di Caio Cornelio Germano, questore romano. La pietra incisa fu rinvenuta nel 1779.
Quel gioco in pietra
Nel tratto astigiano del fiume va citato il rinvenimento dell’ottobre 2008 sulle rive del Tanaro sotto le rocche di Antignano. In un palmo d’acqua, nascosta dal fango, è affiorata una stele di marmo di tarda età imperiale, databile al III-IV secolo d.C. Il blocco di marmo (73 centimetri per 34, spesso 7) ha attirato l’attenzione di un pescatore che dal fango ha visto trasparire lettere e strani segni su una superficie liscia. Con l’aiuto di un amico, il pesante oggetto è stato tirato in secca ed ecco la sorpresa di vedere inciso nel marmo il gioco del “filetto” (oggi più noto come “tela”) affiancato da alcune lettere di due o tre parole incomplete. La lastra di marmo doveva essere uno scalino od un davanzale di una taverna o di un luogo pubblico come le terme, su cui era stato inciso il gioco del “filetto”. In età tardo-romana vi giocavano specialmente i soldati delle guarnigioni. Come pedine venivano usate monete di poco valore, che alla fine costituivano il premio per il vincitore della partita. Resta il mistero di come quel blocco di marmo, molto probabilmente reimpiegato in costruzioni nei secoli successivi, sia finito in Tanaro. Di sicuro non si trovava in un piccolo insediamento isolato, ma proveniva da Asti, dov’erano molti i luoghi pubblici. Per essere finito nel fiume, a monte della città, contro corrente, poteva essere caduto da qualche imbarcazione che lo trasportava, magari per un suo reimpiego in secoli successivi. La Soprintendenza ai Beni Archeologici provvide a portare la stele a Torino, dove è stata ripulita e studiata e dove si trova tuttora.
Un furto con miracolo
Legato al fiume c’è anche un “giallo” di due secoli fa. Non è riconducibile tanto all’archeologia, quanto piuttosto a fatti di cronaca. Il 2 maggio dell’anno 1800, con i piedi a mollo sulla riva del fiume, due pescatori stavano per tornare a casa dopo una giornata infruttuosa. Solo per caso notarono una fune, assicurata alla vegetazione, che spuntava dall’acqua: tirando la cima, i due fecero emergere dalla sabbia del fondo un misterioso pacco che conteneva un busto d’argento e vari oggetti sacri. Era un periodo turbolento e le autorità ecclesiastiche non dormivano sonni tranquilli.
Per capire quella stagione, occorre sapere che in quegli anni la città era stata occupata, poi liberata e poi nuovamente occupata dalle truppe napoleoniche, e lo fu fino all’estate del 1800.
La notte tra il primo e il due maggio qualcuno si introdusse nella Collegiata di San Secondo e trafugò un prezioso reliquiario in argento con il busto del patrono ed altri oggetti sacri. La vicenda è raccontata in un volume del 1823, “Vita del glorioso martire S. Secondo”; l’autore è anonimo, e dalla copia conservata alla Biblioteca di Alessandria si rileva che i tipi sono della “Stamperia di Francesco Pila” di Asti.
Ecco il racconto “[…] alcuni ladri, previa scalata, e rottura delle ferrate alla finestra esistenti, e slogamento delle serrature del guardamobile, esportarono due calici, due pissidi, un raggio, un incensiere, una navicella, e quel che è dappiù l’antichissimo Busto d’argento rappresentante l’esimio Protettore S. Secondo da 18 secoli oggetto della universale religiosa venerazione. Allo spuntar del giorno scoperta la cosa, e divulgata la notizia diede il divoto popolo segni d’altissima afflizione e dirò così, di una sacra rabbia per lo smarrimento di un tanto prezioso tesoro”. A nulla valsero le ricerche che per ore misero a soqquadro la città: il prezioso e venerato bottino non si trovava. Nel suo tono enfatico, il cronista ottocentesco annota: “Ma non era alle opre umane riserbato il vanto di ridonare la gioja, ed il tesoro al popolo afflitto: volle Iddio con questo successo dare al suo Santo un nuovo titolo di gloria”. La città, infatti, gridò al miracolo quando il busto e il resto della refurtiva vennero rivenuti dai due pescatori: “… sulle sponde del vicino Tanaro, in sito assolutamente dimenticato, dove nelle innondazioni sogliono le acque depositarsi, Guglielmo Argenta, e Secondo Terzuolo, pescatori alle ore nove di Francia del mattino delli 2 maggio si recassero; e che non ostante la perduta speranza di rinvenire colà pesci stante le inutili precedenti prove, di colà non si dipartissero finché non s’intoppassero in una cordicella che appena visibilmente l’acqua lambendo veniva ad annodarsi ad un tronco della foltissima soprapposta siepe; per la qual cosa spinti dalla curiosità, a fatica traendo la fune, cavarono dall’acqua un panno lino di gravissimo peso, quale conteneva il Busto del glorioso Martire, le due pissidi, buona parte del raggio, l’incensiere, la navicella, nulla mancandovi che i due calici”.
I due pescatori, lasciati alcuni compagni a custodia del piccolo tesoro, corsero in città ad annunciarne il ritrovamento. Il testo prosegue con il resoconto dei festeggiamenti e indugia sul popolo festante che inneggia a San Secondo mentre si riversa sulle rive del fiume, uscendo dalla porta di San Rocco. Busto, turibolo e incensiere vennero immediatamente trasportati alla chiesa dei Santissimi Apostoli, che al tempo sorgeva appena fuori le mura, sulla sponda destra del Borbore, dov’è l’attuale cimitero. Si procedette a una prima pulitura degli arredi sacri e si organizzò una processione per riportare il busto di San Secondo nella sua Collegiata, dov’è ancor oggi. Da Porta San Rocco fino alla chiesa del Santo si snodò una solenne processione con il vescovo Pietro Arborio Gattinara, preceduto dal Capitolo e da varie Confraternite e con l’intervento della Municipalità e del Corpo Militare. Seguì una funzione di ringraziamento ed il giorno dopo vi fu un’esposizione “straordinaria” ai fedeli del busto di San Secondo. Le incisioni e i rilievi che lo arricchiscono fanno pensare all’opera di un maestro orafo lombardo, risalente alla prima parte del quindicesimo secolo. Si ritiene che il committente possa essere stato il duca di Bretagna, Francesco II, e che sia stato lui stesso a donarlo alla Collegiata.
Non si seppe mai chi avesse trafugato il tesoro di San Secondo. Un altro dei segreti custoditi dal Tanaro.