Domenica 2 ottobre 1983, ore 17 circa.
Squilla il telefono di casa mia. «Pronto? Qui i carabinieri di Susa. Casa Nettuno?»
Penso subito a uno scherzo (eravamo soliti farceli in quegli anni) e rispondo: «Sì, sono il dio del mare.» L’interlocutore non afferra e mi dice: «Le passo il signor Novello.» Continuo a pensare a uno scherzo. La sera prima, Giancarlo (Novello), Luisa, sua moglie, Renzo e Francesca, fidanzata di quest’ultimo, mi han detto che il giorno dopo (domenica) sarebbero andati a Genova a vedere una mostra sui nativi americani. E ora li immagino lì, vicino a una cabina telefonica, pronti a farsi una risata. Ma il tono di Giancarlo è di quelli che non lasciano equivoci.
«Luciano, se puoi, vieni subito. Siamo precipitati in un tunnel. Luisa adesso è in ospedale per le prime cure.»
«Ma dove siete?»
«A Susa, eravamo saliti sul Rocciamelone.»
«Sì ma… e Renzo? E Francesca?»
La risposta di Giancarlo è glaciale: «A loro puoi metterci una croce sopra.»
Non riesco a proferire parola, solo un urlo. Rosalba arriva preoccupata dall’altra stanza. Giancarlo deve andare: «Venite prima possibile!». Spiego quel che so a Rosalba. Tunnel?
Non capiamo. Sappiamo solo che dobbiamo partire.
Arriviamo a Susa verso sera, sconvolti e col cuore a pezzi, in tempo per vedere Luisa, incosciente su una barella che sta per essere trasportata a Torino all’Ospedale Molinette. Salutiamo anche Giancarlo, suo marito, che, con qualche graffio appena, sale con lei sull’autoambulanza. Chiedo a un medico: «Se la caverà?». Lui mi tranquillizza: «Sì, ma ci vorranno tre mesi».
Il pensiero va a Renzo e Francesca. Ci chiedono di riconoscere i corpi che sono stati sistemati nella chiesetta del cimitero di Mompantero, un paese lì accanto da cui parte la salita al Rocciamelone. Intanto veniamo a conoscere cos’è successo di preciso. I quattro amici (più un’altra persona conosciuta sul posto, il torinese Mario De Maria di 44 anni) stavano prendendo il sole, nelle ore calde del giorno, su un lastrone di cemento, copertura terminale di una dismessa teleferica militare (il “tunnel”), da sempre meta di sosta per chi saliva su quel monte. Improvvisamente il lastrone si è rotto a metà facendo precipitare i cinque per oltre due metri per poi schiacciarne quattro tra gli enormi spezzoni.
Tre di loro (Renzo, Francesca e il De Maria) vengono totalmente schiacciati mentre Luisa lo è “solo” parzialmente e Giancarlo praticamente illeso. In chiesetta vedo tre corpi composti alla meglio e ne riconosco due. Mi avvicino a Renzo e ne sfioro il petto irrigidito nella morte, ma uguale a come ce l’aveva in vita: magro, duro e forte. “Roccia” chiamavo Renzo quando gli battevo scherzosamente la schiena o il torace. Faccio un accostamento idiota: Roccia Rocciamelone, dovevi proprio venir a morire qui? Tralascio i dettagli delle ore seguenti e lo strazio di amici e famigliari; dico soltanto che quella notte, in un albergo di Susa, io e Rosalba piangiamo tutte le nostre lacrime. Renzo e Rosalba erano diventati molto amici: al mare stavano delle ore insieme in acqua a farsi gli scherzi. Quella notte non chiudo occhio.
Verso l’alba guardo dalla finestra le montagne e il cielo.
Questo è ancora particolarmente pieno di stelle e io cerco quella giusta. In mattinata andiamo alle Molinette di Torino per trovare Luisa e là scopriamo con sgomento che anche lei è morta durante il trasporto in ambulanza (altro che «tre mesi e se la cava»!). Il lutto è profondo.
Renzo Fornaca era il caparbio coordinatore, organizzatore del gruppo, quello che teneva i conti e la memoria degli spettacoli, quello che non mancava mai, amico mio e di Tonino da sempre. Da poco aveva conosciuto Francesca (anche lei operaia, di Villastellone) e si era come illuminato, faceva progetti. Luisa Steffenino era insegnante nelle scuole materne, una presenza mite e costante, sempre cortese, simpatica, a volte ironica dietro un velo di malinconia. Nei giorni che seguono precipitiamo tutti in una sorta di assenza pneumatica, come se ci fosse mancato di colpo il respiro, schiacciati anche noi da un peso enorme, indicibile. Non riusciamo infatti neanche a parlare fra noi («Le parole sono intrattabili» diceva Pavese).
Oltre ad abbracciarci e piangere, riusciamo solo a scrivere brevi frasi, frammenti emotivi. «Adesso loro – scrivo – sanno tutto di me, di noi». E sotto una croce di legno, nel luogo della tragedia, poniamo una frase da un recente spettacolo: «Come un ramo strappato da un albero, che si porta via un polmone della terra».
Ci vorrà un po’ di tempo prima di tornare alla nostra attività al Magopovero. Per alcuni anni istituiamo un “Premio Renzo e Luisa” rivolto a gruppi amatoriali, associazioni ecc. Poi le cose cambiano: l’assenza dei due amici si fa sentire e determina, in qualche modo, la fine del Collettivo, con l’innervazione dei suoi membri in molteplici ambiti della vita culturale e professionale di Asti.
Oggi molti del Collettivo di allora lavorano in importanti gangli della società astigiana: avvocati, dirigenti comunali e provinciali, insegnanti, giornalisti di livello nazionale ecc. Altri hanno continuato a fare teatro, musica e canto in vari gruppi e formazioni. E gli anni seguenti vedono l’affermarsi del gruppo professionistico…