Sono occorsi vent’anni. Nell’aprile 1996 fu decisa la chiusura al pubblico, per le gravi condizioni di degrado, dei locali in Palazzo Alfieri sede del museo, della biblioteca e dell’archivio del Centro Nazionale di Studi Alfieriani. Il 12 maggio 2016, mentre la città imbandierata ospitava l’adunata nazionale degli Alpini, si sono riaperti i battenti del portone del palazzo. Il pubblico è stato così numeroso da salire a fatica lo scalone d’onore. C’erano curiosità e interesse. I visitatori trovavano ad attenderli il nuovo percorso didattico del museo, derivato dal progetto scientifico deliberato, nell’ottobre 2005, dalla Fondazione Centro di Studi Alfieriani e approvato dalla Soprintendenza il 29 novembre di quell’anno, in parallelo al progetto definitivo dello studio Nivolo, entrambi perfezionatisi negli anni.
Sono passati poco più di sei mesi e lo scorso 16 gennaio (anniversario della nascita di Vittorio Alfieri), anche le stanze della casa del poeta sono entrate a far parte del percorso di visita, non più disadorne, ma allestite con parte degli arredi. Tra gli altri, sono tornati al loro posto il letto e i dipinti restaurati dal Laboratorio Nicola di Aramengo: il ritratto di Vittorio Alfieri realizzato dal Fabre nel 1797, i ritratti della mamma, dei nonni materni e della sorella Giulia.
La storia di questo spazio ritrovato è complessa. Successivamente alla chiusura, il Centro aveva lasciato il palazzo nel 2000-2001 ed erano iniziati i lavori edili da parte del Comune, in seguito, fra 2007 e 2013, finanziati dallo stesso Centro Alfieriano. Si intrecciarono con il quinquennio delle celebrazioni (1999-2003) per il 250° anniversario della nascita e il 200° della morte di Vittorio Alfieri, e con l’iter burocratico, imposto da un Decreto ministeriale dell’ottobre 1999, relativo alla trasformazione del Centro in Fondazione (istituita nel 2002 e insediatasi nel 2004), in continuità giuridica con il Centro stesso.
Lavori preliminari, come la fondamentale schedatura precatalogo dei beni del museo, o i rilievi stratigrafici per individuare elementi decorativi (curiosamente assenti) sui soffitti, si alternarono ai contatti con la squadra dei restauratori, alla supervisione da parte delle Soprintendenze, ai frequenti cambi di sede operativa e di spazi per la Biblioteca, alla messa in sicurezza dei volumi antichi (grazie alla Cassa di Risparmio di Asti) e agli interventi di restauro delle incisioni e delle fotografie di scena, al nuovo inventario dei manoscritti. Le energie erano tese alla riapertura, con un impegno ininterrotto sul piano della divulgazione, nel senso più alto e nobile del termine, attraverso gli affollati cicli di incontri con relatori, attori e musica o iniziative di successo, come la mitica “Cioccolata del Conte”, durante la Douja d’Or.
Una offerta culturale per la città e il mondo
Il pubblico numeroso delle due complementari inaugurazioni ha dato la conferma che il rischio temuto di aprire una sorta di “cattedrale nel deserto” era stato sventato. Alfieri e il suo palazzo possono tornare a pieno titolo nell’offerta culturale della città, rivolta agli astigiani e ai visitatori italiani e stranieri. E, più emozionante del previsto, è stato il “premio”: la consapevolezza che il lavoro svolto (spesso con disagio, fatica, carenza di risorse), avesse avuto un senso, segnato un tempo, colmato per quanto possibile un vuoto, creato un’attesa e aspettative, cioè senso di appartenenza.
L’allestimento didattico attuato rispetta i punti di forza del progetto scientifico originario, cioè la volontà di fornire gli strumenti per incontrare il poeta attraverso le vicende della sua vita, le sue passioni, dalla cioccolata ai cavalli, i viaggi fra le capitali del tempo, fino alle remote steppe della Russia. Si è voluto mettere in luce non solo l’autore di teatro, ma anche l’uomo di teatro, autore-attore, solito interpretare i personaggi amati delle proprie tragedie, come Saul.
E ancora, ci si è prefissati di favorirne l’incontro, non scontato, attraverso le altre arti, dalla pittura all’incisione, fino alla musica, per illustrare il sorprendente rapporto del melodramma ottocentesco con il linguaggio alfieriano. Prioritario era mettere a disposizione il lavoro dei sedici anni trascorsi dall’uscita dal Palazzo, nel 2000, a partire dai numerosi video prodotti, relativi a letture di pagine alfieriane e ai restauri, per giungere ai video delle Teche Rai, con i grandi interpreti del Novecento, o a quelli prodotti da Telesubalpina, a memoria delle attività svolte durante le Celebrazioni. Senza dimenticare la lunga ricerca iconografica di stampe e dipinti coevi, relativi alle città in cui il poeta visse o fece tappa viaggiando.
Museo, biblioteca e archivio sono vasi comunicanti
Pareva fondamentale che museo, biblioteca, archivio si ponessero come “vasi comunicanti”, realtà complementari, tramite l’accostamento di atti notarili (il testamento di Antonio Amedeo, padre di Vittorio, gli inventari, gli estimi ecc.), altri manoscritti (lettere e sonetti), cimeli (dalle spade al bastone da passeggio, al prezioso frustino in avorio) e libri, antichi (come le prime edizioni delle tragedie) e più recenti (come le tavole genealogiche degli Alfieri). E poi ingrandimenti fotografici, incisioni, gessi, marmi, medaglie: ritratti del poeta che, attraverso tecniche diverse, ne forniscono svariate interpretazioni, secondo gusto e sensibilità degli autori. Non tutto, certo, è perfetto.
Personalmente, ad esempio, avevo composto pannelli didattici più brevi e veloci (come esige la moderna comunicazione museale) e, anzi, avrei voluto dar voce al poeta. Penso che si debba proseguire a lavorare, implementare, aggiornare, tradurre in più lingue per rivolgersi a un pubblico sempre più vasto e attivo, non fruitore passivo. Per ricordare che una casa-museo, la casa di un “grande” (poeta, pittore, musicista che sia) è una realtà a sé stante, unica, perché racconta una vita, evoca i mondi interiori dell’autore.
Per ricordare anche, tuttavia, che per una città essa è una straordinaria “carta da giocare”, una opportunità da cogliere in tutte le sue valenze, capace di creare “indotto”, di aggregare ricerca, conservazione, teatro, scuola, università, economia, enogastronomia. Capace di suscitare richiesta, di rinnovare l’offerta. Forse, in un domani non impossibile, di significare opportunità di lavoro. In questa casa, la “casa paterna”, secondo la definizione del poeta, implicitamente contrapposta alla “casa del patrigno”, con i cinquantun locali che contava all’epoca, suddivisi in due appartamenti al piano nobile e due al piano terreno, Alfieri bambino sperimentò i primi sintomi del proprio carattere appassionato e melanconico.
Proprio in quell’“umor malinconico” il futuro poeta avrebbe trovato stimolo e ispirazione alla scrittura. Forse per questo, la casa trova il suo fascino anche nell’essere, nei ricordi dell’autobiografia, casa della malinconia, dell’incipiente, inconsapevole, travolgente malinconia di Alfieri bambino, segnato dalla morte del padre. Antonio Amedeo Alfieri, infatti era morto il 5 dicembre 1749, a seguito di una polmonite o pleurite, una “puntura”, si legge nella Vita, contratta nello “strapazzo continuo” del quotidiano percorso a piedi dalla città a “un borghetto distante circa due miglia da Asti, chiamato Rovigliasco” [Revigliasco], dove il piccolo Vittorio, nato il 16 gennaio dello stesso anno – non il 17, giorno del battesimo, come egli annota – era stato dato ad allattare a una balia.
Sappiamo che nella casa natale Vittorio Alfieri trascorse pochi anni, alternando dimore diverse per periodi più o meno lunghi della sua vita, non solo in Italia, eppure solo questo Palazzo gli appartenne. Qui visse fino all’età di cinque anni e mezzo, perché nel 1754 seguì la madre, Monica Maillard de Tournon, di origini savoiarde (già vedova con quattro figli da un precedente matrimonio e risposatasi in terze nozze con il cavaliere Giacinto Alfieri di Magliano, cadetto di un altro ramo della casata) nella nuova dimora, “la casa del patrigno”, appunto, all’estremità ovest di quella che oggi è piazza Cagni.
Ritrovare in questi spazi l’energia alfieriana
Il Palazzo fu quindi la casa della nascita e dei primi passi, ma anche dei primi morsi di quella feroce energia, scaturita dal conflitto con il m ondo circostante, dall’impossibile rispecchiamento del bambino nell’universo degli adulti, energia vitale che trovava alimento nell’attrazione per la morte. Alla pulsione di morte Alfieri contrappose la scrittura, che divenne, infatti, un sostituto della vita.
Se la storia di un luogo, come la nostra vita, è la somma di infiniti presenti che coesistono, le nostre scelte di oggi, dovute alla passione e all’impegno di questo presente, richiamano quelle dei tanti che vollero che questa realtà esistesse. Credo che oggi si debba raccontare, attraverso la storia del Palazzo, la storia del rapporto di una comunità, locale e internazionale, con un museo, una biblioteca, un archivio inscindibili, in grado di rimandare alla pagina scritta. Senza dimenticare, infatti, che questa è la casa di un poeta.