Per alcuni astigiani la “partita del secolo” non è stata Italia-Germania dei Mondiali del 1970, ma quella tra Asti e Mestrina del 1946
Se chiedete a un italiano, soprattutto di una certa età, quale sia la “Partita del secolo” (ventesimo) non avrà dubbi: la semifinale dei Mondiali di calcio del 1970, disputata il 17 giugno allo Stadio Azteca di Città del Messico tra Italia e Germania Ovest, finita 4-3 ai supplementari.
Nando dalla Chiesa, appassionato di calcio e attento studioso della società, ha pubblicato il libro Quattro a tre. Italia-Germania. Storia di una generazione che andò all’attacco e vinse (quella volta). Nel testo sono raccontate le emozioni di un incontro folle e meraviglioso e le figure dei protagonisti – da Boninsegna a Burgnich, da Riva a Rivera – e della pazza notte che ne seguì, descrivendo l’Italia del dopoguerra, del boom, del Sessantotto: un’Italia molto lontana da quella di oggi.
Si festeggiò fino all’alba nelle strade, nelle piazze, nelle spiagge e ovunque fosse possibile gioire, abbracciarsi, sventolare un tricolore. Quella notte fu un momento disordinato di incontri, passioni, rancori, rivalità, utopie, batticuori di più generazioni: quella cresciuta al tempo di una guerra persa e poi emigrata nell’Europa del «divieto di ingresso ai cani e agli italiani» e quella “meglio gioventù” che provava a sperimentare se stessa e la democrazia nelle Università, al lavoro e in piazza. Generazioni diversissime, ma unite dalla speranza di un futuro migliore.
Tante figure anonime, ma protagoniste, che stavano dando vita a un’era senza la quale il più famoso dei “quattro-a-tre” sarebbe stato solo un episodio sportivo, un momento di tifo, e mai uno dei più significativi eventi collettivi di costume, di rivalsa e di unità nazionale della seconda metà del Novecento italiano.
Il racconto si fa toccante quando la descrizione di quella storica partita, e di tutto quello che vi ha girato intorno, riporta di quelli che come me avevano poco più o poco meno di vent’anni: quelle atmosfere, quelle vicende vissute e le speranze che ci agitavano allora. Commozione, coinvolgimento e ricordo struggente.
Per i miei genitori, figli di un altro tempo, di altre tragedie e di altre speranze, anche di un altro calcio, ovviamente, la vera e unica “Partita del secolo” fu un’altra. Si svolse in due epici scontri il 20 e 27 luglio 1946 e, purtroppo per gli astigiani, ebbe ben altro esito che quella più celebre di Riva e Mazzola.
Il racconto del loro avventuroso viaggio nell’Italia semidistrutta per andare a Venezia «a vedere l’Asti andare in B», è stato uno dei loro ricordi più appassionati.
Quel viaggio di 400 chilometri lungo tutta la pianura Padana
Un lungo andare nella notte estiva per la Padana Inferiore, ancora mezza devastata dai bombardamenti e dall’incuria, con una corriera approssimativa. Barbera, salame, canti, allegria all’andata; stanchezza e tristezza al ritorno perché il lunedì si doveva andare a lavorare e il sogno non si era avverato.
Fino a quando sono nata io, mio padre e mia madre di gite domenicali per le trasferte dell’Asti ne hanno fatte tante: sveglia alle 4 per preparare i panini con la frittata, messa alle 5 e partenza con la Vespa, ma mai così lontano, a Venezia, mai per un sogno così splendido.
Quella corriera “sgarrupata” che va tra ponti crollati e case diroccate, inseguendo una speranza, è una significativa immagine dell’Italia del 1946. È il miglior esempio di quel calcio metafora della vita o della vita come metafora del calcio.
Partiamo però dall’inizio, o meglio, dalla fine della Guerra e dalla voglia di tornare alla normalità.
I galletti dell’Asti calcio non erano mai riusciti a costituire un vertice di quel quadrilatero del Piemonte orientale formato da Alessandria, Pro Vercelli, Casale e Novara che per decenni contese alle squadre torinesi di Juve e Toro, campionati e campioni.
Durante il conflitto il calcio giocato non si era interrotto del tutto, nonostante la maggior parte dei giovani maschi fosse tristemente lontana dai manti erbosi, in Africa, in Russia, in prigionia o, dopo l’8 settembre, tra i ribelli in collina.
Il campionato 1942-43 fu vinto dal Torino; non vennero invece disputati quelli degli anni successivi. Tuttavia nelle stagioni 1943-45, nonostante l’Italia fosse divisa in due, ci furono tentativi di giocare: al Sud e al Centro furono organizzati tornei regionali, mentre nell’Italia occupata dai nazisti si giocò il Campionato Alta Italia.
La gara di andata si chiuse 0-0, i galletti sbagliarono un rigore
Quando finalmente tornò la pace, nel Paese che voleva far ritorno alla vita, alla speranza, alla democrazia, il fùtbol come si tornò a dire e pronunciare dopo gli anni dell’italianizzazione forzata, ebbe subito un ruolo importante.
Con un senso che può essere racchiuso nella frase-manifesto dello scrittore brasiliano Edilberto Coutinho: «L’uso che in certi casi le dittature fanno del calcio non invalida il gioco, la forza magica della sua bellezza e della sua emozione. Che continuano a prevalere. Perché il calcio, come la letteratura, se ben praticato, è forza di popolo. I dittatori passano. Passeranno sempre. Ma un gol di Garrincha è un momento eterno.
Non lo dimentica nessuno». Il primo problema fu l’ostracismo decretato all’Italia dagli organismi sportivi internazionali. In Fifa, infatti, si era andata consolidando un’opinione in base alla quale il nostro paese, come Germania e Giappone, dovesse essere messo al bando dalle competizioni internazionali per un certo numero di anni.
Per nostra fortuna l’Italia era Campione del Mondo in carica. Il Commissario tecnico Vittorio Pozzo, nel corso della guerra, per preservare la Coppa Rimet da possibili requisizioni organizzate dai nazisti, aveva nascosto il preziosissimo trofeo nell’aia di una fattoria piemontese.
La Coppa rispuntò solo a guerra finita, anche se secondo una leggenda, documentata in un film, venne disputata un’edizione della Rimet in periodo bellico in Patagonia. Il Mondiale, quello vero, si tornò a giocare nel 1950 in Brasile con gli azzurri riammessi e quasi subito eliminati dalla Svezia e i carioca che persero la finalissima in casa con l’Uruguay. Un dramma nazionale, mai dimenticato.
Ma torniamo in Italia che si ritrovò il 25 aprile 1945 in macerie e spezzata in due. Gli accaniti combattimenti lungo la Linea Gotica dell’inverno 1944-45 avevano gravemente compromesso le linee di comunicazione sull’Appennino, rendendo assai difficoltosi gli spostamenti fra la Pianura Padana e le regioni del Centro-Sud. In queste condizioni, per motivi contingenti, non si poteva ritornare al girone unico dell’anteguerra e si dovettero creare due tornei distinti. Al Nord fu costituita la Lega Nazionale Alta Italia che gestì il campionato in continuità con quello prebellico di serie A, ammettendo tutte le società che avrebbero avuto titolo di partecipare alla massima serie della soppressa stagione 1943-44. Il campionato Alta Italia fu vinto da “quel” Torino che, grazie a un ottimo finale, riuscì a superare in classifica l’Inter, vincendo lo scontro diretto.
Il 14 ottobre 1945, nella prima giornata del nuovo campionato, si giocò Juventus-Torino che finì 0-1.
In tribuna c’erano anche, senza conoscersi ancora, mio padre (torinista ed ex calciatore) e mia madre (juventina), andati a godersi il primo derby democratico e di pace in bicicletta. Fu un derby galeotto, dando vita a una famiglia molto appassionata di calcio per quanto divisa nel tifo, soprattutto quando al torinista e alla juventina si aggiunse una figlia irrimediabilmente interista.
Ma tutti eravamo accumunati dal tifo per i galletti dell’Asti. Anche in quegli anni difficili dove il calcio era l’unico “sfogo”. L’Asti nel campionato 1939-40 era in serie C ed era finita quarta dietro il Casale che la eliminò in Coppa Italia. Mantenne le posizioni anche nei due campionati successivi. Quello del 1942-43, segnato dai bombardamenti e dalla recrudescenza del conflitto vide l’Asti penalizzato per una serie di rinunce alle trasferte ed escluso dalla 22 giornata e assegnato d’ufficio all’ultimo posto.
Nel 1944 i galletti disputarono il girone piemontese-ligure del campionato Alta Italia a 10 squadre, vinto dal Torino Fiat, seconda la Juventus Cisitalia. L’Asti finì settimo davanti a Casale, Alessandria e Cuneo. La formazione tipo di quella stagione difficile era: Sain, Manfredini, Soldani, Callegari, Acquarone, Gazzarri, Canova, Garavelli, Bertoni, Maestri, Pagliano. Dal campionato1945-46 le migliori squadre di serie C furono aggregate alla serie B. Le restanti vennero unite alle squadre migliori della Prima Divisione Regionale e a un nutrito contingente di club cui venne attribuita la categoria persa per cause legate alla situazione politica del paese. Un esercito di 112 sodalizi, suddiviso in nove gironi, i cui vincitori avrebbero avuto accesso alle finali in cui era in palio un solo posto per la serie B dell’anno successivo. Anche l’Asti ripartì da questa serie C, arrivando per ben tre stagioni consecutive a disputare gli spareggi per la B, senza però mai riuscire a imporsi.
Nel campionato 1945-46 fu inserita nel girone D con Volpianese, Divisione Cremona, Acqui, Speranza Saviglianese, Fossanese, Ivrea, Piemonte, Aosta, Saluzzo, Pinerolo, Veloces Biella. Vincendo il girone con 33 punti, l’Asti si qualificò alle semifinali con Stradellina, Vimercatese, Parabiago e Melzo. Vinse anche questa fase con 12 punti e fu ammessa alla finale che avrebbe potuto aprire le porte della serie B.
Il 7-2 del ritorno premiò i veneziani
Avversaria fu la Mestrina, società della terraferma veneziana, i cui giocatori indossavano una maglia arancio-nera. Una bella avventura finita però nel peggiore dei modi. All’andata, ad Asti, si chiuse sullo 0-0, con i nostri sfortunatissimi che colsero un palo e sbagliarono un rigore a due minuti dalla fine. Al ritorno si giocò quella terribile partita di Mestre che videro anche i miei genitori dopo un viaggio di 400 chilometri su mezzi di fortuna e su strade dissestate. Finì con un sonoro 7-2 a favore dei padroni di casa.
La memoria della vittoria veneziana è ancora viva, come è testimoniato nel libro Un ruggito lungo un secolo. Cento anni di calcio a Venezia e a Mestre di Umberto Zane. L’autore narra infatti il viaggio per la trasferta inversa con elementi della partita di andata, terminata appunto a reti inviolate. Al ritorno, nello stipato stadio di via Baracca di Mestre, alla presenza di almeno 8000 spettatori, due dei sette goal segnati dalla squadra veneta furono di Nello Mason che si racconta nel libro. È riportata anche la cronaca del Gazzettino Sera: «L’Asti in casa era apparso una squadra solida e quadrata. Ieri, invece, è crollato, travolto dall’orgasmo. Esso non ha capito più niente e per 85 dei 90 minuti è sembrato una squadra di divisione minore in balia di un colosso».
Nella stagione successiva, 1946-47, la storia si ripetè. L’Asti giocò la lunga e controversa finale a tre squadre che decretò il successo del Magenta. Nel campionato 1947-48, Biellese, Asti e Omegna, risultando prime nel proprio girone, furono iscritte d’ufficio alla nuova serie C, mentre si stava disputando l’ennesima finale per salire in serie B. Finì così il sogno di tutta una città di vedere la propria squadra militare nel campionato cadetto, vicino al calcio che conta.
Gli interisti si vantano da sempre di essere l’unica squadra italiana «Mai stata in B». Per gli astigiani l’affermazione non cambia, pur essendo opposto il senso della frase: «Mai stati in B… ma ci siamo andati vicino!».
Le schede